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Orsi di metallo prezioso - Secondo report dalla Berlinale

Altri film che abbiamo visto e recensito per voi a Berlino.

Dopo un primo resoconto della Berlinale di quest'anno, ecco il resto dei film che siamo riusciti a vedere al Festival del Cinema di Berlino.

GNADE (Mercy) di Matthias Glasner, Germania

Terzo film sulle famiglie coi problemini in concorso alla Berlinale, la presenza dell'attore Jürgen Vogel ( L'onda, 2006) mi aveva inizialmente fatto ben sperare, ma purtroppo no. Moglie e marito si trasferiscono col figlio in Norvegia, lui lavora su una piattaforma per l'estrazione del gas, lei fa l'infermiera. Mentre Niels si dà all'adulterio come ha sempre fatto anche in passato, Maria investe qualcosa sul ciglio della strada e… "niente sarà più come prima"! Da qui in poi si sviluppa quello che vorrebbe essere un drammone scandinavo dalle tinte cupissime, rischiarato solo dal bagliore dei ghiacci che lo circondano, ma che invece si riduce soltanto a un lungo stillicidio dei personaggi (e dello spettatore). La tragedia dell'omicidio involontario si consuma con un senso di colpa tutto particolare; la coppia nega il fatto prima a se stessa, e pur con la certezza di essere colpevole, al resto del mondo. Ma ovviamente, nella disgrazia più grande, i due si riavvicinano e riconquistano l'intimità e la felicità perduta, mentre un'altra famiglia, quella della vittima, consuma pacificamente ma alla scandinava il proprio lutto (con uno strappamento di vesti & di core molto silenzioso). Arriviamo a stento alla catarsi finale e per suggellare l'happy ending tutti si precipitano a fare grigliate di pesce in riva del mare. Nonostante una location veramente mozzafiato, la fotografia insiste fin troppo sul paesaggio, riducendo le infinite distese di neve ad uno stacchetto tra scenette, del tipo ripresa aerea delle pampas in una telenovela argentina. E del resto, il gioco tra inverno-buio totale ed estate-luce perenne, che tanto vorrebbe fornire un parallelo con l'elaborazione affettiva del disastro, è così esplicita da diventare banale, tanto più che ci si mette di mezzo pure l'aurora boreale, simbolo ambiguo insieme del male (accade solo d'inverno) e della speranza (è uno spettacolo meraviglioso). Cosa abbiamo imparato da Mercy? Mai trasferirsi nel circolo polare artico, e mai, dico mai, guardare l'aurora boreale mentre si guida.

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BAI LU YUAN (White Deer Plain) di Wang Quan'an, Cina

Più di tre ore in mandarino in costume (quasi) senza colonna sonora: pensavo che sarebbe stato troppo per chi, come me, è assolutamente a digiuno di cinema asiatico. E invece WOW, che roba ragazzi! Giustamente vincitore dell'Orso d'Argento per la fotografia di Lutz Reitemeie, White Deer Plain è una lunga commedia umana narrata coi ritmi e i modi di una saga epica, un'epopea drammatica che percorre trent'anni di storia cinese attraverso la vicenda di due famiglie e due generazioni. A partire dagli anni Dieci, dal passaggio dall'Impero alla Repubblica fino all'invasione giapponese, tre personaggi si passano il testimone di ruolo principale, lasciando man mano più spazio al protagonista successivo e ritirandosi nell'ombra del procedere della Storia: un insegnante e "grande capo" di un villaggio (White Deer Plain, per l'appunto), il figlio ribelle, mietitore nei campi di un signorotto locale, e la moglie del signorotto locale. Contadino e moglie si mettono a fare le cosacce in cima a una palla di fieno, vengono sgamati e, colpevoli di adulterio, condannati a vivere una vita di miserie. Il ruolo interpretato da Zhang Yuqi (attrice bellissima, è davvero impressionante) è quello dominante e va molto bene così: la sua posizione di donna permette di narrare i cambiamenti da un altro punto di vista, senza però calcare la mano su un eventuale processo di emancipazione o rivendicazione di indipendenza femminile. Ma, come già detto, più di tutto vale la fotografia: incredibili le scene di gruppo, dalle assemblee popolari al riposo dopo il lavoro nei campi, colte da inquadrature spesso immobili e poi spezzate da moti violentissimi, organizzate al loro interno con una perizia quasi matematica. Ogni cosa è al suo posto, ogni colore e sfumatura è perfettamente studiata, senza però apparire artificiosa; la composizione degli elementi al suo interno è talmente ricca e plastica—pur mantenendo la patina distaccata della Storia—da far ricordare anche all'occhio più pigro le grandi opere del Rinascimento italiano.

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CSAK A SZÉL (Just The Wind), di Bence Fliegauf, Ungheria, Germania, Francia

Ed eccoci al miglior film visto alla Berlinale, vincitore del Premio della Giuria. Forse per la prima volta ho assistito a una rappresentazione della cultura zingara priva di patetismi e/o eroismi, e, al contrario, sono rimasta stupita dalla profonda capacità di mimesi e dall'estremo rispetto dimostrati dal lavoro di Bence Fliegauf. Non credevo fosse possibile, per lo meno in Europa, affrontare l'argomento "zingari" con neutralità; e non solo Just the wind riesce benissimo nell'intento, ma offre allo spettatore anche un'ottima storia, un cast di attori notevole e alcune delle immagini migliori viste di recente (il finale! Il finale è una bomba). In un piccolo villaggio dell'Ungheria quattro famiglie appartenenti alla comunità zingara vengono brutalmente assassinate da un misterioso commando (che si dice) razzista. La quinta famiglia, una madre con due figli adolescenti e il nonno—il padre è in Canada, dove sperano di raggiungerlo al più presto—cerca di tirare avanti, in sospeso tra l'ansia di essere le prossime vittime e il rifiuto di trovare una via d'uscita inserendosi nella società ungherese (tentativo che viene comunque frenato da discriminazioni e violenze pressoché ovunque). In uno stato di crescente angoscia, palpabile nel clima afoso così come negli interni, abbandonati in uno squallore che non vede possibilità di ordine e bellezza, l'unico sollievo è dato dalla campagna circostante, ma solo quando non è brutalizzata dalla presenza dell'uomo (zingaro o non zingaro, poco importa). Ispirato a una serie di eventi realmente accaduti, Just the wind è un capolavoro strano, crudo, forse perché troppo sincero.

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REBELLE (War Witch), Kim Nguyen, Canada

Altro lavoro notevole in concorso alla Berlinale, dopo aver visto Rebelle ho iniziato a dubitare della mia solita spocchia nei confronti del genere "dramma del terzo mondo". Ed è vero: più stupri, più spari, più uccidi e sevizi, più brutalizzi ed emargini i tuoi personaggi, più possibilità hai di beccarti un premio cinematografico. Ma Rebelle ha giustamente vinto l'Orso d'Argento per migliore attrice protagonista—quella della quindicenne congolese Rachel Mwanza—perché non è solo un film sulle disgrazie del mondo africano: è insieme film d'azione (o di guerra), di denuncia sociale, romanzo di formazione, fiaba fantastica, storia d'amore. Il regista Kim Nguyen è riuscito a creare un'opera omogenea ed estremamente godibile: pur trattando un argomento pesantissimo—la guerra civile in Congo e i bambini soldato—il film offre diversi momenti di respiro, leggeri, quasi divertenti, in un lavoro che appare perfettamente coeso in tutte le sue parti o generi, merito prima di tutto dell'interpretazione di Mwanza e di un cast altrettanto capace. Komona, 12 anni, rapita da un gruppo di ribelli, costretta a uccidere i propri genitori e a imbracciare il fucile, è una strega, o meglio, è ritenuta tale perché in grado di "sentire" l'arrivo delle milizie governative. Due sono le scene imperdibili, la prima visione di Komona e la visita a una comunità di neri albini: nel primo caso saltate letteralmente dalla poltrona, il secondo vi fa avere gli occhi di Stephen Merchant per cinque minuti buoni—oggy oggy oggy eye!—, davvero incredibile. Anche se il lato tragico della vicenda è comunque sempre dietro l'angolo, grazie al punto di vista bambino di Komona e del suo amico-marito albino, il dramma è come alleggerito e quasi, a volte, dimenticato. Forse perché da giovani la speranza, anche se ne hai passate di cotte e di crudissime, è l'unica cosa a cui si obbedisce davvero.

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EN KONGELIG AFFÆRE (A Royal affaire), Nikolaj Arcel, Danimarca, Repubblica Ceca, Germania, Svezia

Ringraziamo la Berlinale 2012 non solo per la quantità indecente di Dunkin' Donuts, Ritter Sport, arance congelate e acqua frizzante che mi ha fatto ingurgitare, ma anche per avermi suggerito che ehi, a volte i film in costume sono una figata! Prodotto da Lars Von Trier, il film ha anche (e di nuovo, giustamente) vinto l'Orso d'Argento per la migliore interpretazione maschile, quella di Mikkel Følsgaard—probabilmente contesa fino all'ultimo a Mads Mikkelsen, l'attore zigomatissimo di Pusher e Valhalla Rising. Pezzo di storia largamente ignorato ma qui narrato come fondamentale, En Kongelig Affære racconta la storia di un medico tedesco assunto dalla corte danese per aiutare il re un po' disturbatino (ma innocuo) e della sua, diciamo, "integrazione" a palazzo: non solo nelle mutande della bella regina ma anche nel governo di Danimarca. Inutile dire che finirà male; ma per una volta le passioni e gli stravolgimenti sentimentali e politici della fine del Settecento sono il presupposto per imparare qualcosa e ridere ogni tanto di gusto. Sono sempre stata convinta che i paesi scandinavi—dato che lo sguardo del Papa fin a loro non ci è mai arrivato—non conoscessero quasi la parola superstizione e che l'Illuminismo fosse qualcosa di genetico che avevano sempre avuto, senza bisogno di conquistarselo come noi poveracci con le estati torride. Certo, prima di certe convinzioni religiose, era il sistema di privilegi dell'aristocrazia al governo a mantenere un clima conservatore in Danimarca. Ciononostante, il lavoro di liberalizzazione e apertura operato dal medico Struensee (libertà di stampa e associazione, abolizione di tortura e pena di morte, fondazione di ospedali), anche se completamente cancellato dal governo successivo, viene alla fine presentato come alla base dell'attuale democraticissima Danimarca. Se si vuole perfetta veridicità storica, En Kongelig Affære va sicuramente incontro ad alcune incongruenze… ma queste vengono perfettamente coperte dal ruolo dal re Christian, schizofrenico amante del teatro, frignone ma anche irascibile, fa la sua prima comparsa da dietro un albero, dopo aver fatto pipì, e gira per casa con un bambino di colore dalla faccia super dubbiosa, ed è da solo parte comica e tenerissima di tutto il film.

Speciale film bruttissimo fuori concorso:
BEL AMI, di Declan Donnellan e Nick Ormerod, Gran Bretagna

E grazie Berlinale 2012 per aver subito distrutto la mia nascente passione per i film in costume e avermi confermato che in realtà fanno spesso cacare. Anche se devo ammetterlo: il fatto che Bel Ami sia un film inguardabile è da imputare quasi esclusivamente a Robert Pattinson. MA COS'È?! Forse avrei dovuto vedere prima un paio di Twilight per sapere a cosa andavo incontro, ma così male davvero non me la sarei aspettata. Almeno la mia generazione aveva come idolo Leonardo di Caprio, che è un attore coi controcazzi. Ogni volta che penso ai soldi che sono stati fatti grazie a Robert Pattinson penso alla parola "pulizia etnica", ma applicata alle ragazzine che lo ritengono degno di interesse. In tedesco esiste una parola per descrivere il sentimento di imbarazzo che si prova per le azioni incresciose compiute da qualcun altro: "Fremdschämen", ecco come mi sono sentita per i primi cinque minuti di film. Poi è sopraggiunto l'odio e il desiderio di possedere il porto d'armi. Anche se la presenza di Uma Thurman regala un paio di momenti di tregua, l'intero film è un supplizio, non aiutato dai boccoli di Christina Ricci e sicuramente peggiorato da Kristin Scott Thomas in perenne modalità "blush". Insomma, se volete fare del male a qualcuno, consigliategli di andare al cinema.

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