Il pentimento è forse uno dei sentimenti più profondi che l'uomo possa provare. E proprio per questo, anche se tutti proviamo rimorsi e rimpianti, ammetterlo è spesso difficile: vorrebbe dire fare i conti con qualcosa che sappiamo di aver sbagliato, ignorato o non visto—e a nessuno piace ammettere le proprie colpe, soprattutto quando gli esiti di queste scelte o non scelte hanno influenzato profondamente la propria vita.
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Per questo, ho chiesto a quattro persone—e a me stesso—di confessare i loro rimorsi e rimpianti più profondi. Sapevo che stavo chiedendo di mostrarsi vulnerabili e "nudi", ma sapevo anche che avere il coraggio di dire ad alta voce la cosa peggiore di come siamo o come ci siamo comportati significa un po' smuovere il proprio io e lasciare spazio al cambiamento.ALESSANDRO, 31 ANNI, ACCOUNT MANAGERMi pento di non essere andato a salutare mia nonna all'ospedale il giorno prima che morisse: era malata, e dopo un lungo periodo debilitante era stata ricoverata. Era arrivata a uno stadio in cui non riconosceva più le persone, e noi facevamo a turno per andarla a trovare e non farla stare sola. Per me, andarci era un tormento: non riuscivo ad accettare che la persona gioiosa ed energica che mi aveva cresciuto fosse su un lettino senza forze.Durante una visita dopo due giorni di ricovero, però, con mia gran sorpresa mi aveva salutato e mi aveva riconosciuto, aggiungendo che era felice di vedermi. Mi si era stretto ancora di più il cuore quando mi aveva sorriso e chiesto quando avrebbe giocato l'Inter, di cui era diventata tifosa per me.Il venerdì successivo mia madre mi disse che, se avessi fatto in tempo, avrei fatto bene a salutare nonna. Ma io ero uscito tardi dal lavoro, l'orario visite stava per finire e mi ero dilungato a parlare con gli amici, per poi andare dritto al club dove lavoro la sera. Avevo pensato che ci sarei andato la mattina seguente.
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Alle dieci di sabato mattina mia nonna era morta; la stessa sera l'Inter ha vinto la Champions League contro il Bayern Monaco. È stata l'ultima partita dell'Inter che ho seguito da tifoso, e ancora oggi per paura di affrontare il rimorso non sono riuscito a portare dei fiori a mia nonna.LEON, 23 ANNI, STUDENTE
Mi pento di essere stato uno stronzo in tutte le mie relazioni e di aver fatto ruotare ognuna di esse attorno al mio lavoro, i miei impegni, le mie insicurezze, la mia depressione e il mio narcisismo. Tutto ciò che riguardava me veniva prima, e tutto ciò che facevo io era molto più interessante e intelligente di quello che faceva l'altra persona—o almeno, questo è ciò che pensavo.
Accecato dall'egoismo, non mi sono mai reso conto di quanto le persone che avevo intorno mi volessero bene, e sono finito per perderle una dopo l'altra. Ovviamente è qualcosa che non si limita alle relazioni sentimentali, ma ha intaccato anche le amicizie e il rapporto con alcuni famigliari che mi considerano "quello spocchioso e saccente con cui ora non vorrei essere a pranzo."Non è che posso pentirmi di una mia caratteristica, il mio rimpianto è piuttosto di essermene reso conto solo ora che sono in casa solo con il mio gatto, che è molto più egoista di me.CORNELIA, 50 ANNI, FORNAIA
Mi pento di avere divorziato da mio marito molto più tardi di quanto avrei dovuto. In più di vent'anni di matrimonio mi sono sentita tradita, presa in giro e derubata, e nonostante questo non sono riuscita a farlo.
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Sarebbe sbagliato dire che rimpiango di essere stata con lui, perché altrimenti non avrei i miei figli—che sono ciò di cui vado più fiera. Mi pento piuttosto di aver procrastinato una situazione in cui stavamo male io, il mio ex marito e i nostri bambini.Adesso ho cinquant'anni, sono abbastanza convinta di aver superato la metà della vita da un po' e mi sento di poter dire che nei matrimoni a volte è sì necessario chiudere un occhio e scendere a compromessi per far funzionare le cose—a patto che questi compromessi non siano unilaterali e finiscano per arrecare sofferenze costanti.Forse mi pento di aver avuto paura dell'ignoto, anche se adesso sono felicemente risposata. E penso anche che pentirsi sia una cosa che fai da giovane, quando invecchi capisci che tutto ha una ragione.MIRTE, 22 ANNI, STUDENTESSA
Il mio rimpianto maggiore è di aver guardato mia madre morire senza muovere un dito. Fin da piccola sapevo che si faceva le canne, e la cosa non è mai stata motivo di preoccupazione per me. Ma nel 2013 ha conosciuto un nuovo compagno, e nel giro di poco ha cominciato con la cocaina.A quel punto, in casa la situazione era diventata insostenibile: dalle urla in piena notte alla tacita tensione che si era creata nei nostri sguardi, discorsi e atteggiamenti. Casa era diventata un castello di sabbia pronto a essere travolto alla prima onda: che è stata la sera in cui tornando a casa ho visto mia madre farsi di coca con il suo compagno. Non ho detto nulla, ma è stato il punto di non ritorno. Sono diventati sempre più chiusi in se stessi, andavano a ballare e sporcavano in giro. Mi ero ritrovata madre di mia madre senza fare quello che una brava madre avrebbe fatto: chiedere aiuto.
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Poco dopo mia madre è stata ricoverata per una serie di ictus causati dal consumo di droga e malnutrizione. In ospedale le hanno trovato una polmonite latente e un tumore osseo; nel mentre continuava a essere colpita da ictus. Solo quando i dottori mi hanno fatto firmare il foglio per le cure palliative ho capito che mia mamma là dentro ci sarebbe morta. Quando mi sono accorta che sarebbe stato un addio era già troppo tardi, e ora mi pento di non aver mai chiamato nessuno per aiutarla e non averle detto che nonostante tutto le volevo un gran bene.EDOARDO, 25 ANNI, STUDENTE
Mi pento di non essere riuscito ad accettare la mia balbuzie a un'età in cui ci lascia condizionare facilmente e che rende più difficile guarire da certe ferite. Ho sempre balbettato, ma se oggi lo considero niente più che una scocciatura, prima dell'adolescenza ha fortemente influenzato il mio rapporto con il mondo.Ricordo, per esempio, il senso di profonda inadeguatezza e vergogna, un senso di nudità, quando all'uscita di scuola sono rimasto solo con due mie compagne che hanno iniziato a sfottermi, oppure di come leggere poesie in classe diventasse una pena da scontare di fronte alle risate sotto i baffi dei miei compagni. Mi sentivo sempre respinto dagli ambienti in cui cercavo di inserirmi. Solo con gli anni, varie esperienze mi hanno portato a ridimensionare il problema e a non considerarlo più come uno stigma, bensì come un tratto caratteristico della mia persona.Questo cambio di punto di vista lo riconduco al momento in cui, a fine liceo, ho confidato a un mio amico che sarei andato da un logopedista per eliminare il problema. La sua reazione, del tutto imprevista, mi ha fatto capire che l'assenza di balbuzie mi avrebbe impoverito, anziché migliorarmi. Sono felice di aver incontrato, nel tempo, altre persone che mi hanno fatto ricredere sulla mia condizione. Rimpiango solo di esserci riuscito dopo tanti anni passati a flagellarmi—per quella che invece è una delle mie caratteristiche più personali.Segui Leon su Twitter.Segui la nuova pagina Facebook di VICE Italia: