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Siamo andati a vedere quanto è ridotta male Roma dopo Mafia Capitale

Dopo i nuovi arresti dell'inchiesta Mafia Capitale, sono andato in giro per la città a vedere chi vuole cacciare il sindaco Ignazio Marino, chi ancora lo sostiene e chi, come i migranti, è costretto a dormire per strada e fuori dalle stazioni.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Ignazio Marino e Matteo Orfini alla Festa dell'Unità del Partito Democratico nel quartiere Monteverde a Roma, 14 giugno 2015. Tutte le foto sono di Marco Minna.

Quando la prima ondata di arresti di Mafia Capitale si è abbattuta su Roma, diversi commentatori avevano profuso le loro energie nel minimizzare la portata dell'inchiesta. In un articolo pubblicato all'inizio dello scorso dicembre, Giuliano Ferrara l'aveva definita "una supercazzola del tipo Amici miei nella versione 'camerati miei'." Altri si erano scandalizzati perché l'arresto di Massimo Carminati era stato troppo "cinematografico."

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Al di là delle valutazioni sull'esistenza dell'associazione mafiosa—per ora, i giudizi del Riesame hanno confermato l'impianto accusatorio—negli ambienti giornalistici (e non solo) si dava per scontato che non sarebbe finita lì. E infatti, il 4 giugno è arrivato il secondo capitolo di Mafia Capitale: 44 persone arrestate, tra cui cinque consiglieri comunali (di destra e sinistra), e un impatto devastante sulla tenuta di Roma, già ampiamente sfibrata da una gestione a dir poco inefficiente e un sistema di potere corrotto che declinava in maniera criminale ogni tipo di emergenza sociale.

Per rendersi conto di quanto in profondità questo scandalo abbia inciso sul tessuto politico e sociale della città, negli ultimi giorni sono andato in giro a seguire la politica in strada e toccare con mano il collasso del sistema d'accoglienza cittadino, che non a caso era uno dei settori più redditizi di Mafia Capitale.

Il primo appuntamento è domenica sera a Monteverde, quartiere poco lontano dal centro. È qui, nella piazzetta di fianco alla stazione dei treni Quattro Venti, che si tiene la Festa dell'Unità—un appuntamento che in zona mancava da vent'anni. Ignazio Marino arriva intorno alle 19, e si aggira tra le sedie e gli iscritti del partito con il sorriso di circostanza perennemente stampato sulla faccia. Ai giornalisti che lo braccano e gli fanno domande, il sindaco risponde con un secco "no, grazie."

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Il suo intervento è brevissimo. "La criminalità si è infiltrata nell'amministrazione con la giunta Alemanno," ribadisce Marino, "noi siamo diversi! Diciamolo con chiarezza." Non appena scende dal palco, un militante gli si avvicina e domanda se è vero che i suoi giorni alla guida del Campidoglio sono contati. "Sono i giornali che lo scrivono, ma non li leggete," replica il sindaco prima di andare via.

Dopo di lui, mentre i volontari spillano birre e i tavoli cominciano a riempirsi per la cena, a prendere la parola è Matteo Orfini, il presidente del Partito Democratico che da sei mesi a questa parte è il commissario straordinario del PD romano. "Quello che sta accadendo a questa città è qualcosa di drammatico," inizia Orfini. "A noi spetta la necessità di metterci al centro di un processo di rigenerazione etica, riconoscendo le nostre responsabilità."

Il sostegno a Marino, almeno a parole, sembra essere incondizionato: "Noi abbiamo bisogno di un sindaco come lui, che ce la sta mettendo tutta e che va incoraggiato." Nei fatti, però, non è esattamente così. Secondo alcune indiscrezioni—poi parzialmente smentite—il governo aveva pensato di affidare interamente la gestione del prossimo Giubileo al nuovo prefetto Franco Gabrielli, che di fatto si tradurrebbe in un totale atto di sfiducia nei confronti di Marino.

Proprio ieri, inoltre, nella sconfinata lista di detrattori del sindaco se n'è aggiunto uno particolarmente pesante: Matteo Renzi. In un'intervista alla Stampa, il premier ha detto che "fossi in Marino non starei tranquillo;" in serata, a Porta a Porta, ha rincarato la dose invitando il sindaco e la sua giunta a "guardarsi allo specchio" e valutare se sia il caso di andare avanti.

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#MafiaCapitale Chi ha sbagliato paghi fino all'ultimo centesimo. Il Comune si occupi di fare pulizia. Negli uffici ma anche per le strade
— Matteo Renzi (@matteorenzi) June 16, 2015

Chi non ha alcun dubbio su quale debba essere il destino politico di Ignazio Marino sono tutti gli altri partiti—MoVimento 5 Stelle in testa. A Roma, infatti, il partito è stato rivitalizzato dallo scandalo a un punto tale che, secondo un sondaggio, sarebbe addirittura al 30 percento in caso di elezioni anticipate.

Lo scorso 9 giugno, nello stesso giorno in cui la Guardia di Finanza ha arrestato altre cinque persone per appalti truccati, i pentastellati hanno protestato davanti e dentro al consiglio comunale, gridando "o-ne-stà" e leggendo brani delle intercettazioni di Mafia Capitale. La compagnia, tuttavia, non era delle migliori: in piazza del Campidoglio sventolavano anche le bandiere di Nuovo Centrodestra, Fratelli d'Italia, CasaPound, comitati di destra e Noi con Salvini. Nel commentare la manifestazione, il deputato del Partito Democratico Emanuele Fiano ha parlato di "neofascismo in diretta."

#CasaPound a #Roma tenta l'assalto al Campidoglio con i 5Stelle. #Sorial 5S da #Sky invita tutti a raggiungerli. Neofascismo in diretta.
— Emanuele Fiano (@emanuelefiano) June 9, 2015

A ogni modo, il M5S è tornato in piazza del Campidoglio il 15 giugno, lanciando l'hashtag #MarinoDimettiti e indicendo un'assemblea popolare insieme alla "Carovana delle periferie," sindacati di base, attivisti dei movimenti di sinistra, formazioni come il Partito Comunista dei Lavoratori e altri soggetti sociali. L'esatto opposto, insomma, di chi c'era la settimana prima.

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Quando arrivo sono passate da poco le cinque e mezza, l'assemblea è già iniziata e la folla—non troppo numerosa, a dire il vero—intona all'unisono "tutti a casa / tutti a casa!" Alla sinistra della scalinata che porta all'ingresso del Campidoglio, leggermente staccati dal resto dei manifestanti, ci sono anche i militanti della Lista Marchini che reggono in mano dei fogli con la scrittà "#dignità."

I vari interventi si succedono uno dopo l'altro, puntellati dai cori "O-ne-stà / O-ne-stà" e "Di-mis-sio-ni." Un signore dietro di me, particolarmente agitato, urla all'indirizzo di chi è dentro il consiglio comunale: "Ma li mortacci vostri, arrestateli! Ladroni, bastardi, pezzi di merda!" A un certo punto il microfono viene passato a un animalista, che definisce il sindaco Marino un "torturatore di animali" che ha "torturato le scimmie e non se ne è mai pentito."

Un'ora dopo l'inizio della manifestazione, in piazza si palesa il vicepresidente della Camera del M5S, Luigi Di Maio. Me ne accorgo quando un muro di giornalisti e fotografi rischia di travolgermi da dietro. Schivata la marea, osservo il deputato grillino addentrarsi nella folla, sorridendo e dispensando strette di mano ai simpatizzanti che lo applaudono fragorosamente.

Una volta guadagnato il "palco," Di Maio menziona subito la vittoria del M5S ai ballottaggi di diverse città e bersaglia il Partito Democratico, dicendo che è passato "dal Berlinguer della questione morale a Mafia Capitale." Il PD, prosegue il deputato, è così infiltrato da non essere più un partito "in grado di tenere la rotta e amministrare serenamente la pubblica amministrazione." Ogni affermazione di Di Maio è accompagnata dai soliti cori, e il clima è chiaramente da campagna elettorale.

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Dopo di lui, a scaldare la folla ci pensa Alessandro Di Battista, a cui viene tributata un'ovazione da rockstar. Il suo discorso è tutto votato all'attacco di Ignaro Marino ("se non sei penalmente responsabile sei penosamente responsabile"), Matteo Renzi ("L'unica cosa che Renzi ha rottamato è la Patria") e della giunta romana, che semplicemente dovrebbe dimettersi in blocco per "permettere ai romani di votare."

Dalle retrovie, qualcuno inizia a chiedere a gridare: "Di Battista sindaco, Di Battista sindaco!" Lui glissa—del resto, in una recente intervista ha affermato di non potersi candidare—e termina il suo intervento invocando le dimissioni, per poi concedersi ai fan che lo circondano e vogliono farsi un selfie con lui a tutti i costi.

In tutto ciò—mentre la giunta implode sotto il peso dello scandalo e le opposizioni prosperano nel caos—nella Capitale è scoppiata nuovamente "l'emergenza" migranti, causata in parte anche dalla sospensione temporanea di Schengen adottata dalla Germania in vista del G7. L'11 giugno la polizia ha cercato di rastrellare le centinaia di migranti che da giorni stazionavano—senza cibo, acqua e bagni—nei pressi della stazione Tiburtina, abbandonati da tutti e sostenuti esclusivamente da Croce Rossa e residenti.

La provenienza delle persone accampate a Tiburtina era piuttosto varia: c'è chi è sbarcato nel sud Italia e in Italia si limita a transitare; chi è andato via dai centri d'accoglienza di Roma; e chi ancora è stato sgomberato dagli insediamenti abusivi sparsi nel territorio comunale—come ad esempio quello di Ponte Mammolo, dove da ormai più di un mese i rifugiati dormono sull'asfalto del parcheggio di via delle Messi d'Oro e chiedono di essere trattati "nel rispetto delle leggi italiane ed internazionali e dei diritti umani."

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Al termine dell'operazione alla stazione Tiburtina, comunque, solo 18 persone sono portate all'ufficio immigrazione della Questura per l'identificazione. Tutti gli altri riescono a fuggire spargendosi per la città, e in molti si recano al centro policulturale Baobab di via Cupa, una traversa di via Tiburtina, che tuttavia può ospitare poco meno di 200 persone.

Tra giovedì e venerdì della settimana scorsa, invece, l'afflusso in questo centro è stato massiccio: oltre 800 persone. Per giorni il cortile esterno è stato letteralmente ricoperto di persone, e all'interno—tra bagni impraticabili e camere stipate fino all'inverosimile—la situazione era altrettanto difficile. Nel pomeriggio del 16 giugno, cioè quando mi reco sul posto, il contesto è ancora critico, ma nettamente migliore.

In via Cupa i ragazzi giocano a pallone e i cittadini arrivano con buste della spesa cariche di aiuti. Nel cortile ci sono ancora migranti che dormono sui cartoni. Entro nel centro seguendo il direttore Daniel Zagghay e una troupe televisiva. L'illuminazione è scarsa, diverse persone dormono sulle poltrone disseminate nei corridoi e un ragazzo riposa appoggiato a un tavolo di legno, mentre dietro di lui altri migranti si fanno tagliare i capelli dai barbieri. Gli ospiti sono in prevalenza eritrei ed etiopi, con una minoranza che viene da Senegal e Sudan.

Uno degli ingressi del centro Baobab in via Cupa.

Appena finisce di parlare con altri giornalisti, fermo Zagghay per fargli qualche domanda. "Stiamo rientrando dall'emergenza," inizia il direttore. "Ora ci sono circa 310 persone che hanno dormito fino a ieri, quindi la situazione si sta stabilizzando. Domani dovremmo avere molta meno gente e rientrare nella norma di un centro d'accoglienza."

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I giorni passati, continua Zagghay, sono stati "molto difficili": "Stavamo collassando, le fogne sono saltate, le visite mediche non bastavano, e anche il cibo non era sufficiente. Per fortuna la città ha risposto, e ha dimostrato di non essere come la descrivono: è molto meglio. Soprattutto, si è dimostrata migliore dei suoi amministratori."

Chiedo al direttore anche una valutazione sul sistema d'accoglienza romano ("sostanzialmente non ha mai funzionato a dovere" è la risposta), e sulla gestione dell'ennesima "emergenza:" "Questa cosa dell'emergenza la stiamo dicendo da mesi, non nasce all'improvviso. Per usare una metafora, non è un parto al settimo mese che non ti aspetti; è un parto che è arrivato al nono mese, sapendo benissimo che ci sarebbe stato."

Per decongestionare il centro e alleggerire altre situazioni critiche, sabato 13 giugno la Croce Rossa—di concerto con Comune e Prefettura—ha allestito una tendopoli temporanea alle spalle della stazione Tiburtina che può ospitare circa 150 persone. L'assessore alle politiche sociali, Francesca Danese, ha dichiarato che "la città si sta facendo carico di una situazione che è di diritto internazionale;" anche il sindaco Marino ha usato parole simili.

Qui alla Tiburtina @roma affronta un'emergenza nazionale e europea. Grazie, in tanti oggi hanno mostrato solidarietà pic.twitter.com/Vxm42Rowsm
— Ignazio Marino (@ignaziomarino) June 14, 2015

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Vado alla tendopoli subito dopo la visita al Baobab. Arrivarci non è esattamente intuitivo: bisogna addentrarsi in un'ala della stazione Tiburtina e scendere due rampe di scale mobili. A quel punto, lo scenario che si presenta è piuttosto simile a quello di un campo profughi in una zona di guerra: le tende, rinchiuse in una recinzione, poggiano su un lembo di nuda terra, e l'ingresso è presidiato dai militari.

Il personale della Croce Rossa segue i migranti, e intanto dalle macchine scendono cittadini che portano anche qui buste delle spesa cariche di aiuti. L'operatore della CRI Daniele Aloisi mi dice che "la situazione è calma, e la vita da campo si è assestata. A livello sanitario è tutto regolare: non abbiamo avuto epidemie di nessun tipo, né casi gravi." La soluzione di questo campo dovrebbe durare un mese, almeno fino a quando non sarà pronta la nuova "struttura dedicata a ospitare i cosidetti transitanti" in uno stabile delle Ferrovie dello Stato.

A giudicare da quanto ho visto, tuttavia, è abbastanza difficile giustificare la (pur moderata) soddisfazione istituzionale. Tra l'altro, che la macchina dell'accoglienza romana non stia girando troppo bene—specialmente dopo la prima tranche di Mafia Capitale—l'ha ribadito anche il prefetto Gabrielli. "Roma è già una città particolarmente stressata," ha dichiarato, "per i numeri che l'hanno interessata e maggior ragione per gli esiti dell'inchiesta di Mafia Capitale […] che ha avuto anche un effetto sulla cooperazione sociale."

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In pratica, spiega il prefetto, dopo gli scandali e i commissariamenti "i destinatari delle attività di accoglienza non possono più essere utilizzati. Giustamente. Ma questo è un problema che tutti dobbiamo risolvere." Lo stesso Gabrielli, inoltre, nel vuoto che si è creato a Roma sta assumendo un ruolo politico sempre più importante. Anche perché ha in mano il dossier del possibile scioglimento del comune per mafia, un incubo che aleggia sulla città dallo scorso dicembre.

Ieri, infatti, gli ispettori della prefettura hanno depositato la corposa relazione sull'amministrazione del Comune. Il prefetto avrà 45 giorni di tempo per le sue valutazioni; poi, dal 30 luglio, la questione sarà esaminata dal Ministero dell'Interno, che entro tre mesi potrà proporre—o meno—lo scioglimento di Roma al Consiglio dei Ministri.

Per ora, comunque, Matteo Renzi ha escluso categoricamente l'ipotesi del commissariamento per mafia perché "dal nostro punto di vista non ci sono estremi." Anche l'assessore alla legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, ha dichiarato che "le condizioni per sciogliere il Comune non sussistono."

Il punto, tuttavia, è che la giunta è comunque a un passo dal crollo politico, a prescindere dall'iter amministrativo per lo scioglimento. In più, sulla stampa si è già cominciato a vociferare di una "terza tranche dell'inchiesta," il cui effetto sarebbe indubbiamente quello di spazzare via Marino e la giunta—ammesso e non concesso che sopravvivano a queste settimane—una volta per tutte.

Forse è anche per questo che, inseguito dalle domande dei cronisti fuori dal Campidoglio, ieri Marino ha risposto con una "fragorosa risata." Peccato che, viste le condizioni in cui versa la città, ci sia molto poco da ridere.

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