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Cosa ho capito facendo l'editor per un servizio di self publishing in Italia

Dato che per molti il self publishing è uno dei mali dell'editoria contemporanea, ho deciso di contattare una ragazza che da cinque anni lavora come editor in uno di questi servizi per capire cosa mi aspetta.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT

A me di solito capita a novembre: sopraggiunge quel momento in cui penso di scrivere un libro—e sempre a novembre penso che non sia il caso. Tra le ragioni che mi spingono a desistere annovero la probabilità di non avere un granché da dire, la FOMO, e il rifiuto da parte dei miei amici di legarmi a una sedia "che tanto non sei mica Vittorio Alfieri."

Il passo successivo e ancora più difficile, mi sono sempre detto, sarebbe trovare qualcuno che voglia pubblicarmi. Ma la verità è che il mercato offre a sempre più persone la possibilità di fare uscire il proprio titolo, e lo fa attraverso il self publishing. A livello di numeri l'autopubblicazione funziona: solo negli Stati Uniti ogni anno si auto-sfornano più di 700.000 titoli—un volume che secondo gli scettici serve soltanto a inquinare il mercato forzando un sistema editoriale votato, almeno idealmente, a premiare la qualità. Le critiche principali che si attira il self publishing sono dunque due: che sia un modo per succhiare soldi a persone che non sanno scrivere illudendole di un futuro autoriale che non avranno, e che contribuisca significativamente al rapporto sbilanciato tra la profusione di nuovi titoli e la penuria di lettori.

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Per avere un'idea più precisa del self publishing in Italia ho contattato Lucia Antista, editor di un servizio di autopubblicazione, che mi ha detto di aver lavorato su "più di 350 libri in cinque anni." Nel concreto, Lucia è la persona che, quando i testi arrivano ai servizi di pubblicazione, ne prende in consegna alcuni e li legge, ne corregge i refusi, cerca di sciogliere i passaggi ostici e, insomma, cerca di migliorare un testo senza snaturarlo.

Come mi spiega, "chi si rivolge a servizi di self publishing puro [quello che va per la maggiore negli Stati Uniti] si affida a un editor, a un correttore di bozze, a un grafico, a un impaginatore freelance," e solo dopo si "autopubblica." In Italia questo modello è offerto da piattaforme internazionali come Kobo o Amazon ma anche da realtà nazionali come ilmiolibro, Narcissus­, o il servizio online del Mondadori Store. Nel caso dell'agenzia per cui lavora Lucia, invece, tutti i servizi editoriali fanno parte del pacchetto.

Il primo punto che affronto con lei è quello della tipologia di persone che usufruiscono del servizio—nel peggiore dei casi, secondo l'idea comune, individui con un ego smisurato, che davanti ai rifiuti o ai silenzi delle case editrici e all'imbarazzo degli amici si ritengono "incompresi". Come mi spiega Lucia sulla base della sua esperienza, invece, l'autore non ha "quasi mai ha la pretesa di diventare uno scrittore. Nella maggior parte dei casi fa un altro mestiere—l'autista, l'impiegato di banca, il medico, il prete­—e scrive una storia che sente di dover raccontare."

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E proprio per via delle trame spesso molto personali quando non espressamente autobiografiche, mi racconta Lucia, il rapporto tra editor e autore è paragonabile a quello tra "psicanalista e paziente." "Cercano di coinvolgerti, in modo che tu possa capire a fondo il libro. Ti contattano telefonicamente, chiedono consigli, perché il loro investimento è anzitutto un investimento sentimentale." In alcuni casi, il romanzo è addirittura un modo per superare un trauma. "Una volta mi è capitato di editare un testo che ricostruiva le dinamiche dell'incidente in cui era morta la figlia dell'autore," ricorda, "è una cosa così personale che inevitabilmente instauri un forte transfert."

Nell'ambito delle velleità artistiche, invece, i generi che si ripropongono più spesso sono due. "I pensionati di solito presentano raccolte di poesie, mentre i ragazzi fantasy." Per un editor, a livello pratico, i due casi sono diametralmente opposti: "La poesia per definizione è breve ed entra in gioco la licenza poetica," mi spiega Lucia, "perciò al massimo cambi gli aggettivi o lavori sulla punteggiatura. Al contrario nei fantasy devi cercare di tenere insieme una trama, da un punto di vista contenutistico, raccapezzandoti tra nomi stranissimi, lingue inventate, sottotrame intrecciate."

Per quanto riguarda i tempi, spiega Lucia, "lungo o corto che sia il testo, le tempistiche per la correzione sono sempre molto strette." Per un libro di 100 pagine "ci vogliono mediamente due o tre giorni e la tariffa—anche se certo può variare a seconda di chi ti rivolgi—è intorno ai 70 euro," mentre se hai prodotto un tomo da circa 500 pagine "ci vogliono circa due settimane, e per il costo fai il rapporto." Non so voi, ma a me di solito due settimane è il tempo che ci vuole a leggere un libro di quella dimensione senza dovermi troppo sforzare di capirlo.

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Una volta avuto l'edit, continua Lucia, l'autore può "chiedere spiegazioni riguardo ad alcune correzioni e a volte, ma questo succede piuttosto raramente, contestarne altre. C'è stato un caso, per esempio, in cui l'autrice di un romanzo ambientato nel passato mi contestava di non aver fatto bene il mio lavoro di edit e sostituito degli aggettivi 'desueti' con alcuni 'più moderni'. Ma il suo romanzo era volontariamente 'desueto' nello stile." Alla fine, comunque, Lucia e l'autrice hanno trovato un compromesso, e io stesso inizio ad avere l'impressione che tutta questa faccenda del self publishing non sia molto altro.

Proprio per questo, prima di formulare un giudizio finale decido di sottoporre a Lucia due temi molto cari ai critici del self publishing: i costi e la qualità di quanto effettivamente si pubblica. Per quanto riguarda i primi, in base al pacchetto acquistato dall'autore, la casa editrice pubblica e invia un determinato numero di copie. Una copia cartacea costa intorno ai 15 euro—motivo per cui penso che dovremmo smettere di lamentarci dei prezzi dei libri delle persone che sanno davvero scrivere. Ed è qui che tutta la faccenda si fa molto meno attraente: sia nel caso in cui ci si affidi a una piattaforma di self publishing puro che a una casa editrice di "self publishing facilitato", i guadagni verrano sempre spartiti. Si va dalla realtà dorata di Narcissus, dove ti becchi il 70 percento ma finisci solo negli store online (ovvero hai meno visibilità) ai casi di alcune edizioni con servizi opzionali a pagamento che trattengono un terzo del guadagno, giustificandosi con il fatto che comunque "la distribuzione prenderebbe di più," per citare Lucia.

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Quanto alla qualità, per stessa ammissione di Lucia nella ridda di manoscritti sottoposti alla fase di editing molti sono "non esaltanti." Eppure, dal suo punto di vista, il self publishing resta un'alternativa assolutamente democratica all'editoria istituzionale, perché "non tutti riescono a entrare in contatto con grosse case editrici, e anzi alcuni nemmeno ci provano per la paura di essere rifiutati." Oppure, molto semplicemente, non hanno la minima intenzione di averci a che fare, né hanno passato troppo tempo a riflettere sulla responsabilità culturale.

Per quanto mi riguarda, non ci vedo nulla di male nel pubblicare un libro in proprio: nel peggiore—o forse nel migliore—dei casi lo leggeranno solo tua madre e tua sorella e che tu sei uno scrittore lo saprete in tre. Ovviamente ci sono rari casi (americani, tipo Cinquanta sfumature di grigio) di successo—quelli italiani sono pochi e in scala ridotta—ma mi pare che gli obiettivi del servizio di autopubblicazione siano incommensurabilmente più immediati di un autore autopubblicato: incassare anche in un momento di crisi e fare scouting senza sforzo. Del resto, lo stesso mercato "tradizionale" non è esattamente esente da critiche.

Comunque, tornando al proposito iniziale, se davvero volessi mai scrivere un libro, alla luce di quanto ho imparato i piani sono questi:

Piano A. Incatenarsi al marciapiede davanti a una casa editrice tradizionale, e poi pregare.

Piano B. Strapagare e riempire di attenzioni un editor—perché di fare qualcosa fai-da-te nemmeno a dirlo, dato che ho problemi anche a montare una cassettiera dell'Ikea. E poi pregare.

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