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A9N1: Sangue al cervello

Sono la moglie

Un racconto di Violetta Bellocchio dal nostro annuale di narrativa.

Foto di Bea De Giacomo.

Mia figlia tiene un diario. Sulla seconda pagina ha scritto, "Cose vere sul conto di Sara." Ci ha tirato una riga nera, sotto, e ha cominciato a scrivere.
Nell’elenco di queste cose vere:
1. cantante da un successo solo,
2. ha girato un video su una barca,
3. la foto di nozze è un fake terrificante, hanno sbagliato tutti i contorni.

Mia figlia ha una calligrafia da ragazza grassa. Non so se ha scritto qualcosa di nuovo, nelle ultime due settimane.
Ma se ha parlato con suo padre, e secondo me ci ha parlato, potrebbe aver aggiunto un punto 4, un punto che dice: la sera che si sono incontrati lei e papà, lei gli ha fatto promettere che se restava sfigurata lui la doveva ammazzare. Nessuno lo chiede mai, "Come vi siete conosciuti?" Non a noi. Si dà per scontato che fosse una cosa inevitabile. Che gira e rigira al mondo esistono al massimo 200 persone, e che sono sempre loro a finire sui giornali, allora si conoscono tutte, per forza. Vanno negli stessi posti. Mangiano lo stesso cibo.
Invece io e lui ci siamo conosciuti.
Potevamo anche non conoscerci. Nel senso: mai. Mi gira la testa quando ci penso. Dicevano che dovevo tenere mani e polsi dietro la schiena quando cantavo, perché avevo le dita tozze, mani ignoranti, dicevano.
Avevo le gambe diritte, i denti diritti, i capelli lisci, le scarpe col cinturino, gli orecchini. Ero stata scoperta in una pista di pattinaggio a Marina di Ravenna. Avevo 17 anni prima di fare un disco e 18 anni dopo aver fatto un disco. Avevo un disco da portare in giro. Sono anche stata a Discoring, all’Eurovisione no, e sono stata a una cosa che si chiamava "Festa delle Rose", ora non la fanno più, hanno smesso, la facevano a Nizza.
Io avevo una canzone—"Spanish Harlem"—l’aveva cantata Aretha Franklin prima di me e altri prima di lei. Io ero bianca, e per due mesi bastava, bastava, bastava il mio video su una barca con me che guardavo in macchina e sorridevo, mani nascoste, piedi bagnati, ginocchia aperte a sessanta gradi, il vento, e non pensavo a mia figlia e non pensavo a suo padre, perché non lo conoscevo. Suo padre era una cosa che io guardavo in fotografia. Il padre di mia figlia avrebbe sentito la mia canzone e non avrebbe mai pensato a niente. Due mesi di passaggi in radio e niente. Poi mi avrebbe visto sbagliare il playback a Discoring, mentre lui entrava e usciva da una stanza d’albergo, c’era la televisione accesa e lui che ci passava davanti e c’ero io con la bocca aperta troppo presto, e il padre di mia figlia avrebbe deciso, lì e allora, che io dovevo diventare sua moglie. Che io nella vita dovevo avere più cose.
Quando me l’ha detto, io gli ho chiesto, "Più cose in che senso?", e lui ha detto, "Non lo so, più cose. Non mi sono messo lì a fare una lista." Hanno fatto tre film su di noi. Tre film e due fiction televisive. Io sono morta malissimo tutte le volte.
Hanno cambiato i nomi, i dettagli. Ci hanno fatto conoscere ogni volta in un modo diverso. Hanno detto, ispirato a una storia vera. Alla lontana.
Adesso stanno scrivendo una mini-serie per Sky sugli anni Ottanta a Milano, hanno detto che è la storia del mitico impresario (…) , il Leonardo da Vinci della Italo-disco, e io l’ho incontrato una volta—portava le scarpe con i rinforzi, aveva tanti capelli che andavano in tutte le direzioni, era molto buffo, mi ha chiamato coccola—e adesso, ecco: io non ho proprio la sicurezza che ci butteranno dentro anche me, di nuovo, però so che mi faranno uscire di scena in un certo modo; una telefonata, un uomo in controluce, una porta. Una ragazza che cade dalle scale.

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Mia figlia ha visto tutti questi film.
È un po’ imbarazzante.
Mia figlia ha guardato suo padre in cinque corpi diversi.

A Capodanno mi avevano pagato be-nis-si-mo per cantare tre cover più un buon anno a tutti a una festa privata. Qualcuno si era affittato un club sul lungomare di Forte dei Marmi. Vicino al pontile, ma non addosso al pontile. L’umidità mi aveva arricciato le sopracciglia. Lui era a quella festa.
Lui era venuto apposta a quella festa.
Lui è venuto da me e ha detto, "È tanto tempo che ti volevo conoscere," io gli ho chiesto di porre fine alle mie sofferenze, lui ha detto "… pardon?", e io ho detto, "Se scoppia un incendio e mi si brucia tutta la pelle da un lato della faccia, tu mi ammazzi?" E lui ha detto, "Sì, sì, lo faccio. Ti giuro."

Sentite: era il 1982. Si potevano ancora dire certe cose in quel periodo.

La prima domanda che lui mi ha fatto, dopo avermi prestato un maglione blu, è stata, "Sei sposata?"
Io ho detto, "No."
Lui ha detto, "Nemmeno io."
"Sono contenta," ho detto.
Io lo sapevo che non era sposato. 23 anni e non era ancora sposato. Era molto alto e non era sposato. Non era nemmeno mai stato fi danzato con l’anello. I giornali l’avrebbero scritto. Era da quando avevo sette anni a casa di mia zia che lo guardavo diventare alto nelle foto sui giornali.
Eravamo chiusi in macchina a mangiare le patate fritte. La guardia del corpo stava nella macchina dietro. Ero tutta appiccicosa, tra il pollice e l’indice, la mano mi si era riempita di sale.
"Non sono sposato," ha detto.
"Bene."
"C’è mia madre."
"Bene."
"La conosci?"
"Io non conosco nessuno."
Lui mi ha toccato il dorso della mano e ha detto, "Sì, nemmeno io."

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Continua nella pagina successiva.

Ho passato quattro mesi in una serie di alberghi, con le stanze tuuuuutte bianche e le piastrelle lucide in bagno, a leggere le pagine degli spettacoli mentre lui fingeva di leggere il Sole 24 Ore, a non smettere mai di meravigliarmi che lui dormisse con i pantaloni del pigiama, a non rispondere alle telefonate, a registrarmi negli alberghi come Farrah Fawcett, Florinda Bolkan, Faye Dunaway.
Eravamo a Messina e io ho firmato il registro "ciao italia, grazie tutti, faye dunaway"—forse quella pagina l’hanno messa sotto vetro, per ricordarsi della nostra visita, e forse hanno sbuffato, hanno rimpianto i tempi in cui le mantenute sapevano stare al loro posto; comunque io non ho mai tirato fuori un documento, una patente che non avevo, e quando i concierge dicevano "Sì signorina però vede le normative antiterrorismo," io dicevo, "Sì, vedo, ma sono la moglie."
E loro, "Aaaah."
E io, "È un segreto. Sapete. La famiglia."
E loro, "Certo, certo." Nessuno metteva in dubbio la mia parola.
Lui beveva il succo d’arancia nei bicchieri alti, e a me non succedeva niente.
E quando ho capito che davvero non mi sarebbe successo più niente, per tutto il tempo che volevo, sono diventata sua moglie.

Ho starnutito due volte tra l’ingresso e l’altare, non riuscivo a camminare in linea retta.
Mi sono sposata in un prendisole giallo e un paio di ciabatte da mare, e una cavigliera di plastica nera e rosa che mi sfregava da morire contro il tallone, era troppo piccola, stretta. E avevo un paio di occhiali da sole, a cuore forse. Ma non li avevo tenuti su in chiesa. Li avevo messi in borsa. Mi ero dipinta le unghie con lo smalto trasparente la sera prima.
Mi sono sposata in una chiesa vuota, niente fotografi, due guardie del corpo. Non ero ubriaca. Non avevamo gli anelli, la penna per firmare il registro, hanno dovuto prestarci tutto.
Qualcuno mi ha chiesto se mi sentivo bene.
In nessun momento ho pensato che stavo sposando un estraneo.

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Nessuno mi ha mai chiesto il perché di questa mia scelta. (La chiamavano tutti “scelta”.) Ho lasciato che si dicessero e scrivessero cose—che era tutto molto romantico, che io ero Cenerentola, che ero stata inghiottita da un mondo di oscurità e nebbia; che ero prigioniera della mia casa, che mi ero sposata bene, che mi ero sposata per soldi, ma che non potevo essere giudicata né biasimata per averlo fatto; che mi ero convertita a una nuova eccitante religione; che avevo convinto il mio sposo a rinunciare ai suoi beni materiali; che mi ero legata alla Grande Famiglia Più Sfortunata Nella Storia d’Italia, e che era solo questione di tempo prima che la maledizione colpisse anche me; che i ricchi sono fighi ma infelici; che ero stata raccolta da una crepa nell’asfalto e che adesso crescevo in un giardino nascosto; che prima si sorride ma dopo si piange, è matematico; che stavo vivendo il sogno; che avevo una vita profonda e segreta, e che la mia vita sarebbe sempre rimasta sconosciuta al mondo, e che il mondo non avrebbe mai conosciuto questa vita. Venticinque anni più tardi, mi sono svegliata in una camera d’ospedale. Mi avevano tagliato via un pezzetto—sarebbe rimasta una cicatrice rossa.
Mentre aspettavamo i risultati della biopsia erano venuti a parlarmi delle mie opzioni. Potevo tenermi la cicatrice, oppure potevo approfittarne per farmi revisionare un po’ tutta l’area. Avevano detto così.
Non sembrava uno scherzo. Sembrava una frase che dicevano tutti i giorni, a tutti i pazienti. La normalità, insomma. Erano le sei di mattina, io ero sveglia, continuavo a rigirarmi in bocca quella frase, "revisionare un po’ tutta l’area." In che senso?, pensavo. Tre tette al posto di due? Mi pitturavano di verde smeraldo? Aveva un senso, revisionare?
Mio marito dormiva sulla poltrona nell’angolo della stanza. Era troppo alto per la poltrona, ma ci dormiva lo stesso.
Aveva scelto un ospedale privato, quindici stanze appena sopra Tellaro. Da ogni stanza si vedeva il mare, gli scogli. Mi avevano sistemato il letto in modo che potessi guardare fuori dalla finestra.
Ho pensato, cose vere sul conto di mia figlia, e ho fatto il conto:

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1. ha quindici anni,
2. è bionda, anche se in famiglia non c’è nessuno di biondo,
3. ieri pomeriggio è venuta a trovarmi e ha mangiato il quadrato di crema bianca sul mio vassoio, "Mangialo tu, io non ce la faccio," le ho detto. Ha pulito il piatto, prima con il cucchiaio, poi con le dita. Le ho chiesto com’era e lei ha detto, "Fa schifo." Ma l’ha detto tutto attaccato, fassschifo, vuol dire che era buono. Poco prima delle sette mio marito ha mosso le gambe, ha visto che avevo gli occhi aperti. Ha attraversato la stanza in due passi. Lui si è sdraiato, io gli ho fatto un po’ di posto, quello che ho potuto. Mi ha messo il braccio intorno alla vita, mi ha dato un bacio sulla testa.
"Lei è a casa?", ho chiesto.
"Oggi andava a Genova. A vedere l’acquario."
"Le piacciono i pesci?"
"Non lo so. Speriamo di sì."
"Abbiamo una figlia."
"Così ho letto."
"C’è scritto sui giornali."
"Stasera controllo."
Era bello parlare così, era come una coperta calda, e avrei voluto continuare, dire "Dobbiamo chiedere agli avvocati," oppure "In realtà noi non abbiamo figli, è tutto un grosso equivoco." Se fossimo stati a casa nostra, io e lui, avremmo continuato.
Invece ho detto:
"Certe volte penso che ci siamo solo distratti un attimo."
Lui ha fatto un rumore, "Mmm."
Siamo rimasti a guardare verso la finestra e verso il muro intorno a quella finestra. L’ho sentito sorridere contro la mia spalla.
Lui ha detto, "A proposito, fammi sapere se vuoi che ponga fi ne alle tue sofferenze," e io mi sono voltata e ho detto, "Non ci provare."

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