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Non è un caso che Spaghetti Story sia diventato un caso

Dopo tutte le recensioni entusiastiche sul film che ha fatto impazzire l'Italia ho scelto di prendermi un po’ di tempo, ottantatré minuti, e sono corso a vedere il miracolo prima che fosse troppo tardi.

Spaghetti Story è il film che ha fatto impazzire l’Italia. La pellicola di Ciro De Caro che, come hanno scritto i giornali, “dà voce a una generazione che voce non ha” a Roma è stata proiettata soltanto in due cinema, ma in uno, durante le feste natalizie, “ha stracciato il cinepanettone.” Qualcuno ha esultato: “miracolo al Pigneto.”

Il lancio del film di De Caro è stato accompagnato non soltanto da recensioni positive—che lo definiscono “coraggioso”, “una piacevole sorpresa," “un vivace ritratto di borgata,” “il nuovo realismo italiano,” “un ottimo esordio,” “una boccata d’aria fresca”—ma anche dalla pubblicità che ne ha fatto la trasmissione televisiva Servizio Pubblico, dedicandogli cinque minuti della propria scaletta.

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La cosa che rende ancora più imperdibile Spaghetti Story, a quanto si legge dalle notizie sui giornali, è il suo “no-budget”. Ciro De Caro l’ha girato con 15.000 euro e in dieci giorni. Questo spiegava in parte i titoli mostruosi degli articoli online: “Spaghetti Story, un film costato come un’utilitaria.”

Indeciso se togliermi la vita dopo aver letto “spaghetti story”, “cinepanettone” e “utilitaria” in un’unica frase, ho scelto di prendermi un po’ di tempo per rifletterci, ottantatré minuti, e sono corso a vedere “il miracolo del giornalismo che piange sangue” prima che fosse troppo tardi.

Al cinema tirava aria di “film-caso”: appiccicati sul vetro dell’entrata c’erano i ritagli di giornale che spingevano l’evento. In sala signore cinquantenni di origini oscure, giunte al cinema Aquila grazie a una delle numerose recensioni positive del film, prima che le luci si spegnessero, tiravano fuori la storia dell’“utilitaria” passandosi gentilmente mentine per l’alito, e rispondendosi: “je te ringrazio.”

Valerio è un ventinovenne che vuole fare l’attore, vive in affitto con la ragazza, Serena, studentessa dottoranda. Lei mantiene entrambi. Valerio non ha più i genitori, l’unica della famiglia che gli è rimasta è la sorella fisioterapista, acida e sola, che lo esorta a cercarsi un vero lavoro. In effetti Valerio non è molto dotato, fallisce ogni provino, e la sua unica fonte di guadagno è l’animazione di feste private travestito da pagliaccio del Mac. L’unico amico di Valerio, Christian, non se la passa meglio: vive a casa della nonna, simpaticamente rincoglionita, e spaccia droga mettendo su qualche soldo.

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Anche i genitori di Christian sono assenti. Non si capisce se siano morti anche loro o se quella di non aver trovato un adulto disposto a recitare sia stata una scelta dettata dal “no-budget”. L’unica è la vecchia, nonna di Christian, arruolata nel cast dopo “averla incontrata a Trastevere e averla convinta con una cesta di frutta.” Il cast forzatamente adolescenziale non ha confuso però i giornalisti, che ci hanno visto una scelta di stile cruda ed efficace: “Gente di Roma, niente pariolini che s’atteggiano a no-global in perenne crisi esistenziale (la riserva umana tipica di una certa produzione nazionale), né sottoproletari come se li immaginano quelli che per strada nemmeno ci vanno. Gente vera, insomma, che fa i salti mortali per arrivare a fine mese.”

La regia del film mi sembra un cortometraggio apparso per caso tra i video correlati di YouTube dopo essere stato scartato dal centro sperimentale. Vederlo in un cinema ha un effetto straniante. Le scene degli esterni sono: una panchina, il cortile di una palazzina, la rampa che porta a un garage. Durante la proiezione con dibattito di alcuni giorni prima uno spettatore aveva detto: "Ahò, io faccio er tassinaro, mi diverto a riconoscere i posti in cui viene girato un film ma stavolta non c'ho capito ’na mazza." Ma anche stavolta siamo soltanto io e il tassista a rimanere perplessi davanti ai rischi del “no budget”. "La cura che De Caro mette nella messinscena," si legge in una recensione, "non è solo nella scrittura ma anche nelle scelte di ambientazione, nelle inquadrature sempre ingombre e spesso bloccate alla vista." Non so se il critico si riferisca al trenino sempre in primo piano nell’interno di un salotto o nei “sacchi dell’immondizia [sic]” del bilocale di uno spacciatore.

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Tralasciando per un attimo la messa in scena strettamente legata ai soldi, provo a concentrarmi sulla sceneggiatura: quella è gratis. "De Caro costruisce il ritmo del suo film sui corpi e le voci dei protagonisti," avevo letto da qualche parte: "senza battute facili, senza retorica barricadera. Di una classe media che anni di crisi hanno spinto verso la povertà, ma che prova sempre a rialzarsi. Questa l’intuizione politica forte." L’occasione per vedere il talento di De Caro (la sceneggiatura, va detto, l’hanno scritta in due) non tarda ad arrivare. Durante un litigio tra Christian e Valerio, il primo stuzzica l’amico dicendogli che vive come un poveraccio, “costretto a dormire in un letto singolo con la ragazza,” e Valerio gli risponde che non si deve azzardare a dare lezioni dato che non ha un lavoro serio e vive pure con la nonna. Christian, "senza battute facili, né retorica" gli risponde: “Ma sono questi i lavori seri! Diplomati, laureati lo sai che fanno? Niente! Fanno i master! Io c’avevo un cugino che c’aveva due lauree, parlava tre lingue, lo sai che faceva qua in Italia? Lavorava dentro una videoteca, guadagnava due spicci. Poi se ne è andato in Inghilterra  a Londra, e dopo sei mesi già lavora dentro l’università, guadagna quattromila sterline al mese. S’è sposato con un’inglese e l’ha messa pure incinta. Qua 'ste cose non le puoi fare."

Poco dopo il meta intervento di Christian da commentatore di Solferino 28 accade una meta-meta svolta nella sceneggiatura. Proprio come il cugino di Christian che in Inghilterra è diventato padre, Serena la ragazza di Valerio scopre di essere incinta. Vorrebbe dirlo al ragazzo, ma lui è troppo preso dai provini d’attore e finiscono per litigare.

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La figura di Serena è centrale all’interno della storia, "La crisi economica mette alla prova la virilità di maschi catapultati fuori dal loro ruolo di capofamiglia, mentre le loro donne—nonne, sorelle, fidanzate—si rimboccano le maniche con concretezza tutta femminile e fanno ciò che serve per portare avanti un progetto di vita, e magari anche di famiglia."

La virilità di Valerio "messa alla prova dalla crisi economica," lo spinge infatti a riconquistare Serena liberando una prostituta [sic] tenuta prigioniera a casa [sic] di uno spacciatore cinese [sic] di nome Pechino [sic] collega di Christian. La ragazza cinese sarà il deus ex machina che riporterà la quiete nella coppia [sic], prima di lasciare Valerio e Serena e partire nascosta in uno yacht [sic] in direzione Barcellona [sic].

Quando hanno chiesto al regista che cosa secondo lui il pubblico avesse trovato di interessante nel suo film, De Caro ha risposto: “Un aspetto dell’Italia molto vero, molto crudo, molto genuino.” Lasciando sottintendere che la seconda parte del film con la prostituta cinese che non spiccica una parola ma sistema le cose sia opera della co-sceneggiatrice e che lui non ne sapesse nulla.

Quanto fatto a Spaghetti Story è stata una mistificazione. De Caro che “voleva raccontare come vivono tutti i precari italiani, la paura non di arrivare a fine mese, ma a fine giornata,” è stato ingoiato da una cosa molto più grande del suo piccolo film. Spaghetti Story è stato usato dai giornalisti come pretesto per i loro esercizi retorici malsani, deleteri anche per lo stesso cinema di De Caro che ha pensato seriamente di aver fatto un ottimo lavoro vista l’assenza di critiche negative. Ci si è esaltati vedendo nel vuoto di una sceneggiatura il vuoto di una generazione, e nella miseria del budget una rivincita del cinema d’autore. Giustificare i 15.000 euro di spese dicendo “volevamo raccontare senza effetti speciali quello che conoscevamo” è una farsa, così come averlo paragonato a un cinepanettone.

Perché gli italiani si abituino a un cinema diverso non è necessario ogni volta parlare di “caso”. Bisognerebbe cominciare a distinguere tra ciò che è valido o meno per far sì che tornino i film belli: l’unico modo per giudicare il prossimo Spaghetti Story non come un bambino speciale, ma come un film brutto e basta.

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