FYI.

This story is over 5 years old.

News

Going Postal a Palazzo Chigi

Non c’è nessuna strategia della tensione, nessuna trama, nessun “giallo” da risolvere: sulla sparatoria di Palazzo Chigi e la trasformazione di Preiti.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Le prime notizie sulla sparatoria davanti a Palazzo Chigi di domenica scorsa sembravano uscite direttamente dagli anni Settanta. Nell’arco di poche ore Luigi Preiti—il piastrellista 49enne di Rosarno autore dell’attentato—era passato dall’essere un terrorista straniero, o un lucido killer con possibili legami con la ‘ndrangheta, a un mostro psicopatico/cocainomane che ghignava e saltellava davanti ai carabinieri implorando il suicidio: “Ammazzatemi, sparatemi voi, fatelo, vi prego…”

Pubblicità

Quando però il quadro complessivo si è fatto più nitido, la narrativa si è velocemente svuotata dalle teorie complottiste e della carica cinematografica che l’aveva contraddistinta sin dall’inizio e ha fatto emergere una storia piuttosto ordinaria di miseria e disperazione.

Vent’anni fa Gino Preiti lascia la Calabria e si trasferisce a Predosa (provincia di Alessandria), dove comincia a lavorare come muratore. Per molti anni le cose vanno bene. Dopo un primo matrimonio fallito Preiti si sposa con Ivana Dan, dalla quale ha un figlio. L’avvento della crisi spazza via l’intero settore edilizio della regione—un comparto che, come ha detto lo scorso 17 marzo Giuseppe Provvisiero, presidente dell’Anci Piemonte, “nel migliore dei casi ha ancora un anno di vita.” Preiti perde il posto, ma inizialmente non si dà per vinto: “È sempre stato un gran lavoratore," ha detto la moglie, "uno dei piastrellisti più abili di questa zona. Ha provato a mettersi per conto suo ma è stato sfortunato. È tornato a lavorare sotto padrone, qualche volta anche in nero. Pur di garantire una vita dignitosa alla nostra famiglia si è spaccato la schiena di fatica.” Ma nemmeno spaccarsi la schiena sarà sufficiente.

Le difficoltà economiche si fanno sempre più insostenibili. Il matrimonio va a rotoli, e Preiti è costretto a tornare a Rosarno dai genitori alle soglie dei 50 anni—un’umiliazione terrificante che farà dirigere l’impotenza e il rancore contro i “politici”, che “pensano solo a se stessi, guadagnano un sacco di soldi e mangiano alla faccia nostra.” Tornato in Calabria, Preiti cerca di arrangiarsi con lavoretti saltuari. Di fatto, però, ingrossa l’esercito dei disoccupati della città, che secondo il comitato Senzalavoro costituisce il 53 percento della popolazione locale. Insomma, la trasformazione di Gino Preiti è ultimata: da onesto lavoratore a relitto della società, l’ennesimo “sfigato” lasciato a marcire nelle pieghe della recessione, perché in fondo è esclusivamente colpa tua se perdi il lavoro.

Pubblicità

Sabato 28 aprile Luigi Preiti si fa prestare i soldi dalla madre, mette dentro una sacca sportiva la Beretta calibro 7.65 con matricola abrasa, esce di casa, si dirige verso la stazione di Gioia Tauro e prende il treno per Roma. Nel tragitto viene controllato da due agenti della Polfer, che verificano biglietti e documenti senza rilevare nulla di sospetto (Preiti è vestito in giacca e cravatta). L’uomo arriva nella Capitale verso le 15. Prende una stanza vicino Termini, all’Hotel Concorde. "Sembrava un uomo stanco ma tranquillo," dice il portiere al Corriere della Sera, "aveva la barba lunga ma era educato, gentile."

La mattina dopo Preiti si fa la barba, si veste e abbandona l’hotel con la pistola carica infilata nei pantaloni e la sacca a tracolla. Il nuovo governo Letta sta giurando di fronte a Giorgio Napolitano. Alle 11.30 Preiti s’incammina verso Palazzo Chigi proprio mentre poliziotti e carabinieri stanno sgomberando la piazza in attesa dei ministri. Trovandosi i varchi sbarrati dalle transenne, Preiti apre il fuoco e ferisce due carabinieri, Giuseppe Giangrande (ancora in gravi condizioni) e Francesco Negri. Viene subito disarmato e arrestato dagli altri agenti.

La confessione dell’ex muratore non potrebbe essere più lineare—e agghiacciante. “Avevo pianificato tutto," racconta alle forze dell’ordine. "Ci riflettevo da circa due settimane. Tutto era iniziato pensando che avrei dovuto dare un segnale forte per cercare di fare sentire la mia voce, la mia disperazione. La mia situazione, la separazione da mia moglie e mio figlio e il mio ritorno dai miei, in Calabria, la disoccupazione dalla quale non riesco a uscire mi hanno frustrato molto. Volevo che qualcuno si accorgesse di me, ho fatto tutto da solo." Il vero obiettivo non erano i carabinieri, ma i politici: “Volevo fare un gesto eclatante. E ho pensato che oggi fosse il giorno giusto per manifestare la mia rabbia contro le istituzioni: il governo stava giurando. Volevo sparare a un politico e poi togliermi la vita.” In carcere Preiti aggiunge di aver pensato al suicidio “in albergo sabato sera,” ma di aver poi desistito “pensando che sarebbe stato interpretato come uno dei tanti suicidi legati alla crisi.”

Pubblicità

Non c’è nessuna strategia della tensione, nessuna trama, nessun “giallo” da risolvere: si tratta di un gesto orribile compiuto da una persona piegata dalla vita, che ha totalmente perso ogni speranza nel futuro. Eppure, per stampa e politica, la confessione di Preiti non basta, non rientra nel frame delle letture precostituite degli eventi e non spiega il senso del suo gesto. O meglio: lo spiega fin troppo, quindi è meglio girare lo sguardo da un’altra parte.

Sebbene sia chiaro che non si tratti di un caso di malattia mentale o “raptus” di follia, i giornali cercano di dimostrare in tutti i modi che Preiti è un vizioso affetto da “ludopatia”, un riprovevole drogato di videopoker e slot machine—ossia l’unico responsabile del suo fallimento.

Disperato? Perché non diciamo invece che come tanti si è rovinato col videopoker, che arricchisce solo malavita e erario e andrebbe vietato?

— enrico mentana (@ementana) April 28, 2013

In realtà, i videopoker non c’entrano nulla. Preiti semplicemente aveva una grande passione per il biliardo. Frequentava spesso il “Club della stecca” del bar Stelvio di Novi Ligure, che è non un covo di delinquenti che tirano stupefacenti dal culo di una colombiana sdraiata sul tappeto verde: è semplicemente un club di giocatori di biliardo, come ce ne sono tanti in tutta Italia.  "Io non l’ho mai visto con i soldi alla mano, e sì che ho giocato tantissime volte assieme a lui" dice al Corriere della Sera Aldo Campi, il vicepresidente provinciale della Fibis. Repubblica, invece, scrive: "c’è chi dice che scommettesse forte, qualche volta anche lo stipendio della moglie quando non aveva più un euro.” La moglie però smentisce categoricamente le voci: “Non mi ha mai fatto mancare nulla e poi io che si giocava i miei soldi non l’ho mai detto.” Insomma, per gli Enrico Mentana e i quotidiani il problema non è il fatto che Preiti fosse rimasto senza lavoro, senza soldi e senza ammortizzatori sociali nel mezzo di una congiuntura economica micidiale. No, il problema sono le scommesse da 10-20 euro a biliardo.

Pubblicità

I politici—l’obiettivo primario di Preiti—hanno dato ancora una volta il peggio di loro, utilizzando la sparatoria come clava da martellare in testa all’avversario di turno. Beppe Grillo e il MoVimento 5 Stelle sono stati accusati di aver armato la mano di Preiti da fini analisti del calibro di Maurizio Gasparri, che la settimana scorsa (dopo la rielezione di Napolitano) aveva provveduto a stemperare gli animi mandando a fanculo l’intera piazza. Riferendo in Parlamento sulla vicenda, il neo ministro dell’Interno Angelino Alfano ha rassicurato i colleghi (più che il Paese) sull’assenza di “prodromi di focolai di piazza o di tensioni eversive” e si è affrettato a bollare la sparatoria come un “gesto isolato” di un pazzoide criminale.

Se però si scorre la cronaca degli ultimi mesi, è molto difficile parlare di “gesto isolato”. La notte del 22 dicembre 2012, a Gela (provincia di Caltanissetta), il 42enne Peppe Licata—un “di fatto disoccupato” che “lavorava saltuariamente come bracciante agricolo […] o manovale edile”—si era messo a sparare all’impazzata sul balcone dell’abitazione in cui viveva con i suoi genitori. L’uomo è stato poi ucciso dalla polizia, in quello che è apparso subito come un classico caso di suicide-by-cop.

L’11 febbraio 2013 Luciano Franceschi—indipendentista veneto nonché titolare di un negozio di alimentari in provincia di Padova sull’orlo del fallimento—era entrato nella filiale della Banca Padovana Credito Cooperativa e aveva sparato a bruciapelo al direttore Pier Luigi Gambarotto, ferendolo gravemente. Quando qualche giorno dopo la deputata leghista Paola Goisis era andata a visitarlo in carcere per capire quello che era successo, Franceschi le aveva fornito la seguente motivazione: “Siamo in guerra e siamo pronti a sparare. La situazione ormai è intollerabile, soprattutto per gli artigiani e per i titolari delle piccole e medie imprese. Chi fa qualcosa per aiutarci? Nessuno.”

Pubblicità

Il 23 aprile 2013, il 57enne Pietro Caputo era sceso in strada a Torino e si era messo a sparare a casaccio con una Beretta, fortunatamente senza ferire nessuno. Una volta arrestato dalla polizia, e senza opporre alcuna resistenza, Caputo si era sfogato con gli agenti: “Gestivo un circolo qui vicino ma con la crisi niente va più bene. Ero costretto a chiudere e non sapevo come fare.” In precedenza Caputo aveva anche perso il lavoro da operaio, sempre a causa della crisi: “Non ho soldi né un lavoro. Così non è vita."

Tuttavia, quello che differenzia questi casi dalla sparatoria a Palazzo Chigi non è solo il “salto di qualità” della “sindrome da ufficio postale” (dall’espressione americana Going Postal) all’italiana; è soprattutto la comprensione che il gesto di Preiti sta incontrando nella popolazione—probabilmente il dato più inquietante dell’intera vicenda.

Al corteo del Primo Maggio a Torino è spuntato uno striscione con la scritta “Il primo maggio è per voi”, affiancata dalle foto di Gino Preiti e della coppia di Civitanova Marche (Romeo Dionisi e Annamaria Sopranzi) suicidatasi lo scorso 5 aprile per problemi economici. A Padova la scritta “Luigi Preiti sei uno di noi. Pagherete caro” è stata fatta su un muro nel pieno centro della città. Su Facebook i gruppi, le pagine fan e i commenti di solidarietà a Preiti sono apparsi subito dopo la sparatoria. Le frasi “Almeno avesse sparato a un ministro,” “Peccato che si è sbagliato”, “C’era da aspettarselo” e cose simili si possono sentire nei bar, negli uffici postali, nei supermercati, in metro, sui tram, per strada.

Pubblicità

Il 29 aprile un centinaio di disoccupati di Rosarno ha protestato davanti alla sede del Comune. Come riporta il Corriere della Sera, i manifestanti “hanno scandito slogan citando Preiti e i problemi legati alla mancanza di lavoro, che hanno provocato la sua reazione di domenica nel giorno del giuramento del nuovo governo.” Nel paese c’è “una sorta di comprensione,” si meraviglia il quotidiano di via Solferino: “Alcuni partecipanti al sit-in di ieri mattina hanno commentato: 'Ha sbagliato a prendersela con quei due poveri carabinieri, ma qui non abbiamo risposte. I nostri figli non hanno da mangiare e non c’è lavoro per nessuno.'” Le motivazioni di Preiti, inoltre, sono facilmente accessibili anche alle vittime della sparatoria, cioè i carabinieri. Intervistato dall’Huffington Post, un militare ha lucidamente dichiarato: “È il gesto di un disperato. I politici non lo sanno che vuol dire prendere 800 euro al mese, entrare in un negozio e non poter comprare nulla a tuo figlio… Ecco cosa succede se non lo sanno.”

La comprensione, tuttavia, va a braccetto con un odio che dilaga in una società al quinto anno di crisi. Un odio che, come ha scritto lo storico Aldo Giannuli, “provoca quel vuoto di azione collettiva che apre la porta ai gesti disperati individuali che non servono ma, anzi peggiorano le cose.” Un odio che continua a essere ignorato dai partiti politici, troppo impegnati a darsi di gomito per essere riusciti a “risolvere” il marasma istituzionale che loro stessi hanno creato.

Nel suo discorso in Parlamento, Enrico Letta ha detto che c’è bisogno di “rasserenare gli animi,” “abbassare le tensioni,” tornare a prestare “attenzione alla realtà.” Nobili parole, certo, ma che vanno a schiantarsi proprio con l’invocato principio di realtà. Il nuovo governo dovrà trovare in fretta e furia almeno 1.5 miliardi di euro per rifinanziare la cassa integrazione in scadenza; qualche miliardo per bloccare l’aumento dell’Iva e la Tares, misure introdotte mesi fa dal governo Monti tra il plauso generalizzato dei partiti; e altri soldi per non mandare a casa i precari della Pubblica Amministrazione che scadono a giugno. In tutto questo, Berlusconi ha già cominciato a ricattare Letta e quello che rimane del Pd con l’Imu, pronto a far collassare il “governo delle larghe intese” e fare il pieno alle elezioni.

La sparatoria a Palazzo Chigi ha sbattuto in faccia a tutti che la “pacificazione sociale” vagheggiata dagli Editorialisti Impegnati dopo la formazione del Governo Letta semplicemente esiste solo nella loro testa. Nella testa di molti altri ci sono altre scene: quelle dei rapporti umani andati in fumo, delle giornate perse nei centri d’impiego, dei licenziamenti, delle umiliazioni quotidiane, della rabbia strisciante, di una diseguaglianza diffusa e sempre più soffocante, della completa assenza di prospettive.

Segui Leonardo su Twitter: @captblicero