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Música

Chi svolterà con Spotify?

La spartizione degli introiti di Spotify non è mai stata limpida, e lo è ancora meno ora che è sbarcato in Italia.

Nel mio piccolo meschino cuore, si stava rendendo più che sufficiente la notizia che su Spotify “durante la settimana sanremese saranno disponibili sulla piattaforma contenuti in esclusiva streaming per alcuni degli artisti che prendono parte alla kermesse canora, come Chiara, Max Gazzè, Marta sui Tubi, Annalisa e altri ancora" per farmi evitare come la peste il neoarrivato (in Italia) servizio di streaming. Però vabe', io ho delle fisse estremiste poco salutari e poco simpatiche, che puntualmente mi trovo a mettere da parte per dovermi confrontare col mondo vero.

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Anche in questo caso è stato così: ci sono una lunga serie di spunti che quell'iconcina verde si porta dietro e che non possono non meritare una riflessione. Alcuni di questi sono triti e ritriti, considerato che il servizio non è di certo una novità (tecnicamente esiste dal 2008, ha contato il suo decimilionesimo utente nel 2010) e che è arrivato in Italia davvero l’anno del cazzo; altri sono specificamente legati al nostro Paese, all’ordinamento assurdo e contorto che vige sul diritto d’autore.

Non c’è davvero bisogno che vi spieghi come funziona il servizio, che è estremamente semplice, e comunque probabilmente lo avrete già scaricato tutti. Il lancio italiano, di due giorni fa, è stato rimbalzato da praticamente tutti i media, insieme alle sperticate lodi del presidente di SIAE Gaetano Blandini, galvanizzato da uno strumento della rivoluzione digitale che offre finalmente opportunità di combattere la “pirateria” musicale. Inutile dire che, per chi sa quale anomalia giuridica e trappola burocratica che la Società Italiana Autori Editori rappresenti, è un tantino sospetto, ma a questo arriveremo in seguito.

Prima di parlare di SIAE, infatti, è necessario ribadire un paio di punti essenziali, il primo dei quali riguarda l’approccio che si può avere da utenti con il software in sé. Il principale pregio di Spotify è, secondo tutti, il suo essere incredibilmente user-friendly, intuitivo e versatile sia nella versione mobile che in quella “fissa”. Impossibile da negare anche se, ad orecchie ancora non abituate, si possono creare momenti di irritazione e spaesamento totali per colpa delle interruzioni pubblicitarie. C’è qualcosa di assolutamente mortificante nell’idea-base che il prezzo da pagare per un “piacere” debba essere, in termini di lavoro-moneta, la sopportazione di qualcosa di spiacevole. Tutto l’internet funziona così, ma nel resto dell’internet ci puoi tranquillamente mettere adblock in mezzo. La pubblicità è la fonte di introiti #1 del sistema su cui la baracca-Spotify si regge, e per evitarla bastano i pochi euro al mese di abbonamento (o un fantomatico "blockify"). Questi soldi, da ovunque arrivino, finiscono comunque nelle tasche degli artisti secondo un criterio di spartizione, ci dicono, molto matematico ed equo, fatto di percentuali esatte. L’obiettivo è esattamente questo: combinare la semplicità dello streaming libero con un guadagno fisso da parte degli autori, un modello talmente semplice che deve necessariamente funzionare, garantendo una base di entrate anche al più micragnoso degli artisti underground. La svolta del millennio, giusto? Sbagliato, ovviamente.

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Non ci sono voluti un fantastiliardo di anni perché si scoprisse che un meccanismo di questo tipo, allo stato delle cose, non può assolutamente funzionare. Le principali polemiche sono nate già quattro anni fa, in paesi come la Svezia, che sono anche quelli in cui il servizio è disponibile da più tempo. C’è voluto poco perché anche in Inghilterra a qualcuno iniziassero a girare le balle. Le cose stanno così: considerate le entrate effettive dell’azienda e rapportate queste al numero di artisti presenti, ci vuole un numero abbastanza grosso di ascolti per ammucchiare giusto un pugno di spicci. Ci sono artisti che hanno già lamentato il pagamento di 8 sterline per 90.000 passaggi totalizzati, e altre cifre del tutto simli. Cifre che fin troppi artisti non hanno francamente mai visto, trovandosi però lo stesso con le tasche ben più piene. Giusto qualche minuto fa ho acquistato un album dell’ultimo degli stronzi in digital download e l’ho pagato sei euro tondi. È una mia abitudine, e nemmeno delle più inusuali; non è un mistero per nessuno che l’underground si sostenga ancora su un network di appassionati che, accompagnandolo magari a un download illegale esagerato, impiegano ancora una parte delle loro risorse per pagare il companatico ai loro preferiti.

Se cercate Pio d'Orco qualcosa non quadra. 

Questo racconto non serve, però, a spianare la solita apologia del modo di fare old school, piuttosto a spiegare quanto sia falsa la pretesa di avere costruito un sistema in cui l’accesso e il vantaggio siano garantiti a tutti, a ciascuno secondo il suo merito. Si sta invece puntando verso un ritorno all’affare per pochi, sperando di costruire un filtro che pian piano si disferà di chi non ha la possibilità di competere su quel piano di “merito”. L’idea di un mercato basato esclusivamente su una struttura di questo genere è orientata più verso una specie di pulizia etnica che altro. Anche a livello di user, ci si rivolge molto di più agli ascoltatori casuali e poco curiosi, anche per quanto riguarda gli account premium: un appassionato dedica molti più di cinque euro al mese (il costo dell’abbonamento) alla spesa musicale. Si passa attraverso una nuova idea per recuperare un regime commerciale arcaico, monocanale più che ai tempi in cui MTV trasmetteva video musicali.

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Di tutto questome ne sbatterei se non fosse lo stesso Spotify a piazzarsi sopra il capo un’aureola di indie-salvezza per gli artisti minori. In egual misura mi sentirei un po’ in difficoltà a pensare che, di fatto, dei soldi che potrei aver pagato, la maggior parte sarebbero finiti a qualcuno a cui non solo non ne avrei dati di mia sponte, ma che proprio avrei piacere a vedere spiaccicato da un cingolato… molti più di quelli che invece beccheranno gli artisti per i quali ho effettivamente usato Spotify. Per i gestori sembra contare di più il fatto che “qualcosa”, per quanto infinitesimale, arrivi a tutti, investendo su una forma virtuale di pagamento che sostituisce la libertà di scelta effettiva con una assolutamente posticcia. Un po’ un mix degli aspetti più paraculi di socialismo e capitalismo, in cui tutti si spartiscono la stessa torta, ma con fette inevitabilmente diverse.

C’è da dire, comunque, che non stiamo illustrando uno scenario poi così apocalittico: nel momento in cui questa “filtratura” sarà terminata, il settore “indipendente” avrà continuato a lavorare come ha sempre fatto, appoggiandosi sui fan veri, sulle scene, su una creatività libera. Questo, ovviamente, a meno che nei prossimi anni l’interazione tra certi servizi non sia totale ed esclusiva. Non sono mai stato un catastrofista a questi livelli né ho mai preteso di predire il futuro, ma chissà davvero che un giorno su tutti i nostri dispositivi non sarà possibile ascoltare mp3 provenienti da un’unica fonte certa.

Oggi Blandini, capo di un apparato burocratico disutile e ingiusto, praticamente soverchiato da una quantità ridicola di debiti, esulta per l’arrivo di Spotify e io non posso che farmi qualche domanda. Per come funziona la legge in Italia, SIAE ha l’esclusiva sulla tutela del diritto d’autore, unica a fornire un servizio dotato di valore legale anche per quanto riguarda la diffusione tramite streaming online. Quello che non è chiaro, in questo senso, è in che modo la già di per sé infame divisione dei ricavi di Spotify si relezioni con la Società, anche perché finora pareva fosse proprio la presenza di quest’ultima a frenarne l’arrivo nel paese di Pulcinella e Berlusconi. Quello che sarebbe interessante è capire quanta parte dei soldi incassati da Spotify vada a finire poi nelle casse di SIAE, il cui ordinamento, aggiornato, recita: “I compensi incassati per il prelevamento di opere musicali in formato digitale a mezzo rete telematica e/o di telecomunicazione sono imputati per il 75 percento a diritti di riproduzione meccanica e per il 25 percento a diritti di esecuzione; i compensi così suddivisi sono attribuiti semestralmente alle composizioni elencate nei singoli 'report' consegnati periodicamente alla SIAE a cura dei content provider, in relazione all’importo corrisposto per ogni singola composizione.”

Allo stesso tempo, l’amministratrice delegata di Spotify Italia ha illustrato così il modo della sua azienda di far guadagnare gli artisti “il 70 percento dei ricavi vengono dati a case discografiche e collecting societies—quindi la SIAE, in Italia.” Quello che vorremmo sapere, in sostanza, è quale sia la effettiva ripartizione di questo 70 percento tra etichette e SIAE. La situazione è confusa, soprattutto visto che legalmente i soldi dovrebbero passare prima per la SIAE e poi per le label—caso, quest’ultimo, in cui un’artista Italiano non iscritto finirebbe per vedere ancora meno spicci di quanti già ne raccatti. Purtroppo per noi, però, gli accordi che l’iconcina verde stringe con label e collecting society sono strettamente privati, e non ci è dato di sapere. Sarebbe grottesco e paradossale venire a scoprire che quello che molti gonzi hanno salutato come sistema “alternativo” alla SIAE fosse in realtà fonte di ulteriore ingrasso per quest’ultima. Talmente grottesco da suonare persino verosimile.

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