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stili di gioco

Solo un capitano

Chi era Agostino Di Bartolomei, storico capitano della Roma.

I calciatori godono del privilegio raro di compiere un lavoro che li rende felici. D'altra parte, però, sono dei professionisti altamente specializzati che vanno in pensione a 30 anni. Ho scritto questo pezzo chiedendomi cosa potesse aver impedito ad un uomo come Di Bartolomei, con un'ambizione disillusa di continuare a lavorare nel mondo del calcio ma con uno spessore maggiore rispetto a quei calciatori che davvero non potrebbero fare altro nella vita, di invecchiare tranquillamente al fianco della moglie. Se Ancelotti si è tolto qualche soddisfazione sportiva in più (vincere la Champions League da giocatore e allenatore deve essere bello, ma credo che difficilmente cose di questo tipo possano fare la differenza tra la vita e la morte), non poteva Ago rilassarsi con una mano sul ginocchio di quella splendida donna borghese, su quello stesso divano da cui adesso lei rilascia interviste in sua memoria, con la voce rotta e sorrisi più tristi di qualsiasi pianto? In Di Bartolomei era visibile quel disagio che mette a disagio, che chi ce l'ha fa di tutto per tenere nascosto. Che non è tristezza, ma di cui forse fa parte il dolore di un uomo lontano, equidistante in qualsiasi momento dalla possibilità di sentirsi realizzato. Il pezzo che segue è una revisione di quello originariamente uscito su  minimaetmoralia, con in più un'appendice su un altro capitano della Roma: Giuseppe Giannini, il principe di Frattocchie. 

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A Roma, città-famiglia, ci si riferisce ad Agostino Di Bartolomei, capitano del secondo scudetto e della finale di Coppa dei Campioni persa all'Olimpico contro il Liverpool, chiamandolo con affetto e tenerezza Ago o Diba, e quando si parla di lui, suicida esattamente dieci anni dopo quella finale (30 maggio 1984-30 maggio 1994, e non sapremo mai se si tratta di una coincidenza), l'emozione è quella che si avrebbe per un fratello maggiore o un figlio scomparsi troppo presto. La mitizzazione avvenuta dopo la sua morte lo ha trasformato nell'emblema del capitano silenzioso, simbolo di riservatezza contrapposto alla più comune spavalderia romana. Per alcuni, in sostanza, Di Bartolomei rappresenta l'anti-Totti.

Così, quando qualcuno a Roma dice "per me c'è solo un capitano" può riferirsi tanto a quest'ultimo, quanto alludere al ricordo del caro Ago. Il mio giornalaio, quando ho acquistato una copia del documentario a lui dedicato, 11 Metri, mi ha avvertito: "In bocca al lupo. Io non ce l'ho fatta a finirlo, mi manca l'ultima mezz'ora".

Eppure, come riportano Bianconi e Salerno nel loro libro L'Ultima Partita, tra il tifo di Roma e Di Bartolomei non fu amore a prima vista. "Credo mi abbia giocato un brutto servizio il fatto che mi piace molto studiare e aggiornarmi, interessarmi di tutto… Mi piace molto anche la letteratura: italiana, russa, romanesca. Sono un cultore appassionato di Trilussa e di Belli, autori di poesie bellissime e tristi al tempo stesso, che hanno il pregio di descrivere con impietosa precisione l'animo del romano. E non è vero che il romano sia un allegrone; è soprattutto triste perché è consapevole della sua decadenza dai tempi in cui dominava il mondo a oggi."

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Il suo carattere introverso fu scambiato per arroganza e il suo gioco troppo compassato interpretato come scarsa attitudine al combattimento. In competizione per un posto a centrocampo con il capitano d'allora Franco Cordova, i tifosi minacciavano lui e il presidente Anzalone chiedendogli di non farlo giocare. Di notte una macchina gli tagliò la strada provando a buttarlo fuori carreggiata. Al ritorno da una partita persa contro la Juve a Torino, dei tifosi lo picchiarono. Di Bartolomei, a vent'anni, preferirà passare un anno in serie B, al Vicenza, per farsi le ossa senza troppe pressioni, mentre quel Cordova cui una parte di Roma dimostrava di tenere tanto si trasformerà, dopo un paio d'anni, nell'emblema del traditore costringendo la società, che aveva deciso di venderlo, a cederlo alla Lazio per ripicca.

Persino durante l'anno di studio di Agostino a Vicenza, un lunedì che era tornato a casa e aveva portato a cena una ragazza, dei rapinatori entrarono nel ristorante e lo ripulirono. In 11 Metri questo episodio viene raccontato come probabile causa scatenante della passione di Di Bartolomei per le armi. Bianconi e Salerno riportano la seguente dichiarazione di Bruno Conti: "Lui era amante delle pistole, aveva il porto d'armi e una la teneva sempre con sé, nel borsello. Il motivo non l'ho mai saputo. Fatto sta che a volte, nello spogliatoio o altrove, la tirava fuori e ce la puntava contro; naturalmente era scarica, ma c'era chi s'arrabbiava." I due autori ricordano che molti giocatori giravano armati, per via forse del "clima di quegli anni-coi sequestri di persona, il terrorismo, una generale insicurezza che si respirava soprattutto negli ambienti ricchi e altolocati."

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Quanto è lontana la Roma degli anni Settanta da quella a cavallo del secolo, e quanto è lontano Di Bartolomei, e il senso di decadenza storica di cui parla, da quei romani che si tatuano colossei e gladiatori (Totti ne ha uno anche sulla fascetta da capitano), dalla retorica imperiale riattualizzata in quel The King of Rome Is Not Dead che è diventato lo slogan di Totti, da qull'agio ostentato di chi si sente sempre a casa propria? La biografia sul sito francescototti.com è divisa in capitoli come: "L'uomo che diverrà leggenda"; "Indomito condottiero", "Per la Gloria di Roma" e la sua nascita è descritta con l'enfasi degna di un profeta nelle sacre scritture: "Anno 1976. La città eterna, culla dell'Impero che dominò il mondo, contempla la nascita di una splendente stella, incarnazione di talento, tenacia e umanità: è Francesco Totti, colui che di Roma diverrà figlio prediletto, simbolo ed eroe."

E così è stato. Se Roma ha assegnato a Di Bartolomei il ruolo di fratello maggiore tormentato, Totti è stato all'inizio (e in parte resterà per sempre) Il Pupone, il figlio prediletto cui si perdona tutto e da cui, passati i trent'anni, ci si aspetta quasi che cominci a far miracoli. Per Totti, più che di "ottavo Re di Roma" (o nono, decimo, visto a quanti prima di lui è stata assegnata la corona) si dovrebbe parlare di una specie di Papa laico a cui vengono messi in braccio i bambini per strada. Quando Totti, la cui disponibilità è una delle qualità più apprezzate, si è presentato alla cena di Natale della squadra lo scorso dicembre, al museo Maxxi, i bambini a caccia di autografi erano tutti intorno a Lamela (forse perché più vicino a loro di età). A sbarrargli la strada fu un disabile e, subito dopo, una di quelle arzille vecchiette romane che di recente finiscono su Youtube. Immaginatevi la scena: Totti piegato a parlare con uno sconosciuto sulla sedia a rotelle, Totti che cammina sotto braccio con un'anziana uscita di casa in pantofole. E in un certo senso, senza alcuna ironia, sono proprio queste le mansioni di un vero Re di Roma.

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Nonostante gli eccessi in campo (lo sputo a Poulsen, il calcio a Balotelli, le magliette goliardiche Vi Ho Purgato Ancora, che potrebbero diffondere l'immagine di una romanità rosicona e strafottente), Totti a modo suo è un ragazzo semplice e persino riservato. Il discorso è complesso e ai romani sembrerò semplicistico quando per riassumere dirò che l'immagine che si ha oggi di Totti è frutto di due influenze: quella mediatica, che qualcuno sostiene essere stata costruita a tavolino nel salotto di Maurizio Costanzo, dei libri di barzellette su Totti e delle pubblicità Vodafone; e quella sportiva, con quel ruolo da parafulmine che la società, la Roma di Sensi, prima ancora della città sempre bisognosa di "condottieri", gli ha chiesto di svolgere negli ultimi anni. Anche in questo caso il trattamento riservato ai due capitani è stato diametralmente opposto. A Totti un contratto da venti milioni per cinque stagioni (firmato a 33 anni, con il salvagente di un posto nella dirigenza al termine della carriera), a Di Bartolomei quello che è passato alla storia come l'esilio nelle nebbie di Milano.

A causa della sua lentezza (la scarsa atleticità caratteristica di quasi tutti i giocatori romani di talento) Liedholm decise di arretrare Di Bartolomei sulla linea dei difensori (non solo per la lentezza, ma anche per avere un uomo in più a centrocampo in fase di possesso palla) e fu lo stesso Di Bartolomei a chiedere all'allenatore svedese di portarlo con sé al Milan l'anno seguente-mesi prima della finale di Coppa Campioni che segnerà così profondamente il suo destino, tra l'altro. Alla Roma infatti stava per arrivare un altro svedese, Eriksson, portatore di una novità chiamata pressing, per cui la capacità di corsa diventava fondamentale per i giocatori in campo.

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A Di Bartolomei l'odore della panchina non piaceva; persino alla Salernitana, in serie C1-dove arrivò dopo un breve passaggio a Cesena-quando l'allenatore decise di metterlo tra le riserve lui si rifiutò preferendo la tribuna (per la cronaca: dopo poche partite l'allenatore fu esonerato e Di Bartolomei l'anno seguente riportò la Salernitana in B da titolare e capitano). Di Bartolomei sarebbe rimasto a Roma per sempre, certo, ma alle sue condizioni.

Anche il suo rapporto coi compagni di squadra non era dei più tranquilli. Non amava Falcao (chissà se davvero ce l'aveva con Falcao perché non tirò il rigore contro il Liverpool), ma anche per gli altri, una volta andato via, non aveva belle parole: "No, non c'è un compagno cui sia particolarmente legato. Il calcio è spietato, non è tutto oro. Tra noi nasce sempre una forte rivalità, si sviluppa una competitività accesa. Lo so, non è bello, ma è così. Il rovescio della medaglia. In campo tutti uniti, tutti assieme, poi subito contro. I miei amici sono fuori dal calcio. È un bilancio un po' amaro, ma credo inevitabile, realistico."

Siamo all'opposto, di nuovo, rispetto a quel Totti che si spende per far venire a Roma i giocatori migliori del panorama calcistico italiano (Buffon su tutti, anche se alla fine non è venuto). Su richiesta della società, si capisce, che a fronte del sacrificio economico sostenuto per tenerlo da top-player nella sua città, gli ha chiesto di assumere questo ruolo di ambasciatore.

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Calcisticamente parlando Totti ha saputo supplire alla lentezza con una non comune abilità nel proteggere la palla, sviluppando al massimo la sua capacità di pensare più rapidamente degli altri e quella visione di gioco a cui ci si riferisce dicendo che "ha gli occhi dietro la testa." Spalletti anziché arretrarlo lo avanzò per sfruttare proprio questo tipo di capacità, un finto-centravanti capace di segnare 26 gol in 35 partite vincendo la Scarpa d'Oro nel 2006.

La stagione 2011-2012 era cominciata male, col tecnico spagnolo Luis Enrique che sembrava volerlo mettere in panchina e gli iniziali dissapori con la nuova dirigenza. Si può discutere se alla fine Luis Enrique sia sceso a patti con la piazza o meno, ma le statistiche, a stagione conclusa, sembrano a favore del giocatore.

Con otto gol, sette assist, una media di 53.8 passaggi a partita, più alta di quella di qualsiasi altro attaccante in Serie A, 2.8 passaggi chiave a partita (passaggi con cui, cioè, ha mandato al tiro uno dei suoi compagni) e 3.7 tiri a partita, al di là del giudizio di ognuno, è oggettivo che Totti ha dato un contributo alla stagione della Roma non indifferente.

Si dice che Villas-Boas non sia venuto alla Roma per evitare di trovarsi in un situazione simile a quella del Chelsea, con una vecchia guardia difficile da gestire e alcune esclusioni eccellenti impossibili. In sostanza, per colpa di Totti. È presto per capire come verrà gestito da Zeman e se sarà in grado di rimotivarsi per essere al livello fisico richiesto. Per il momento c'è questo video divertente di Totti che con un carico sulle spalle prova a fare il furbo durante un esercizio, e Zeman lo fa ricominciare da capo.

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Non posso esserne certo, ma credo di poter dire che Di Bartolomei si adatterebbe alla perfezione in quel ruolo di playmaker lento e tecnico che, paradossalmente, ha fatto tornare di moda proprio la sua nemesi, Carlo Ancelotti, arretrando davanti alla difesa Pirlo, che allora, nel 2002, era considerato un trequartista (e pare che quest'anno un destino simile attenda Pastore). Assente nella finale contro il Liverpool, Ancelotti passò come Di Bartolomei dalla Roma al Milan, ma a differenza di quel Di Bartolomei dipinto in attesa di una telefonata importante dalla Roma o da Berlusconi (diviso tra il proprio centro sportivo nel Cilento e la pulizia della sua collezione di armi), Ancelotti dal Milan ottenne la possibilità di proseguire la carriera come allenatore. Solo di recente la nuova dirigenza giallorossa ha nominato il principale campo di allenamento alla memoria di Di Bartolomei, provando così a colmare un silenzio lungo quasi vent'anni.

Cosa influisce davvero sul destino di un calciatore dopo l'addio al calcio giocato? Se il paragone tra Di Bartolomei e Totti è ingiusto (come in generale è ingiusto paragonare il ricordo affettuoso per una persona scomparsa prematuramente a un uomo in carne e ossa), che tipo di accoglienza avrebbe riservato Roma a quest'ultimo, se avesse deciso di cambiare maglia, se Carlos Bianchi nel 1996 avesse convinto Sensi a cederlo, se Totti avesse deciso di seguire le sirene che lo portavano a Madrid e Milano? Sarebbe ancora il-più-forte-giocatore-di-tutta-la-storia-della-Roma?

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Al fischio finale di Roma-Milan, campionato 1984-85, girone di ritorno, quando Di Bartolomei torna da nemico nella sua città dopo aver segnato ed esultato all'andata e dopo qualche ruvidezza di troppo con l'amico Bruno Conti (commovente, nel documentario, l'abbraccio fraterno con cui lo cinge da dietro a un certo punto) si scatena una piccola rissa in cui Diba viene colpito da un pugno. Bum-Bum-Graziani, come lo ha ribattezzato Galeazzi nel dopo partita, con l'accento di Subiaco e l'aria di uno che si è scrollato facilmente di dosso il peso del rigore decisivo sbagliato contro il Liverpool, rappresenta quella parte di città e di tifo romanista che riteneva giusto aver punito l'ex irrispettoso, quello stesso capitano a cui pochi mesi prima avevano dedicato lo striscione forse più bello di sempre: "Ti hanno tolto la tua Roma ma non la tua curva." Come se il debito di riconoscenza dell'uomo nei confronti della città debba essere maggiore di quello della città nei confronti dell'uomo.

Di Bartolomei, allo stesso microfono a cui Graziani rideva con sguardo bovino, dice: "Sono un uomo tranquillo, e un bravo ragazzo," ma l'atteggiamento di inquietudine generale nei suoi confronti sembrava essere più simile al giudizio che Sorrentino, ne L'Uomo in Più, fa esprimere al presidente della squadra di calcio che si rifiuta di far lavorare il protagonista (delineato proprio sulla figura di Di Bartolomei): "Il calcio è un gioco, e tu fondamentalmente sei un uomo triste."

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Al personaggio di Sorrentino, però, manca la profondità di Di Bartolomei, quell'elemento perturbante che, se da un lato porta i suoi stessi figli a chiamarlo Ago invece di papà, renderà indelebile la memoria del suo sguardo. Nella parte del libro in cui Bianconi e Salerno raccontano l'anno dello scudetto Di Bartolomei si esprime così: "C'è sempre un dubbio per un uomo di buon senso. Io ho avuto sempre il dubbio e, credetemi, soltanto oggi, quando l'arbitro ha fischiato, mi sono sentito fuori da un incubo." Quando gli chiedono se per incubo intendesse il testa a testa con la Juventus lui specifica: "No, non soltanto quello, ma la paura di non farcela."

APPENDICE: IL PRINCIPE DI FRATTOCCHIE

Se Totti interpreta il ruolo di Re come meglio può, a Giannini quello di Principe è sempre andato stretto. Il giocatore migliore della Roma peggiore dal dopoguerra a oggi, Giannini, con la sua aria scanzonata e presuntuosa, la sicurezza di sé a prescindere, la particolare qualità della sua leggerezza, è il perfetto contrappunto alle profondità abissali in cui  qualsiasi intervista a Di Bartolomei o su Di Bartolomei ci proietta. Nella puntata dedicata a Giuseppe Giannini della serie Uomini in Giallorosso di Roma Channel, il Principe è un uomo non più giovane, un ex-ragazzo-fatto-col-pennello che aggiustava i motorini a Frattocchie, stempiato, con gli occhiali da sole sui capelli ancora lunghi-si direbbe unti-che si mangia le parole e strizza gli occhi contro-sole, i cui sorrisi irresistibili si sono trasformati in una sorta di perenne espressione di disgusto, un ragazzo che esultava togliendosi la maglia (e sotto aveva quella della salute) che, come i romani di una volta, al passato prossimo preferisce quello remoto: "e il cuore mi batté tantissimo"; "piano piano feci anche abbastanza bene e quindi rimasero contenti"; "mi arrivò la convocazione."

La grande delusione della carriera di Giannini è stata la partita persa 3-2 in casa contro il Lecce, con la Roma virtualmente campione e la festa rovinata all'ultimo. Giannini a distanza di anni non trova parole migliori di queste per descrivere quel giorno: "Non lo so che successe. Facemmo gol. E ci sedemmo. Ormai 1 a 0, ci dicevamo è fatta, è fatta, facevamo possesso palla eccetera e invece il Lecce con due contropiedi passò in vantaggio. 2 a 1, mi sembra" (il corsivo è mio, a sottolineare che Giannini non ricorda bene la partita più importante della sua vita). Nelle immagini d'epoca Giannini parla di sé in terza persona: "Devo dire grazie a tutta la squadra se Giuseppe Giannini si sta affermando come goleador quest'anno," e le sue ambizioni sono quelle di tutti i romani: "Per un romano avere oltre che la maglia numero 10, che l'hanno portata a detta di tutti insomma i giocatori sempre più importanti, senza nulla togliere agli altri, avere la maglia numero più la fascia capitano credo che sia l'apoteosi, il massimo, per un romano, per me." Nel 1994 però gli capita la cosa, a rigor di logica, peggiore che potrebbe capitargli: Giannini sbaglia un rigore nel derby (la Roma quell'anno rischiava la retrocessione e solo un suo gol a Foggia due settimane dopo evitò il peggio). Giannini è un romano sempre a suo agio, senza macchia, a posto con il passato, che anche nella sconfitta riesce a vedere del buono (anche se magari è buono solo per lui). Dopo essere usciti dalla coppa Uefa, in casa contro lo Slavia Praga (voglio dire, lo Slavia Praga), Mazzone entra nello spogliatoio ed elogia Giannini davanti ai suoi compagni. E lui ancora se lo ricorda: "Lo disse davanti a tutti, disse: te così puoi giocare altri cinque anni con una gamba sola. Questo è un elogio bellissimo che porto ancora con me. Questo è Peppe Giannini. Questo è stato Mazzone per me."

Ai tifosi della Roma fanno male le immagini di Giannini con la maglia del Napoli e del Lecce, o i manifesti elettorali di Forza Italia. Ma se Giannini non ha mostrato rispetto per la città, si può dire anche il contrario: con la partita di addio del Principe (nel 2000 la Lazio aveva vinto lo scudetto e Sensi non aveva ancora ufficializzato l'acquisto di Batistuta, o forse sì) finita in invasione di campo generale con completa distruzione di tutto ciò che si poteva distruggere. Gente che tornava a casa con zolle dell'Olimpico in tasca, pezzi di rete e frammenti di plastica bianca appartenuti ai pali. Diciamoci la verità: ci poteva essere fine migliore?

P.S.: Anche da allenatore e commentatore, Giannini continua a regalare perle. Il capolavoro, secondo me, sono le dimissioni date da allenatore del Grosseto. Solo un romano può decidere di dimettersi dopo aver sconfitto, fuori casa, una delle favorite del campionato (il Pescara di Zeman). La sua dichiarazione è un esercizio di spavalderia contro il presidente del club, Camilli: "Sì, credo che sia giusto così. Proprio perché così uno gioisce il doppio. È probabile che qualcuno gioisca il doppio, quindi va bene così"-qui, almeno a me, non è chiaro cosa voglia dire, se è lui a godere il doppio o se, sempre da ottimo romano, ne approfitta per fare anche la vittima. "Perché? Perché non mi va di essere giudicato di settimana in settimana. Voglio essere sereno nelle cose, nel lavoro. A un allenatore credo gli debba essere dato del tempo per fare qualcosa. E quindi essere giudicato di domenica in domenica a me non piace, e siccome non mi piace ho deciso questo. Ma già da lunedì scorso." La cosa eccezionale è che Giannini va così in là nelle sue lamentele che quello che sta criticando, quello che non gli piace, non è il comportamento del Presidente Camilli, ma il lavoro stesso di allenatore professionista, legato ai risultati della squadra e quindi, di fatto, giudicabile di domenica in domenica.

Segui Daniele su Twitter: @DManusia