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Bombardare i barconi non serve a nulla

Davvero basta bombardare qualche barcone sulle coste libiche e arrestare qualche scafista per risolvere una questione ormai strutturale? Ne abbiamo parlato con Andrea Di Nicola, autore del saggio "Confessioni di un trafficante di uomini".
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Dal nostro documentario

Le prigioni dei migranti in Libia.

Dopo la strage di Lampedusa del 2013, tutti erano più o meno concordi sul fatto che bisognasse fare qualcosa, e che non si sarebbero "mai più" dovute ripetere ecatombi di questa portata. A distanza di due anni, le stragi nel Mediterraneo non solo sono continuate come prima; sono diventate ancora più letali. Il 19 aprile, come noto, al largo della Libia hanno perso la vita tra i 700 e i 900 migranti nel più grave naufragio di sempre.

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Ma se nel 2013 l'Italia aveva avuto un (apparente) sussulto di umanità, questa volta la situazione sembra sensibilmente peggiorata. I corpi recuperati sono stati sepolti a Malta, lontano dai riflettori e dagli occhi dell'opinione pubblica, e il dibattito politico si è subito innestato su binari fin troppo precisi.

Da più parti si è anche tornati a chiedere a gran voce il "blocco navale," ignorando completamente i disastrosi risultati che ha portato questa misura quando è stata implementata a metà degli anni Novanta dal governo di centrosinistra di Romano Prodi—su tutti, basta ricordare la catastrofe dello speronamento della motovedetta Katër i Radës, una manovra della marina militare che ha causato più di 80 morti.

Le reazioni all'interno delle istituzioni europee si sono concentrate esclusivamente sul versante repressivo, confinando ancora una volta l'intera questione dell'immigrazione nel campo securitario e di blindatura dei confini.

Il 21 aprile il Consiglio dei ministri degli esteri e dell'interno dell'Unione Europea ha presentato un piano in dieci punti che, tra le varie cose, prevedono la distruzione dei "barconi utilizzati dai trafficanti" e il "rapido rimpatrio dei migranti irregolari."

L'iniziativa dell'UE è stata pesantamente criticata sia da esperti come il professore Fulvio Vassallo Paleologo, che da diverse organizzazioni umanitarie. Quest'ultime hanno invocato soluzioni condivise a livello europeo, tra cui il ripristino di una missione sul modello di Mare Nostrum e l'apertura di canali legali di ingresso per i rifugiati.

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Ma invece che potenziare le missioni di soccorso e cominciare a ragionare sull'apertura di "corridoi umanitari," al momento l'Unione Europea e Matteo Renzi hanno deciso di puntare tutto sul contrasto ai trafficanti, definiti dal Presidente del Consiglio "gli schiavisti del ventunesimo secolo."

In relazione alla strage del 19 aprile, la stampa ha dato grande risalto agli scafisti arrestati—un cittadino tunisino e un siriano—al fatto che il conducente dell'imbarcazione era " ubriaco e fumava spinelli" e alle telefonate intercettate tra altri trafficanti nell'ambito di un'inchiesta della procura di Palermo.

Per la piega che ha preso il discorso europeo, insomma, questa volta ci sono pochi dubbi su cosa si debba fare: togliendo di mezzo i trafficanti, le stragi di migranti si arresteranno magicamente. Ma davvero basta bombardare qualche barcone sulle coste libiche e arrestare qualche scafista per risolvere una questione ormai strutturale? Davvero è così semplice? Naturalmente no.

Quello che a mio avviso sfugge—tra i mille piani d'intervento e le divisioni all'interno degli stati membri dell'Unione Europea—è l'effettiva comprensione di chi siano veramente i trafficanti, e di come operi in concreto la loro rete.

Per cercare di capirlo ho chiamato il professore Andrea Di Nicola, criminologo dell'Università di Trento che si occupa da anni di questi temi e che nel 2014 ha scritto—insieme al giornalista Giampaolo Musumeci—il saggio Confessioni di un trafficante di uomini.

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"Anzitutto, i trafficanti non sono gli scafisti," mi spiega Di Nicola, "che sono solo l'ultimo anello della catena." In Italia si fa infatti un'enorme confusione sulla figura dello scafista, che quasi sempre viene indicato come il Male Assoluto. Il punto, come ha sottolineato Don Mussie Zerai in un'intervista, è che molto spesso al comando di un barcone non ci sono i "veri scafisti," ma migranti senza alcuna preparazione a cui viene scontato il prezzo del viaggio.

Secondo Di Nicola, i trafficanti di alto calibro "sono professionisti del crimine violenti e spietati, degli opportunisti che alimentano economie criminali e drenano risorse da paesi che ne avrebbero bisogno. In più, cercano di sfruttare le vulnerabilità sistematiche delle istituzioni europee e dei nostri paesi, entrando nelle maglie della legislazione."

Dietro di loro c'è un un sistema che "si avvicina molto a una rete fatta di nodi e rapporti sociali. Qualcuno ce l'ha definito come il 'Facebook dei trafficanti'. Le reti, quando sono leggere, si ristrutturano facilmente; è difficile smantellare reti che esistono dappertutto."

Questa rete, inoltre, ha una potenza e un bacino d'utenza sconfinato, e in un certo senso è un'"agenzia di viaggi" organizzata capillarmente a cui si rivolge ogni tipo di migrante—anche quello che teoricamente avrebbe diritto all'asilo in Europa—e che ha un giro d'affari stimato tra i tre e i dieci miliardi di dollari all'anno.

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Qui in Italia, tuttavia, si tende a vedere solo l'atto finale del viaggio—cioè lo sbarco. Ma in realtà, dice Di Nicola, i barconi sono solo uno degli strumenti usati dai trafficanti: ci sono anche "aerei, yacht, falsificazione di documenti, corruzione, eccetera."

In tutto ciò, l'aggravarsi della crisi libica ha fatto diventare il paese nordafricano uno dei principali corridoi, se non il principale, del traffico e dell'immigrazione.

One Saharan tribe makes $60,000/week smuggling West Africans to Libya. How can EU stop that? — Matina Stevis (@MatinaStevis)April 21, 2015

Tuttavia, spiega Di Nicola, anche se il problema libico venisse risolto "la situazione non cambierebbe più di tanto, perché le reti si ristrutturebbero comunque. Anche mettere le navi e affondare le barche, cose a mio avviso irrealizzabili dal punto di vista operativo, non è comunque una soluzione: è un tampone."

Il piano dell'Unione Europea, insomma, è incompleto perché è troppo orientato sulla repressione e ignora "la prevenzione e l'assistenza," due "pilastri" indicati da Di Nicola nella sua proposta in 15 punti scritta insieme a Musumeci.

Per Di Nicola quindi, "se ci si concentra solo sul contrasto ai trafficanti non si è capito nulla, perché la gestione inefficiente dell'immigrazione resta. Quella è la causa dei traffici: per il criminale razionale è domanda, opportunità e occasione. È come se io curassi solo i sintomi di una malattia e non le cause."

Nonostante le richieste di fare un passo in più per evitare altre stragi—perché comunque il flusso migratorio non si arresterà, come dimostrano gli sbarchi in Sicilia di questi giorni—le istituzioni europee hanno deciso di occuparsi unicamente dei sintomi.

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