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Quando il turismo si trasforma in narcisismo

Chiunque abbia passato anche solo qualche notte in un ostello in giro per il mondo conoscerà di sicuro il genere di persona a cui mi sto riferendo.

Anni fa, in Patagonia, mi sono imbattuto in una coppia canadese particolarmente fortunata. Erano arrivati al parco nazionale di Los Glaciares esattamente nel giorno del crollo del ponte di ghiaccio scavato dalla corrente nel Perito Moreno, un evento che si verifica una volta ogni dieci anni. Nella penisola di Valdes —dallo stesso promontorio ventoso sul quale, due settimane prima, io ero rimasto sei ore senza riuscire a vedere nulla—avevano visto un banco di orche assassine arenarsi a riva nel tentativo di cacciare dei cuccioli di leone marino. E sapete come hanno descritto la loro incredibile esperienza?

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"È stato abbastanza impressionante," ha detto lui con un tono di voce piatto, stringendosi nelle spalle.

Quest'unica, triste, frase è stata la summa della loro reazione.

Di recente mi sono ritrovato a pensare di nuovo a quella coppia. Per quanto mi riguarda, sono il simbolo di una tipologia di persona sempre più comune: il viaggiatore annoiato e svogliato.

Chiunque abbia passato anche solo qualche notte in un ostello in giro per il mondo conoscerà di sicuro il genere di persona a cui mi sto riferendo. È il tizio che si siede sul letto a castello di sotto, con gli arti magri che spuntano da una maglietta Bintang e un paio di pantaloni con la stampa di un dragone, e inizia a vantarsi di tutti posti in cui è stato.

È in giro da un paio di mesi, la maggior parte dei quali li ha passati a ballare sulla spiaggia, disorientato dalle pillole dimagranti e dall'alcol. Probabilmente, dopo la festa ha fatto volontariato con i postumi per almeno una settimana, durante la quale ha costruito un muretto di sostegno destinato a crollare nel giro di un anno. Per descrivere tutti i posti che ha visitato usa sempre l'aggettio "meraviglioso", mentre la gente del posto è sempre "molto ospitale" o "cordiale." Quell'esperienza gli ha permesso di immergersi nel Sudest asiatico, di guardare con i suoi occhi la realtà della condizione umana. All'improvviso, si è trasformato in un moderno Marco Polo di ritorno dalla corte di Kublai Khan. Deve aprire un blog e riempire di foto i suoi social. Tutti devono poter beneficiare della sua nuova, grande saggezza.

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In un'epoca in cui praticamente tutti hanno la possibilità di viaggiare, un po' di superficialità, forse, è fisiologica. Il turismo è un settore sempre più accessibile. Cinquant'anni fa, quando i nostri nonni andavano in vacanza nella località balneare più vicina a casa, chi poteva viaggiare era davvero uno spirito libero, una persona in possesso di conoscenze particolari. È stato solo quando i figli del boom economico hanno iniziato ad avere l'età adatta per partire che quest'attività è diventata così comune. Ed è stato solo negli anni Novanta che il viaggio in località esotiche è diventato—grazie anche al nascere, almeno in Gran Bretagna, della cultura dell'anno sabbatico—una specie di rito di passaggio dal liceo all'università.

uristi in Egitto. Da qui in poi, tutte le foto per gentile concessione dell'autore

L'opinione comune è che il viaggio ci renda più interessanti e sia un ingrediente fondamentale per una vita vissuta pienamente. Ma da qualche parte tra la crescita e la diffusione su scala globale della curiosità, dell'egocentrismo esasperato e le insidie della tecnologia, si sta facendo sempre più strada la sensazione che il viaggio stia perdendo la sua capacità di stupirci.

Internet è il principale responsabile di questo fenomeno. Provate ad entrare, oggi, nel bar di un ostello: scoprirete che la maggior parte dei presenti è immersa nel suo mondo virtuale. Facce totalmente inespressive illuminate solo dallo schermo del tablet che tentano di mettersi in contatto con quella "casa" che volevano lasciarsi alle spalle al momento della partenza, di cercare e trovare voli, alberghi e ristoranti in anticipo, grazie a una montagna infinita di recensioni. Il web ha ridotto il mondo e ha soffocato la nostra capacità di ricerca.

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In un mondo che tende ad omologarsi sempre più rapidamente, il nostro desiderio di conoscere e la possibilità di soddisfare velocemente questo desiderio ci fanno vedere i luoghi nel modo sbagliato. Invece di usare la tecnologia così da avere più tempo a disposizione per assorbire e metabolizzare quello che si è visto, molte persone prediligono il viaggio all'insegna della velocità, in cui si vedono solo le cose "da vedere" e si fa il minimo sindacale di esperienze. Eppure l'idea del viaggio (contrapposto al "turismo") come esperienza che arricchisce persiste.

Peccato che non sia così. Non sempre. È anche possibile che nel raccontare del viaggio agli amici i due canadesi siano riusciti a trasformare la loro presenza a una festa (fino a quel momento piuttosto anonima) in un racconto degno di Ernest Hemingway e Martha Gellhorn. Ma più probabilmente non hanno fatto altro che annoiare amici e familiari con noiosi racconti sulla bontà della carne, la cocaina a buon mercato e l'assoluta gravità della loro diarrea.

In parte la nostra intolleranza nei confronti di chi si vanta di un viaggio potrebbe essere dovuta all'invidia che proviamo nei suoi confronti: in fondo, chi ha voglia di ascoltare i racconti di scappatelle edonistiche altrui mentre è chiuso nell'ufficio e soffocato dal lavoro? Ma dobbiamo anche renderci conto che non tutte le storie meritano di essere raccontate.

Come il tipo che durante il safari non stacca mai gli occhi dalla macchina fotografica, molti di noi hanno iniziato a viaggiare solo per poter accumulare storie, foto ed esperienze senza permettere più che l'ignoto ci venga addosso e si riveli nello stupore provocato dalle cose inaspettate. Siamo diventati una generazione di consumatori di viaggi, convinti che l'immagine di un'alba a Machu Picchu non sarebbe la stessa senza le nostre facce in primo piano.

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È come se avessimo perso di vista che quello che conta non è il fatto di accumulare esperienze, ma è il modo in cui queste esperienze vengono vissute e percepite. La qualità e non la quantità.

La persona con cui mi piace andare a cena è quella che ha vissuto un'intera vita immaginaria dentro un'arancia dopo aver bevuto dell'ayahuasca, non il coglione che ha fatto una vacanza di una settimana al rifugio Rishikesh, pregando, mangiando e amando, ma che aveva già deciso, prima ancora di scendere dallo Shatabdi Express, in che modo quella vacanza gli avrebbe cambiato la vita.

Quella che sto per scrivere è una specie di confessione. Io sono uno scrittore di viaggio, che è un altro modo per dire che sono un timido dilettante che crede moltissimo nel valore della propria esperienza. Quello che all'inizio era solo un mezzo per incanalare in una direzione concreta la mia passione per il vagabondare è diventato un modo per massaggiare il mio ego, e un peso: ogni curva è già stata scrutata e decisa in anticipo e la macchina fotografica è sempre al mio fianco.

La vita che emerge dalle mie storie ha poco a che vedere con la quotidianità. Per ogni ora che passo a scrivere appunti in una remota Shangri-La, ne passo almeno 20 davanti alla tastiera del mio computer a scrivere articoli che alla fine non fanno che contribuire al problema, perché spingono le persone ad andare a visitare luoghi che forse sarebbero più belli senza di loro. E nei miei momenti di lucidità e di onestà so benissimo che non proverò mai più quel senso di magia e di stupore che provavo nei miei primi viaggi: quel ragazzo ingenuo che si addentrava in Asia senza cellulare, senza guida, senza una mappa per potersi ritrovare.

Attenzione, non sto dicendo che alcune tipologie di viaggio non hanno valore. Partite, cercate il sole, scrivete un diario, prostratevi davanti all'altare della tecnologia e registrate ogni singolo passo del vostro itinerario sui social, se dovete proprio farlo. Ma pensateci bene: se vivete il viaggio come una lista di cose da fare, se la vostra autostima cresce anche solo di un briciolo ogni volta che visitate un paese nuovo, se ragionate in termini di liste di "cose da vedere" allora il viaggio non vi sta rendendo delle persone interessanti. Sta semplicemente confermando che siete uguali a tutti gli altri.

Henry Wismayer ha scritto per New York Times, National Geographic Traveler, e Time.