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vita vera

Il mio C.S. Lewis

Avete presente C.S. Lewis, quello delle Cronache di Narnia? Scordatevelo e preparatevi a conoscerne uno totalmente diverso.

Valerio Mattioli è un giornalista e musicista che abita a Roma, in un quartiere simile a un set di un western neorealista. Vita Vera è il suo modo di abdicare alla gloriosa tradizione della requisitoria di borgata, o, in altre parole, una rubrica in cui ci parlerà di libri, musica e un po' del cazzo che vuole.

Avete presente C.S. Lewis, quello delle Cronache di Narnia? Magari avete letto i libri. Magari avete visto i film della Disney. Magari vi ricordate delle polemiche perché Lewis era un autore misogino, reazionario, imbevuto di dottrinarismo cristiano etc etc, e la Disney poteva starci più attenta. Comunque: torno su C.S. Lewis ogni volta che esce un disco di Belbury Poly. E il nuovo disco di Belbury Poly (titolo: The Belbury Tales) adesso sta qui che gira sul piatto.

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Il motivo dell’equazione Belbury Poly - C.S. Lewis è molto semplice: Belbury è un posto di fantasia inventato proprio dallo “scrittore inglese amico di Tolkien”. Solo che non c'entra niente con Narnia: è il villaggio dove ha quartiere il N.I.C.E. (National Institute of Coordinated Experiments), un angosciante esperimento di ingegneria sociale al centro del romanzo Quell'orribile forza. Ora, sono abbastanza sicuro che la più parte di voi, se dico Narnia, sa di cosa parlo. Mentre sono altrettanto sicuro che se vi cito robe tipo Malacandra, eldil, Maleldil, Perelandra, probabilmente penserete a qualche dialetto dell’Africa subsahariana. Naturalmente vi sbagliate. La traduzione esatta dei termini sopraelencati è la seguente: Marte, angeli, Dio, Venere. E non in qualche esotico anfratto del continente nero, ma nel Sistema Solare Astroevangelico inventato da Lewis nella sua Trilogia Spaziale. Come ha fatto questa roba a finire sul mio giradischi? E soprattutto: perché la Trilogia Spaziale mi piace mentre Narnia no, anche se per tutti dovrebbe essere il contrario?

Andiamo con ordine. Innanzitutto la Trilogia Spaziale di C.S. Lewis è—lo dice il nome—composta da tre libri, tutti usciti tra 1938 e 1946: Lontano dal pianeta silenziosoPerelandra, e il già citato Quell'orribile forza. In questa trilogia, il protagonista prima va su Marte, poi su Venere, poi sulla Terra. Su ciascuno dei tre pianeti ha a che fare con delle forze del male variamente assortite. Naturalmente, alla fine il protagonista (che è buono) vince. Fin qui tutto normale. Solo che non stiamo parlando di una banale per quanto spettacolare avventura intergalattica. Stiamo parlando di un’allegoria teologica che nel primo libro si contiene, nel secondo esplode in una bizzarra space odyssey evangelica, e nel terzo sfiora (o forse supera) l’apoteosi millenarista.

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Prendiamo Perelandra, il libro ambientato su Venere. Ve lo racconto per come me lo ricordo: il protagonista—che si chiama Ransom—scopre che si tratta di un pianeta bellissimo e incontaminato fatto di tante isole galleggianti. Dopo qualche decina di pagine sorge il dubbio: uhm, non starà mica parlando dell’Eden? La conferma arriva quando Ransom fa la conoscenza di, diciamo così, gli alieni locali: Tindril, la Regina di Perelandra, per esempio… senza tanti giri di parole, è Eva. Da qualche parte c’è pure un Re, che invece è Adamo. Poi arriva dalla Terra il diavolo tentatore, incarnato dal perfido Weston. Weston vuole costringere Eva a trascorrere una notte sulla Terra Ferma, contravvenendo così a un ordine apparentemente illogico di Maleldil (che è Dio, o Gesù). Siamo sull’orlo del Peccato Originale: se Tindril cederà alla tentazione, cosa dovremmo aspettarci se non che Maleldil condannerà lei e il Re alla cacciata da Perelandra (cioè dal Paradiso)? Ma niente paura, arriva Ransom. Che ingaggia un combattimento all’ultimo sangue con Weston, e infine lo sconfigge. Perelandra è salva. Il Re e la Regina si incontrano e si uniscono benedetti dal Signore, anzi scusate, da Maleldil.

Ora, chiariamo: di sicuro Lewis non ci va leggero con le allegorie, e insomma, far finta di non capire è proprio impossibile; ma la Trilogia Spaziale non è una roba alla Left Behind, la serie fanta-fondamentalista della coppia Jenkins/LaHaye. Perelandra, di cui vi parlavo prima, è il più didascalico della serie, ma è comunque un libro stravagante e… bizzarro, ecco. Il precedente Lontano dal pianeta silenzioso invece è un piccolo gioiello di psichedelia gentile: la smania teologica ancora non ha preso il sopravvento, e a uscirne è una cosa come trattenuta a mezz’aria. Nel libro, Marte è una specie di idillio al crepuscolo, e le creature che lo popolano sono bislacche figure un po’ grottesche un po’ infantili a cui lo sfondo apologetico dona una specie di aura mitica, da leggenda arcaica.

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L’ultimo Quell'orribile forza invece è il più problematico: è un libro sgangherato, dalla trama che fila farraginosa, e anche se non si arriva al tono da parabola di Perelandra l’insistenza sulle tematiche a carattere religioso pesa. Per capirci, Ransom—che per una volta non è il protagonista principale—alla fine assurge in Cielo. E a dire il vero, il nemico stavolta non è più (o meglio: non è solo) quello evocato dalle Scritture, ma la modernità tutta, esemplificata da quel N.I.C.E. opera in realtà di extraterrestri malvagi che altro non sono che angeli caduti.

Scopo del N.I.C.E. (e quindi del Diavolo, e quindi della modernità) è fondamentalmente deumanizzare l’individuo secondo una visione ultramaterialistica e amorale dell’esistente. La sede dell’organizzazione si trova appunto in quel di Belbury, un altrimenti anonimo villaggio della provincia inglese. Per farla breve, Quell'orribile forza è una distopia cristianeggiante che per certi versi anticipa e fa da contraltare al 1984 di Orwell (che in effetti recensì il libro di Lewis in toni non proprio lusinghieri), e che oltre che concludere la Trilogia Spaziale chiude una volta per tutte con la fantascienza: Lewis insomma è pronto per Narnia.

Narnia in Inghilterra ha influenzato veramente tutti: una volta mi capitò di intervistare Neil Gaiman, che stava con la figlia di dieci anni e che mi disse che lui, all’età di lei, già voleva fare lo scrittore.

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“Ma va, così piccolo?” chiesi io.

“Assolutamente. Tutto grazie a C.S. Lewis.”

Poi Gaiman avrebbe preso a sceneggiare Sandman, a frequentare stregoni tipo Alan Moore e Grant Morrison, e a scrivere libri in cui Odino chiama a raccolta gli antichi Dei, ma in effetti una particolarità di Lewis sembra proprio essere quella di attrarre al suo mondo gente che poi di quel mondo restituisce una versione… come dire, eretica. Solo che ecco, l’influenza di Narnia è comprensibile: in Inghilterra è un classico della narrativa per l’infanzia come da noi è, che ne so, Pinocchio. Ma la Trilogia Spaziale?

Ripartiamo da Belbury Poly, di cui vi parlavo in apertura. Dietro la sigla si nasconde tale Jim Jupp, uno dei due boss della Ghost Box, praticamente l’etichetta inglese più… inglese del mondo. Ogni sua uscita è uno studio-concept sul folklore locale e su un immaginario tra il bucolico e lo stregonesco che fa tanto Albione dei Misteri, roba tipo megaliti e favole gotiche lontane parenti di culti precristiani. Solo che questo immaginario è proiettato in una dimensione da Stato Vigile come poteva essere l’Inghilterra del dopoguerra, tutta presa da quei progetti di pianificazione sociale parodiati da Lewis nel suo N.I.C.E. E infatti Belbury Poly è esattamente il suono del N.I.C.E. Tanto che, in omaggio allo sviante acronimo scelto da Lewis per la satanica organizzazione, la sua musica è carina, gradevole, efficiente e pulita. Che dietro si celi qualcos’altro? Qua un esempio:

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Jupp qualche anno fa ha pubblicato un altro disco, stavolta a nome Eric Zann, intitolato Ouroborindra, altro riferimento al Lewis della Space Trilogy. Curiosamente però, il nome Eric Zann viene da Lovecraft. E un altro album di Belbury Poly, From an Ancient Star, rimanda direttamente al Solitario di Providence. C’è quindi un collegamento—pare suggerire Jupp— tra i Grandi Antichi del ciclo di Cthulhu e le diaboliche creature che secondo Lewis pretendono di indirizzare il corso della modernità. Meglio: il C.S. Lewis pre-Narnia appartiene alla stessa tradizione non solo di Lovecraft, ma di tutti vari Algernon Blackwood (il cui The Willows dà il nome a un altro ancora dei dischi di Belbury Poly),  Robert W.Chambers, e persino Dion Fortune, scrittrice ma soprattutto esoterista già affiliata alla stessa Golden Dawn di Aleister Crowley aka la Grande Bestia 666. Non è esattamente la stessa lettura di Lewis data dall’Osservatore Romano. Ma, per quel che conta, è anche la mia di lettura.

La Trilogia Spaziale, qui volevo arrivare, potrà pure essere un (disturbante o no, fate voi) affresco fantateologico, ma è prima di tutto una roba… strana. Weird, per gli affezionati. Come Lovecraft, Lord Dunsany e naturalmente Tolkien, Lewis si inventa una mitologia e anzi una cosmologia tutta sua, che sarà pure presa dal vangelo, ma per la miseria, in che razza di vangelo trovate oyarsa che vegliano sui pianeti, esseri a forma di rana chiamati pfifltriggi, e Maghi Merlini che si trasformano in arcangeli e scatenano terremoti?

In italiano la Trilogia Spaziale è stata tradotta da Adelphi. Sono praticamente gli unici Adelphi che in libreria trovate nel settore Fantascienza.

Da qualche anno (diciamo dall’uscita del primo film di Narnia) in Italia c’è stato tutto un rincorrersi di interpretazioni “cattoliche” di Lewis. In realtà Lewis, che in gioventù fu ateo convinto, quando si convertì al cristianesimo scelse la Chiesa Anglicana. Quello cattolico non era lui, era Tolkien.

Avrete notato che in questo pezzo di Tolkien si parla giusto di sfuggita. Rimedio qui con le informazioni di rito. L’aneddotica recita che la Trilogia Spaziale nacque da una scommessa tra amici: nella Oxford di fine anni Trenta, Lewis e J.R.R. Tolkien decidono di scrivere ciascuno un’opera in tre parti a carattere fantastico. Lewis avrebbe partorito le vicende di Perelandra e dintorni. Tolkien… be’, Il Signore degli Anelli.