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vita vera

Fenomenologia dell'indie italico: I Cani

La rubrica sul cosiddetto indie pop italiano parla del personaggio più discusso della scena: Niccolò Contessa, in arte I Cani.

Quando ho cominciato questa serie sull’indie italiano, i miei intenti erano sinceri. Mi interessava capire l’immaginario, i linguaggi, l’estetica, i codici comportamentali di quello che dopotutto considero uno dei più importanti fenomeni di costume degli ultimi anni, al di là del giudizio che di tale fenomeno possa dare. Avevo un piano, dei nomi, una linea cronologica da seguire, ma già alla seconda puntata (quella sugli 883) tutto è andato all’aria. E allora tanto vale riprendere da dove eravamo rimasti, e passare a un nome che avevo progettato di affrontare molto più in là, forse addirittura per ultimo, un po’ come gran finale. E il nome è ovviamente quello di Niccolò Contessa, in arte I Cani.

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In realtà, uno dei motivi per cui al ritorno dalla pausa estiva riparto da Niccolò è che me l’ha chiesto lui. Le cose sono andate così: a luglio, ad articolo sugli 883 ancora fresco, lo incontro più o meno per caso. Visto che per affrontare il buco nero maxpezzaliano ero partito proprio da alcune sue dichiarazioni, ne nasce una discussione non esattamente amichevole. Niccolò colpisce basso, e non a torto: “Metà articolo a prendertela con concetti tipo ironia e postmodern, e poi l’articolo esce su VICE che c’ha in homepage le foto dei gattini che si fanno le seghe.” Che dire: touché. Oddio, chiariamolo una volta per tutte: non ho nulla contro l’ironia, per la miseria. Un mondo senza ironia sarebbe un mondo… be’, senza ironia. D’altra parte, mi tengo le mie riserve su un mondo in cui l’ironia degenera fino a scivolare in quell’acritico “va bene tutto, basta che faccia simpatia” che pare tenere assieme una fetta consistente dell’universo in primo luogo giovanil-giovanilista (o presunto tale). Ma non tergiversiamo. Niccolò mi fa anche notare che sono stato scorretto a inaugurare la serie con i My Awesome Mixtape, un gruppo che si è appena sciolto (in realtà il motivo per cui ero partito da loro era esattamente perché si erano appena sciolti, ma fa niente), e che a quel punto “tanto valeva partire da I Cani.” E allora va bene, eccoci qui.

Devo dire che la prima volta che ascoltai "I pariolini di 18 anni" non mi disse granché. E continua a dirmi poco anche adesso. Vi sembrerà strano, ma il motivo di tale disinteresse è la musica. È paradossale che, a proposito della creatura di Niccolò, l’aspetto musicale non sia praticamente mai stato preso in considerazione—almeno che mi ricordi. Voglio dire: stiamo parlando di un gruppo musicale, no? Lasciamo perdere che il gruppo è formato da una persona sola. Logica vorrebbe che la prima domanda fosse: che musica fa questo gruppo?

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Chiamiamolo electro-punk. Canzoni svelte, melodiche ma con quel pizzico d’aggressività che istiga al pogo, coi synth e le drum machine che pestano al posto di chitarre e batteria. È un (non) genere che ebbe una certa fortuna una decina d’anni fa, agli albori di quel revival anni Ottanta di cui, mi viene da pensare, non ci libereremo mai. All’epoca nomi come Le Tigre, Chicks On Speed, Peaches ebbero sostanzialmente la funzione di portare in discoteca gente che altrimenti in un club non ci avrebbe mai messo piede: i rocchettari, per capirci. Durò poco (per fortuna), ma qualcosa evidentemente è rimasto. È un po’ un classico genere da cameretta, roba che ti puoi fare da solo e con pochi mezzi; ma è anche (principalmente?) un genere che ricalca, aggiornandoli se non altro in superficie, alcuni luoghi fondanti del sano vecchio ruock: l’euforia dell’adolescenza, l’eccitazione delle frequenze medie, l’impatto fisico e l’andamento trascinante dei brani. È una musica che si regge su poco e che è per sua natura condannata a una certa obsolescenza precoce: canzoncine usa e getta, che strappano il sorriso e fanno muovere i fianchi, ma di cui ci si dimentica in fretta.

Ora: Niccolò io lo conobbi ai tempi dei Tavrvs, il suo gruppo precedente (erano in due). “Che musica fate?” gli chiesi. “French Touch” rispose lui. Non mi dispiace il French Touch e anzi ho una certa perversione a riguardo, ma devo essere onesto e dire che, quando li vidi dal vivo, i Tavrvs non mi entusiasmarono. Però era innegabile una certa cura nei suoni e una conoscenza se non altro calligrafica del genere: dopotutto il French Touch è un genere un po’ cafone ma al tempo stesso raffinato e… groovy, e non è che ci si improvvisa Daft Punk da un giorno all’altro. Come mai, mi viene da pensare, Niccolò è passato dal luccichio glamour della house francese alle sveltine buona la prima dell’electro-punk? Non è per certi versi una regressione?

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Il primo motivo, direi il più ovvio, penso sia la natura casalinga dei Cani, il fatto che sia un progetto nato praticamente per caso e per di più come tentativo—stando alle parole del suo autore—di emulare in salsa elettronica il garage sguaiato di gruppi come Times New Viking. Ma la sensazione, arrivati a questo punto, è che la musica nei Cani sia più un pretesto, un fondale generico quanto basta per quello che, non a caso, è l’ingrediente più dibattuto, ammirato e (alle volte) detestato del progetto: e cioè il suo impianto testuale.

I Cani sono diventati famosi come il gruppo “che parla di Hipstamatic e di American Apparel.” E be’, un po’ è così. Anche se—e questo è il paradosso—nel loro primo album di Hipstamatic non si parla mai e di American Apparel una volta soltanto (ma potrei sbagliarmi), è come se l’intero immaginario del progetto portasse quelle tinte lì. Non è un’intuizione da poco: se nel 2042 arrivasse un laureando in Storia della Musica Pop a chiedermi di consigliargli un paio di nomi capaci di descrivere il clima, la temperie di inizi anni Dieci, probabilmente gli farei due nomi su tutti: I Cani per l’Italia; gli Animal Collective per il resto. Immagino che a qualcuno l’accostamento suonerà bizzarro: il fatto è che in questi giorni mi è capitato di parlare (su Orwell, il settimanale culturale di Pubblico: esce domani, se interessa) proprio del nuovo album degli Animal Collective, e di come un influente magazine inglese l’abbia eletto—a mio parere giustamente—a manifesto di una generazione i cui totem si chiamano giusto American Apparel, Picthfork, Portlandia, Bored to Death. Stiamo insomma parlando della stessa cosa.

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E però I Cani e gli Animal Collective, al di là del nome zoofilo, in comune hanno poco: tanto è semplice e diretta la musica del primo, quanto è eccentrica quella dei secondi; e tanto espliciti e descrittivi sono i testi di Niccolò, quanto allusivi e del tutto disinteressati al ritratto generazionale quelli degli americani. Perché a noi "Hipsteria" (che già dal titolo denuncia non solo il contenuto delle liriche, ma il vero e proprio concept del brano) e a loro "Rosie Oh" (che dal titolo… oddio, dal titolo si capisce solo che il brano si chiama "Rosie Oh")?

Ne parlavo qualche tempo fa assieme a “il direttore di un importante mensile patinato”: a essere drastici, è un po’ l’ennesimo capitolo di una tradizione tutta italiana che, dai cantautori in poi, ha stabilito una gerarchia in primo luogo intellettuale tra testi e musica, con la seconda perennemente subordinata ai primi. È un po’ il motivo per cui i dischi di Fabrizio De André degli anni Settanta, inascoltabili se paragonati a quanto musicalmente veniva prodotto appena di là dalle Alpi (ma anche di qua: abbiamo avuto anche noi i nostri Franco Battiato, i Claudio Rocchi ecc), vengono considerati dei capolavori: perché (così dicono) hanno bei testi. Il fatto che però I Cani concentrino la più parte delle loro liriche su ritratti esplicitamente e inappellabilmente generazionali, schiaccia la creatura di Niccolò all’interno di una cornice che può oscillare dal consolatorio (per chi in quei ritratti si riconosce—e pazienza se i ritratti non sono benevoli, una canzone, se parla di te, ti consola sempre) alla vera e propria irritazione: che è un po’ il mio caso, per capirci. Non è tanto che a me non interessa sentir parlare di Hisptamatic e di American Apparel; è che, se anche usassi Hipstamatic e vestissi American Apparel, non li eleverei a chiavi di lettura di una poetica intera. Sarebbe un po’ come se il mio gruppo dedicasse un pezzo ai Benno di Ikea, perché tra me e il mio socio a casa ne abbiamo tipo sedici. Ora che ci penso anche questa è un’idea.

Naturalmente c’è un motivo se per Niccolò Hipstamatic e American Apparel sono tanto importanti: e il motivo è che, per il micromondo a cui si rivolge, Hisptamatic e American Apparel sono sul serio miti identitari, o per altri versi elementi caratterizzanti del vissuto quotidiano. Almeno questo è quello che capisco io. Ma qui si apre un intero nuovo ordine di problemi.

Il primo dubbio è: stiamo parlando di un ritratto generazionale o piuttosto dell’istantanea di una nicchia a conti fatti marginale dei nati tra (per usare la datazione dello stesso Niccolò) 1983 e 1989? E quanto questa nicchia risponde a criteri—di classe, censo, provenienza geografica, retroterra intellettuale—autoreferenziali e per loro natura destinati a essere recepiti solo e soltanto dai loro stessi destinatari? Per i non romani non significherà nulla, ma I Cani sono davvero l’epitome di Roma Nord: se la settimana scorsa avete letto il reportage su Roma Est, partite da quello e immaginatevi tutto il contrario. Roma Nord è ricca, europea anzi milanese, i suoi abitanti non solo hanno riti tutti loro ma parlano addirittura un’altra lingua, un altro accento, è come se avessero altre vocali, altri consonanti. Ecco, American Apparel non “significa” allo stesso modo a Roma Nord e a Roma Est, come non significa allo stesso modo a Milano e, non so, Acitrezza. Alle volte non significa allo stesso modo persino tra le persone che, quantomeno, sanno di cosa si tratta. In questo senso è interessante tornare al paragone con gli Animal Collective: che saranno pure il nome di riferimento per quella fascia generazionale che nei suddetti totem si riconosce. Ma essendo contenutisticamente “neutri”, nulla impedisce che siano apprezzati anche da chi, quando vede un hipster coi baffi e la maglietta serigrafata, gli prende l’istinto omicida. Sarà una mia impressione ma è un po’ difficile apprezzare I Cani senza sapere “di che cavolo sta parlando.”

Infine: Niccolò ha sempre negato qualsiasi intento ironico nei suoi brani. I suoi testi sono a loro modo dolorosi, problematici, poco edificanti. Almeno lui li spiega così, e io ci credo: ma allora come mai quando uscì "I pariolini di 18 anni" praticamente chiunque lo interpretò come il classico “pezzo divertente”, del genere strizzatina d’occhio/gomitino sui fianchi? Dopotutto, se c’è un ingrediente che veramente tiene assieme la sottocultura indie-hipster in buona parte delle sue varianti, è proprio l’ironia. E l’osmosi tra I Cani e il mondo di cui Niccolò è a suo modo bardo, alla fine punta diritta a una (involontaria?) complicità. Io ho come idea che lo stesso Niccolò se ne renda conto: negli ultimi mesi le sue prese di posizione—nelle interviste, in pubblico e così via—si sono fatte sempre più tese, persino astiose. Il pubblico dei Cani, nella sua eccentricità conformista, è talmente codificato e in fondo autocaricaturale che mi viene il sospetto che Niccolò per primo lo odi. Qualche tempo fa arrivò a chiamare, in apertura dei concerti, il noto noise artist Cris X, suo amico e collaboratore in una specie di scherzetto rumorista chiamato, guarda un po’, "Roma Nord". È un gesto che, mettetela come vi pare, ha tutto il sapore della (ahem) sfida. E infatti il pubblico dei Cani come credete che abbia reagito? Povero Cris X.