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vita vera

Un grande Silenzio

Quand'è che il nostro Paese ha smesso di trasmettere una qualche idea di italianità “alternativa” ma condivisa, così da essere riconosciuta e identificata come tale nel mondo?

Qualche tempo fa chiacchierando con Simon Reynolds (quello di Retromania, giusto) si discuteva di come in Inghilterra la cultura pop contemporanea stesse sostanzialmente ragionando su un’idea di… diciamo identità nazionale, dai. Gli esempi sono diversi: dalla cosiddetta hauntology al lavoro d’archivio del British Film Institute, dal recupero dei vecchi filmati educativi della BBC alla riscoperta del tipico immaginario pagan-campagnolo albionico (vedere il libro Electric Eden di Rob Young), per arrivare alla ultra-hippie nuova veste grafica dei passaporti britannici, che per capirci sono diventati questa cosa qua, giustamente paragonata alla “copertina di un disco folk-rock anni Settanta”:

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Anche in America sta succedendo qualcosa di simile, sebbene i risultati siano evidentemente diversi: meno case stregate e balli del Morris, e più monnezza tipo Ronald Reagan, surf movie anni Ottanta, TV via cavo ecc ecc.

Sarebbe interessante, si diceva con Reynolds, se anche altri Paesi cominciassero a lavorare su traiettorie simili. Quali sarebbero per esempio gli esiti in Italia? C’è stato un momento in cui la cultura pop nostrana ha trasmesso una qualche idea di… italianità, così da essere riconosciuta e identificata come tale nel mondo? Il nostro Paese è stato in grado di partorire immaginari popular “vincenti”, indipendenti dall’egemonia angloamericana eppure capaci di fare presa sulle stesse due nazioni-guida nel campo della—di nuovo—cultura pop? Insomma, quale potrebbe essere un immaginario italico… “alternativo” ma condiviso, quali i miti fondanti da riverire, quali i volti di una spaghetti-identity che non si riduca al luogo comune del “made in Italy che conquista il mondo” (e che poi alla fine è, al solito, la mozzarella)?

C’è un libro del 2006, firmato dallo pseudonimo Douglas Mortimer, il cui titolo è: Possibilmente Freddi: quando l’Italia esportava cultura, 1964-1980. Perché proprio 1964? Perché è l’anno di Per un pugno di dollari, ovvio. E in effetti il primo esempio a venirmi in mente è proprio lo spaghetti western. Certo, ai più non sfuggirà la contraddizione di fondo: il western non è roba italiana, e John Ford non era mica nato a Frosinone. Eppure l’Uomo senza nome interpretato da Clint Eastwood è tanto italiano quanto Totò. E poi è risaputo che gli italiani il western lo rivoltarono come un calzino, e non c’era bisogno di Quentin Tarantino per capire che tra Mezzogiorno di Fuoco e un Django a caso corre la stessa distanza che separa il Nuovo Messico da Cinecittà—e non tanto in termini di chilometri, ma proprio di… sensibilità? Latitudine attitudinale? Insomma, ci siamo intesi.

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Tra tutti i Sartana, Sabata e soci che hanno ingolfato la cinematografia nazionale, c’è un film che più di tutti ascriverei al rango di manifesto del genere. E non è un film di Sergio Leone. Il titolo è Il grande Silenzio ed è stato diretto nel 1968 da Sergio Corbucci. Che non sia proprio un western classico lo capite dalla prima inquadratura: il cowboy che gira a cavallo non sta in qualche assolato deserto dell’Arizona ma in mezzo alla… neve. Che nel film è quella dello Utah, e nella realtà era Cortina d’Ampezzo.

Il protagonista del film è un Jean-Louis Trintignant chiamato Silenzio per il semplice motivo che è muto, perché da bambino (lo capiamo da una serie di flashback) dei cattivissimi cacciatori di taglie gli hanno reciso le corde vocali. Anni dopo, Silenzio—che ora è un pistolero ingaggiato dalla bella Pauline per vendicare il marito fuorilegge—si ritrova davanti gli stessi cacciatori di taglie, impegnati a fare piazza pulita di tutti i banditi della zona. Il capo dei bounty killer è praticamente il vero eroe della vicenda: il cattivissimo Tigrero, un Klaus Kinski che lo guardi e ti dimentichi subito di tutti i film con Werner Herzog. Tigrero è un sadico lucidissimo e luciferino, un vero pezzo di merda, ma ha il piccolo vantaggio di stare, come dire, “dalla parte giusta”: essendo un cacciatore di taglie, è in qualche modo legittimato a prendere e ammazzare come più gli pare qualsiasi bandito gli capiti sotto tiro. Dopotutto, l’outlaw mica è lui.

Avrete insomma intuito che nel film i banditi sono i buoni, e i mercenari al soldo della legge sono i cattivi, ma questo è un ribaltamento di valori abbastanza tipico nello spaghetti western, e non è nemmeno l’aspetto più interessante del film. Quello che invece tutti si ricordano de Il Grande Silenzio, è il finale: in cui Tigrero il cattivo prende e ammazza Silenzio il buono. Poi ammazza pure la bella Pauline. E poi tutti i fuorilegge ammassati e legati indifesi in un saloon, in una carneficina che va avanti per quaranta secondi che paiono un’eternità. Poi prende e, tranquillo, se ne va assieme ai suoi compari nella neve. Fine del film. Titoli di coda. Musica (tristissima) di Ennio Morricone.

Ovviamente quando i produttori videro come andava a finire il film gli prese un colpo, quindi Corbucci girò un finale alternativo in cui a vincere erano i buoni (cioè Silenzio). Ma lo girò talmente brutto e talmente male da renderlo più improbabile di una manica di zombie che all’improvviso escono dalle tombe e liberano gli ostaggi. Il film quindi andò nelle sale così come lo conosciamo: cupo, nichilista, sporco e cattivo. In una parola: italiano. Fu anche un grosso successo, Il Grande Silenzio: mio padre per dire se lo ricorda benissimo. Chi ha meno di trent’anni invece, probabilmente manco l’ha mai sentito nominare. A meno che, certo, non sia stato citato dal solito Tarantino: un tizio che per il suo Django Unchained a fare il cattivo ha chiamato… Leonardo Di Caprio. Bah.

Comunque: se il nuovo passaporto del Regno Unito sembra la copertina di un disco folk-rock anni Settanta, il passaporto della Repubblica Italiana resta quello che è: un guazzabuglio di—come si dice—cultura classica, con la statua equestre di Marco Aurelio in bella mostra. Che un giorno al posto di archetti e colonne ci sia la faccia incattivita del crucco Klaus Kinski, la vedo dura. Ma non si sa mai.