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vita vera

Tu non sei dalla mia parte

"Kill the Hippies", "Maledetti fricchettoni", "Tu non sei dalla mia parte": anni e anni di odio totale verso i fricchettoni, ma per quale ragione?

Quando avevo 15 anni, una delle mie canzoni preferite era "Kill the Hippies" dei Deadbeats: un grande pezzo della Los Angeles punk anno 1978, e anzi che dico, più che un pezzo un inno. Ovviamente di cosa parlasse il testo non ne avevo idea. Perché altrettanto ovviamente, sapete com’è: bastava il titolo.

Sempre quando avevo 15 anni o giù di lì, c’era questo gruppo hardcore di Viterbo che si chiamava Tear Me Down. Il loro pezzo più famoso è rimasto "Maledetti Fricchettoni", il cui testo recitava così: “maledetti fricchettoni, morirete impiccati/tra le vostre collanine di legnetti colorati (…) Vi odiamo fricchettoni! FON-DA-MEN-TA-LIS-MO PUNK – HARDCORE!”

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Ancora negli stessi anni, da Roma venivano i Colonna Infame, altra leggenda hardcore locale. Il loro brano-manifesto era "Tu non sei dalla mia parte". Provate a indovinare dal testo qual è l’oggetto dell’invettiva: “il tuo atteggiamento ed il tuo fare trasandato/rientrano da sempre nei disegni dello Stato/canti ‘no eroina’ ma ti ammazzi di spinelli/per la gioia dei fascisti, che ci vogliono tranquilli”.

Potrei andare avanti per ore. L’altro giorno sono entrato nel negozio di dischi dietro casa e c’era il cd di questi Pinta Facile, un gruppo oi!. Tra i titoli, un inconfondibile "Odio i fricchettoni". Sono andato a sentire di che si trattava su YouTube, ed ecco il testo: “Tu balli nella polvere vestito da gitano/passi la tua vita con mille canne in mano/non curi il tuo aspetto, le tue donne fanno schifo/bastardo fricchettone la tua cura è lo schiaffone”.

Perché tanto odio? Vada per i Deadbeats: erano giovani ed erano punk nella California di fine Settanta, e figurarsi se i residui hippie— che a quelle latitudini suppongo fossero ovunque—non rientravano tra i bersagli d’elezione: è un po’ la solita storia dei figli contro i padri. Ma 20, 30 anni dopo… ancora? Ed è solo faccenda da nicchie nostalgiche che perpetrano uno dei luoghi comuni fondanti dell’antipoetica punk?

Riprendiamo la "Maledetti Fricchettoni" dei Tear Me Down. L’inizio del testo è praticamente un’istantanea paraantropologica che in poche e semplici immagini racchiude il carattere di un’intera way of life: “una moltitudine di bonghi assordanti/mi entrano nei timpani con ritmi assillanti/del vino, un falò, qualche trip e uno spinello/ma tra prati e fiorellini e tutto è ancor più bello”. Io come credo chiunque ho ben presente con chi se la prendevano i viterbesi. Voglio dire, il fricchettone bongarolo con la canna in bocca e la maglietta etno è un fenotipo che tutti abbiamo conosciuto, e nei confronti del quale è facile esercitare il più bieco/feroce/velenoso sarcasmo. Per dire, io questi fricchettoni li odiavo, ma li odiavo veramente. Li guardavo sdraiati con le facce sfatte all’ingresso di un centro sociale, di una scuola occupata, su qualche marciapiede del quartiere San Lorenzo, e pensavo: “che schifo”. Maledetto fricchettone. Tu non sei dalla mia parte. Kill the hippies.

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Non ero naturalmente l’unico a pensarla così. E mica perché sapete, il punk e blah blah blah. Macché: tutto il mondo la pensava così. Il mio “che schifo” non era a conti fatti diverso da quello dell’edicolante, del macellaio all’angolo, dell’impiegato della banca sotto casa. “Bastardo fricchettone, la tua cura è lo schiaffone”: per la miseria, pare di sentire un aspirante Robocop dell’Istituto Vigilanza Urbe. Questi fricchettoni faranno pure, per dirla coi Colonne Infame, “la gioia dei fascisti che ci vogliono tranquilli”: ma continuano a suscitare il disgusto, il rifiuto, il monito schifato del mondo lì fuori, la cosiddetta parte sana della società (sana è da leggersi tra un numero n di virgolette, beninteso); per certi versi questo è un pregio: la certificazione di un’alterità talmente irriducibile da sfuggire a qualsiasi sospetto di omologazione, con buona pace delle accuse di passività/menefreghismo/rincoglionimento da canne della nazione hardcore.

Non è solo questione di fricchettoname moderno, dei bongaroli al parco, delle tribe che viaggiano in furgone, dei loro emuli più o meno stonati. Torniamo al modello originale, gli hippie di fine Sessanta che nei Settanta sfoceranno nelle loro espressioni più colorite e—giustappunto—freak: riuscite a immaginare qualcosa di più esecrato, schernito e deriso dalle sottoculture hip contemporanee, diciamo pure dall’odierno mondo pseudogiovanile nella sua quasi totalità? E però, a 15 anni da "Maledetti Fricchettoni", c’è un’altra domanda che mi faccio, e cioè: siamo sicuri che, a rigettare le macchiette crinite dell’era peace&love nella pattumiera degli avi imbarazzanti se non addirittura nel nemico tout-court, ci abbiamo guadagnato qualcosa?

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Parco Lambro, Milano, 1975. Via

Io è un po’ che mi studio i ricordi, gli eventi, i manufatti di quella generazione che—puff!—si fece crescere i capelli per infilarci i fiori dentro, annegando i dispiaceri della vita di tutti i giorni in abbondanti dosi di LSD, oppure filandosene direttamente in India. Mi interessava in particolar modo capire come tale sottocultura si fosse sviluppata in Italia, e a tal proposito il testo forse più bello l’ho trovato scritto dal solito Matteo Guarnaccia, che nel 2000 pubblicò per Malatempora il suo Underground Italiana (per chi fosse interessato, è stato ristampato giusto l’anno scorso da Shake). Andate a sfogliarvi il libro e troverete una fila pressoché infinita di foto raffiguranti capelloni seminudi che “ballano nella polvere vestiti da gitani”, terzi occhi dipinti sulla fronte, canne e cilum come se piovesse, maschi e femmine che scopano nel fango, tizi col pisello di fuori che meditano, eccetera eccetera. Immagino il disgusto dipinto sul volto di Tear Me Down e soci, e immagino anche i risolini smaliziati vostri, del genere “ahah sì, quei mattacchioni hippie, però che schifo che non si lavavano mai, fammi controllare che dice oggi dismagazine.com”. In fondo anche una parte di me reagisce così: non mi ci vedo in una comune in Sicilia a danzare nudo sotto la pioggia e a condividere cibo macrobiotico con altri 20 controfigure di Hair. Solo che è un po’ che questa reazione mi mette a disagio: perché mi fa subodorare i fumi dolciastri del conformismo, del rassicurante agio borghese, del qualunquismo più che privato privatistico.

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A leggere le testimonianze raccolte da Guarnaccia, se c’è una cosa che non si può imputare ai protagonisti di Underground Italiana è di non averci provato: a mettere in discussione tutto, dai rapporti in famiglia a quelli col proprio corpo, dalla coppia al sesso, dalla società alle relazioni interpersonali, dalla droga alla musica, eccetera eccetera. “Roba da fricchettoni”, si dirà. Giusto. Ma il fatto che questo corpus di atteggiamenti, motivi e istanze abbia finito col tempo a essere ridotto a formula canzonatoria, tutto sommato lascia lo sgradevole sospetto che questi atteggiamenti, motivi e istanze restano ancora… problematici; sollevano questioni non risolte, che vengono eluse con la rassicurante e un po’ imbarazzata caricatura, perché fondamentalmente ci secca ammettere che sì, le relazioni restano un problema aperto, la vita di coppia pure, il sesso non ne parliamo, la prona subalternità ai dogmi borghesi figuriamoci.

Parlando di memoriali, è stato interessante mettere a confronto lo stesso Underground Italiana con un altro libro da me amatissimo e a conti fatti più aderente al mio vissuto e un po’ alla mia personalità: sto parlando di American Hardcore di Steven Blush, che racconta l’epopea del punk americano anni Ottanta dai Black Flag ai Minor Threat, la stessa scuola da cui poi verranno i nostrani Colonna Infame e Tear Me Down. Il senso di vera e propria ritirata, di risentimento represso, di frustrazione impotente che si respira nelle pagine di Blush è l’esatta antitesi dello sperimentalismo ottimista portato in dote dai freak della generazione precedente. Per dirne una, stiamo parlando di un mondo in cui al sesso libero e all’allegra e un po’ naif condivisione dei corpi, si sostituisce una specie di immensa palestra per soli maschi machi e machisti, con le donne che se ci sono danno più fastidio che altro, e con l’indicativo paradosso che molti dei protagonisti erano omosessuali ma non potevano dichiararlo, evidentemente per non rischiare di essere squalificati in quanto femminucce senza nerbo. Stiamo parlando di un mondo che all’atteggiamento rilassato, sorridente, inclusivo della comune tra uguali, sostituisce una specie di competizione agonistica tra chi urla più forte, chi mostra più i muscoli, e chi la spara più grossa (“uccidi qui, ammazza là”). I toni si sono ingentiliti nel corso degli anni, è vero. Ma visto che l’intera cultura indipendente contemporanea affonda le sue radici proprio nella carbonara epopea hardcore, l’atteggiamento di fondo non è poi cambiato granché (a proposito, bisognerà un giorno affrontarli, i danni di 35 anni di egemonia punk; prima o poi magari mi ci metto).

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Parallelamente alla tutto sommato prevedibile dialettica tra sottoculture appartenenti a ere e contesti differenti, è altrettanto indicativo notare come la cara vecchia generazione fricchettona è stata interpretata/riletta da chi è venuto dopo non in qualche scantinato underground, ma nel succitato “mondo lì fuori”. La questione è molto semplice: tanto per i commentatori conservatori che per quelli più illuminati, tanto per i paladini della reazione che per i loro omologhi progressisti, è tutta colpa loro. Qualsiasi distorsione, grana o dilemma della società punta alla responsabilità oggettiva di quella che pensavamo fosse un’innocua ghenga di gente che si faceva crescere i capelli e che passava il tempo a farsi le canne, e che invece ha sotterraneamente cospirato per ridurre il mondo a quell’inferno che è ora. Alcune accuse sono oramai diventate dei veri e propri classici (la famiglia è in crisi? Colpa dell’alleggerimento dei costumi inaugurato dai capelloni), ma altre lavorano più in profondità, specie quando vengono da quella parte (politica, culturale, mettetela come volete) ipoteticamente meno distante dalle urgenze libertarie del decennio che va tra metà Sessanta e metà Settanta. Pensate al dibattito sulla “mignottocrazia in politica” o sull’uso sconsiderato del corpo della donna: bene, per taluni luminari altro non sarebbe che “la prevedibile deriva di quella disinibita politica dei corpi cara alla generazione cresciuta col mito hippie”.

Insomma, tanto per le riottose sottoculture underground quanto per gli apocalittici commentatori borghesi, pur secondo prospettive diverse e alle volte contrapposte, i fricchettoni hanno vinto e se c’è un nemico storico contro cui puntare il dito questi sono loro. Badate bene, io a questa storiella ci ho pure creduto, saltellando in casa sulle note di "Kill the Hippies". Però, andatevi a controllare su Underground Italiana quanti di quelli “ce l’hanno fatta”: la percentuale è, più che trascurabile, gioiosamente bassa. Reietti erano, e reietti sono rimasti. Nel frattempo sui giornali, in televisione e (signora mia!) in parlamento ci andavano gli altri: quelli che “ho fatto il 68”, quelli dei gruppetti e della lotta continua. Che quando incrociavano un fricchettone, per capirci, gli davano giù di spranga. Perché al posto del cilum c’era da pensare alla rivoluzione. Perché già all’epoca “ti ammazzi di spinelli per la gioia dei fascisti che ci vogliono tranquilli”. Loro invece, i katanga der movimento e delle ronde anticapelloni, tranquilli non lo erano per niente. Erano anzi parecchio svegli. E giustamente hanno fatto carriera in fretta.