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La guerra dei droni raccontata da chi la subisce

Dal 2008 il programma droni americano ha lanciato più di 300 attacchi sul Pakistan. E anche se i funzionari tendono a minimizzare, secondo alcuni report indipendenti il numero di civili uccisi avrebbe superato il migliaio. Il documentario di Madiha...

La guerra mezzo droni è, di per sé, una faccenda oscura. Controllati da basi clandestine dell’America occidentale, i droni Reaper e Predator volano sull’Afghanistan, sullo Yemen e sulle zone tribali del Pakistan, inviati dalla CIA per colpire con precisione obiettivi ad “alto valore” posti a migliaia di metri più in basso. Data la segretezza del programma e la desolazione dei luoghi in cui cadono i missili Hellfire, non è sempre semplice verificarne la precisione.

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I funzionari americani minimizzano il numero dei civili uccisi, anche se un coro di report indipendenti ha fornito le sue lugubri stime. Le ultime, secondo una ricerca delle Nazioni Unite e di Amnesty International, contano 58 civili uccisi in Yemen e quasi 900 in Pakistan. Durante un discorso ufficiale dello scorso maggio, il presidente Obama ha infine rotto il silenzio sulla faccenda dei droni, riconoscendo l'uccisione di civili—senza specificare quanti— e promettendo più trasparenza sulle azioni di questo genere. “Quelle morti,” ha aggiunto il presidente, “ci perseguiteranno fino alla fine dei nostri giorni.”

Per la giornalista Madiha Tahir i numeri sono importanti, ma rappresentano solo una parte della storia. Nel suo documentario Wounds of Waziristan, presentato in anteprima all’inizio dell’articolo, Tahir ha intervistato la gente che vive al confine con l’Afghanistan sotto gli occhi dei droni e della loro capacità distruttiva. Tahir, che è cresciuta tra il Pakistan e gli Stati Uniti, fa notare che quando si parla di attacchi con i droni non c’è da considerare solo il numero di morti, o le discussioni sull’etica militare. Gli effetti della guerra dei droni minano infatti anche l'equilibrio delle comunità colpite, di per sé collocate in posti remoti e ai margini dell’ordine pubblico.

“Data la distanza a cui si trovano i droni, c’è un senso di incertezza, la sensazione che tu non possa controllare niente,” racconta Tahir descrivendo il sentire comune della gente del Waziristan. Già segnata dai retaggi del colonialismo britannico e delle leggi che questo si è lasciato alle spalle, questa parte delle Aree Tribali è governata ora dal pugno di ferro del controllo militare pakistano e da vari gruppi ribelli. Ma il ronzio dei droni, che sibila anche sette o otto volte al giorno, segnala un altro tipo di potere indeterminato. “Che sia vero o meno, la gente ha come l’impressione che con i ribelli ci sia un certo grado di controllo. Puoi negoziare. C’è una causa e un effetto. Coi droni non è così. È un trauma molto intenso che non si limita al singolo attacco.”

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Per gli operatori del programma droni, che dal 2008 hanno lanciato più di 300 attacchi missilistici sul Pakistan, le oscure Aree Tribali sono soggette ad una logica militare molto particolare. Come ha riportato lo scorso anno il New York Times, il governo americano ha considerato come “ribelle” qualsiasi uomo in età militare presente nella zona designata all’attacco, il che ha portato a dati piuttosto alterati sull'esatto numero delle uccisioni. L’amministrazione Obama ha utilizzato anche il metodo dei "signature strike", ovvero attacchi basati sulle analisi dei “profili comportamentali” di una persona, per cui un comportamento sospettoso di un individuo è già abbastanza per far partire un attacco. In più, nella cosiddetta manovra "double tap", viene lanciato un secondo bombardamento subito dopo il primo per uccidere quelli che tornano sul campo a recuperare i corpi delle vittime.

“Quando termina un attacco, i media forniscono dei dati sul numero dei ribelli uccisi,” spiega Noor Behram, una giornalista che lavora nelle Aree Tribali e che ha fotografato per anni le vittime dei droni. “In realtà, sul campo si ritrovano solo dei pezzi di corpi smembrati, quindi è impossibile sapere quante persone siano morte.”

In una delle sue interviste, Tahir parla con Karim Khan, un uomo del Waziristan del sud che ha perso un figlio e un fratello durante un attacco. “Qual è la definizione di terrorismo?” chiede Khan a Tahir, che gli rigira la domanda vedendo illuminarsi i suoi occhi stanchi.

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“Non credo ci sia terrorista più grande di Obama o Bush,” risponde. “Quelli che posseggono armi letali come i droni, che sganciano le bombe su di noi mentre siamo dentro casa—non ci sono terroristi più grandi di loro.”

Nonostante la sua segretezza, i reportage indipendenti di Human Rights Watch e Amnesty International, insieme a una serie di telegrammi contenti accordi segreti tra Islamabad e Washington pubblicati dal Washington Post, hanno gettato una nuova luce sul programma droni. Il 29 ottobre di fronte al Congresso americano ha testimoniato una famiglia vittima di un attacco, intervistata anche nel report di Amnesty International (nonostante al loro avvocato Shahzad Akbar, che appare anche nel documentario, sia stato negato il visto per gli Stati Uniti).

In un altro report indipendente che sarà discusso il prossimo venerdì dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il relatore speciale sui diritti umani e anti-terrorismo Ben Emmerson ha invitato gli USA a rimuovere la segretezza su questo programma che, ha dichiarato, potrebbe violare le leggi internazionali. Gli Stati Uniti hanno diminuto gli attacchi con i droni al minimo degli ultimi cinque anni, ma insistono nel dire che queste azioni sono “necessarie, legali e giuste.”

"Nascondendosi dietro la scusa della segretezza e sfruttando la difficoltà che c’è nel verificare i dettagli degli attacchi in queste aree remote, instabili e fuori da ogni legge,” scrive Emmerson, “gli USA contribuiscono alla lunga lista di violazioni e abusi sofferti da una popolazione che è stata trascurata e attaccata dal proprio stato e presa di mira da al-Qaeda, dai talebani e da altri gruppi armati."

Report come quello delle Nazioni Unite sono necessari per rendere più reali e tangibili gli effetti dei droni agli occhi dell’opinione pubblica. Ci sono però anche ferite più profonde, quelle che è più difficile calcolare. “Ci dovrebbe essere un modo per parlare dei droni fuori dall’ambito legale,” dice l’autrice. “Capire come è possibile comprendere cosa vuol dire vivere sotto i droni, e cosa significa esattamente essere, come ha detto il presidente, ‘perseguitati’ dalle perdite di vite umane.”

Per saperne di più, visita il sito del documentario o segui Madiha su Twitter.

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