Attualità

Cos’è successo di preciso col ‘blocco’ nei porti italiani di armi verso Israele

Con Weapon Watch, abbiamo fatto chiarezza sulla vicenda dei portuali di Livorno e Napoli che avrebbero bloccato o evitato di imbarcare un carico di armi verso Israele.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Il porto di Livorno. Foto di porojnicu via AdobeStock.

Nel fine settimana, su diverse testate e pagine Instagram italiane è girata parecchio la notizia secondo cui i lavoratori del porto di Livorno avrebbero bloccato—o si sarebbero rifiutati di imbarcare—un carico di armi destinato a Israele. Anche all’estero ne hanno parlato alcuni media, ad esempio il giornale The Independent e ong come Jewish Voice for Peace.

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Il fatto che la notizia abbia circolato nel pieno dei raid aerei israeliani sulla Striscia di Gaza—che al nono giorno hanno portato a più di 200 vittime e oltre 1500 feriti, e che hanno innescato una mobilitazione e manifestazioni di protesta in tutto il mondo—ne ha irrimediabilmente accresciuto la popolarità.

La situazione reale è tuttavia po’ diversa: non c’è stato un vero “blocco” da parte dei portuali; piuttosto, si è trattato di una forte presa di posizione antimilitarista—e a sostegno della causa palestinese—nell’ambito di un’iniziativa di monitoraggio dello smistamento delle armi nei porti italiani che va avanti da diverso tempo.

Proviamo quindi a fare un po’ di ordine. Tutto parte da una segnalazione fatta il 14 maggio del 2021 dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova (Calp) e da Weapon Watch, l’osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei fondato nel gennaio del 2020 per rendere “queste merci meno nascoste” e tracciare “una geografia dei produttori di armi che [le] trasportano attraverso i porti.”

L’associazione, si legge sul sito, era infatti venuta a conoscenza che “carichi di proiettili ad altra precisione” destinati al porto di Ashdod in Israele (come risulta dai documenti di consegna e da siti come VesselFinder.com) erano stati imbarcati al Genoa Port Terminal sulla “Asiatic Island,” una nave che batte bandiera di Singapore e svolge il “servizio di linea regolare” per conto della compagnia di stato israeliana ZIM.

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Come mi ha detto al telefono il presidente di Weapon Watch Carlo Tombola, che è anche coordinatore dell’Osservatorio Permanente Armi Leggere di Brescia (Opal), il container con le munizioni sarebbe partito da Milano e rimasto a Genova per tre giorni in “ambito non portuale.”

La precisazione è importante, perché “se si fosse trattato di un esplosivo o di una classe di pericolosità differente, avrebbe dovuto sostare obbligatoriamente in alcune delle aree dedicate sotto il controllo a vista del personale dei vigili del fuoco.”

In questo caso il carico è stato prelevato da un camion (di cui è stata pubblicata una foto sul sito), portato in banchina e da lì direttamente sulla “Asiatic Island”, senza passare da terra. La nave ha lasciato il porto di Genova alle 4 di mattina del 14 maggio ed è successivamente transitata a Livorno, senza però che il carico venisse sbarcato o imbarcato (a differenza di quanto sostenuto dai titoli citati in apertura).

A fronte della segnalazione arrivata dal Calp e da Weapon Watch, i lavoratori portuali di Livorno aderenti all’Unione Sindacale di Base hanno pubblicato un comunicato intitolato “Il Porto di Livorno non sia complice del massacro ai danni della popolazione palestinese,” in cui hanno scritto che “il lavoro è importante, specialmente in questi tempi, ma questo non può farci chiudere gli occhi [di fronte] ai massacri continui nei confronti della popolazione civile”.

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La nave è poi transitata (anche qui senza operazione di sbarco o imbarco) al porto di Napoli tra il 15 e il 16 maggio. Anche i lavoratori portuali di Napoli del sindacato S.i. Cobas si sono schierati “contro lo smistamento di armi che servono ad alimentare guerre e profitti contro il popolo palestinese che da anni subisce una spietata repressione ad opera di Israele,” dicendo che “le nostre mani non si sporcheranno di sangue per le vostre guerre.”

A fronte dell’attuale situazione a Gaza, quindi, nel comunicato di Weapon Watch si chiedeva alle autorità italiane di verificare se ci fosse il mancato rispetto dei trattati internazionali dove questi “impongono di vietare o sospendere gli invii di armi e munizioni in caso di palesi violazioni del diritto internazionale” o di “pericolo che tali armi e munizioni siano impiegati nella repressione interna e contro la popolazione disarmata” (al momento non è però chiaro se quelle munizioni saranno impiegate nel corso delle attuali operazioni militari).

Per il resto, la vicenda dell’“Asiatic Island” è comunque emblematica non solo per la contingenza, ma perché fa parte del più ampio movimento di armamenti nei porti italiani. Weapon Watch è nata proprio per far luce su di esso, e funziona sia da “rete di allerta” che da raccolta di informazioni.

Queste ultime, mi ha detto Tombola, provengono da un lato dai “documenti ufficiali” come quelli di accompagnamento delle merci, che tuttavia in Italia sono poco accessibili. “Abbiamo fatto più volte pressione sulle dogane,” racconta, “perché vengano resi pubblici almeno quelli legati alle minacce alla sicurezza di chi lavora e sta lì nel porto di Genova, che poi è attaccato alla città.”

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Dall’altro lato, invece, ci sono le “fonti dirette”. Da tempo, afferma Tombola, “stiamo cercando di organizzare una rete di militanti antimilitaristi e obiettori di coscienza che lavorano nei luoghi dove passano queste merci, e che ci rivelano quello che vedono e riescono a documentare.”

Il metodo visto all’opera in questi giorni con la Asiatic Island è stato già testato altre volte negli ultimi anni, in particolare con le navi della compagnia nazionale di spedizioni dell’Arabia Saudita (la “Bahri”) che regolarmente fa rotta tra Stati Uniti, Nord Europea, Mediterraneo e Golfo.

Secondo le denunce fatte da diverse Ong (tra cui Amnesty), le imbarcazioni della Bahri a volte trasportano anche carichi di armamenti pesanti—tra cui mezzi blindati e carri armati, come emerge da diverse foto—destinati al conflitto in Yemen e in violazione, spiega Amnesty, del trattato multilaterale sul commercio delle armi e della Posizione Comune europea sull’export di armamenti.

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Nel maggio del 2019—seguendo l’esempio di quanto accaduto in altri porti europei—i lavoratori del porto di Genova si erano rifiutati di caricare casse contenenti materiale destinato all’uso bellico sull’imbarcazione saudita “Bahri Yanbu,” indicendo contestualmente uno sciopero con il sindacato Filt-Cgil. Stando a quanto ha riportato Repubblica all’epoca, quel materiale alla fine non è stato caricato nel porto ma è stato spostato in un’altra area, da dove è stato poi trasferito via terra.

Proteste e blocchi erano continuati anche all’inizio del 2020, prima dell’esplosione della pandemia. “Riteniamo di dare un nostro piccolo contributo ad un problema grande per una popolazione che viene uccisa giornalmente,” aveva spiegato una nota della Filt-Cgil, “non diventeremo complici di quello che sta succedendo in Yemen.”

Per quelle azioni, lo scorso marzo cinque attivisti del Calp sono stati perquisiti e indagati dalla procura di Genova per associazione a delinquere, resistenza a pubblico ufficiale, lancio di oggetti pericolosi (i fumogeni), e attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti.

José Nivoi, uno dei cinque indagati, da detto in un’intervista a DinamoPress che l’azione della procura è “un modo per tagliare la testa a quei gruppi di lavoratori che non fanno più uno sciopero vertenziale ma politica. Era trent’anni che nel porto di Genova non si vedeva uno sciopero politico capace di bloccare un’azienda.”

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