foraging calabria
Foto di Domenico Stallone per gentile concessione del Praia Art Resort
Cibo

Il ristorante in Calabria dove ho capito perché il foraging non è solo una moda del Nord

Siamo vicino Isola Capo Rizzuto, sulla costa Ionica. Qui nasce un progetto che combina alta ristorazione, etnobotanica e hôtellerie di lusso.
Roberta Abate
Milan, IT

Le radici della nostra tradizione gastronomica vanno rintracciate nell’etnobotanica, per questo è importante portarla avanti.

Con molta retorica da anni si parla di una sempre vaga valorizzazione della Calabria; le istituzioni e i magazine più patinati dibattono sempre più spesso sulla necessità di spingere il turismo di “questa terra meravigliosa, che sembra le Maldive” o sull’impegno di far conoscere i suoi prodotti tipici. O di investire sugli eventi. E i ristoranti stellati. Poi chissà che altro.

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I segnali positivi parlando di Calabria negli ultimi anni ci sono stati, non fraintendetemi: dal lavoro fatto sul vino Cirò e alla presenza dei vari ristoranti sulle guide più blasonate. La Calabria è, però, ancora inadatta ad accogliere il turismo che tanto sembrano agognare i giornalisti di tutto il mondo; non quello di massa che in alcune località dell’alto Tirreno o nell’ormai celebre Tropea invadono solo per agosto cittadine agonizzanti. Mancano piuttosto progetti a lungo termine, capaci di cambiare le sorti di una regione dimenticata.

Se questi primi paragrafi sembrano il preludio a un rant anti calabrese respirate e andate avanti. Perché questo discorso è stato pensato e sviscerato mentre ero in un posto quest’estate, sì in Calabria, dove ho saggiato quanto questa regione,—che poi è quella in cui sono nata e cresciuta—pur partendo sempre svantaggiata riesce poi a sorprenderti con progetti che fanno invidia anche al Nord.

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Praia Art Resort. Foto di Domenico Stallone per gentile concessione del Praia Art Resort

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Ad agosto vengo invitata da Praia Art Resort e dal Pietramare Natural Food, sulla Costa Ionica, vicino Capo Rizzuto. Non mi aspettavo molto, non si offenderanno i proprietari, se non una struttura di lusso senza granché da raccontare, ma con un buon ristorante al suo interno, con una stella Michelin dal 2017. 

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Rimango tuttavia folgorata da due aspetti durante la mia breve visita: in primis l’estetica, che non vuole scimmiottare alcune tipiche strutture di lusso del sud Italia, opulente e azzarderei spesso molto vicine al castello del Boss delle Cerimonie; secondariamente il coinvolgimento di professionisti del settore iper specializzati, che hanno dato al ristorante e a tutto il progetto un valore tutt’altro che scontato.

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Lo chef Nicola Annunziata.

Chef del Pietramare Natural Food è Nicola Annunziata, classe ’91, che nonostante non sia nato da queste parti,—è di Sarni, in Campania—ha come missione farne riscoprire i sapori locali, grazie all’utilizzo di prodotti tipici ed erbe aromatiche. Ad aiutarlo in questa missione una figura a cui è difficile resistere, o almeno io non ho saputo resistere: Carmine Lupia, nato a Sersale (Catanzaro), pochi chilometri dalla struttura di Praialonga, esperto di botanica farmaceutica, direttore del conservatorio di etnobotanica di Castelluccio Superiore e consulente di botanica applicata, farmaceutica, fitoalimurgia, nonché ideatore della riserva naturale di Valli Cupe. Con lui il mio storcere il naso ogni qualvolta un ristoratore parla di foraging è venuto meno. Anzi, ho capito il vero legame necessario fra storia naturale e ristorazione.

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Carmine Lupia

Inizio a parlare con Lupia nella sua macchina, mentre ci dirigiamo verso le Valli Cupe, una zona naturalistica pre-Sila a circa 40 minuti dalla struttura di Praialonga. È lì che con lo chef Annunziata e la brigata si fa foraging per l’ideazione di nuovi piatti: "Al ristorante usiamo circa 40 specie selvatiche spontanee, almeno una trentina credo siano una nostra esclusiva, come la rapa selvatica, che ho proposto allo chef e lui subito ci ha fatto un piatto di grande successo. Usiamo anche radichielle, timo a fascetti, molto particolare—lo chef ci ha fatto un gelato—, il timo capitato, aglietto pelosello, che si trova nel periodo di maggio. La cosa importante da dire è che le radici della nostra tradizione gastronomica vanno rintracciate nell’etnobotanica, per questo è importante portarla avanti”. 

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Gli chiedo di spiegarmi in cosa consiste questo legame fra etnobotanica, fitoalimurgia e tradizione gastronomica. Carmine non solo sa tutto, ma lo sa anche spiegare benissimo: “Ti faccio un esempio, grazie a degli studi si è scoperto che la pasta asciutta, così come la conosciamo noi con la salsa su, non viene fatta a partire dall’introduzione del pomodoro, ma la si preparava già in Calabria e in Basilicata nel 1300—si parlava di “pasta rossa”—e veniva fatta con una salsa di rosa canina, quando arrivava a maturazione ad ottobre. Solo che fare una salsa con la rosa canina soltanto era molto dispendioso, a livello di tempo e di quantità, e una volta arrivato il pomodoro lo si è sostituito.”

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In parole povere, Lupia mi spiega che si va sempre per similitudini negli usi in cucina, ovvero i nuovi ingredienti si usano come si usavano quelli vecchi. Vale per la rosa canina e il pomodoro, così come la ciofeca per il caffè, etc. Lupia è un grande detrattore della Calabria, ma contrariamente a me, dopo gli studi è tornato qui per costruire qualcosa e per aiutare il territorio grazie a studio e cultura. Associare studio e cultura a un ristorante a volte fa sorridere, ma se in città come Milano questa sorta di sigla rischia di apparire vuota di significato, in posti endemici e ancora poco indagati come la Calabria non solo è possibile, ma è anche ciò che può fare la differenza. 

In molti raccolgono erbe spontanee senza specializzazione, mentre ognuno dovrebbe fare solo il proprio mestiere. Per esempio ci sono delle piante che sono tossiche solo in alcuni periodi dell’anno.

Sempre nella sua macchina, Lupia continua: “Le specie della tradizione calabrese sono circa 400; insieme a tutta la squadra del ristorante andiamo, ne raccogliamo alcune e poi lo chef le sperimenta, decidendo se vale la pena o meno inserirle in menu. Ogni anno sperimentiamo 4/5 specie nuove. E le aggiungiamo alla lista che abbiamo già e con cui abbiamo già provato”.

Gli chiedo se questa moda del foraging non sia a volte pericolosa.“Sì, a volte capitano degli avvelenamenti. Ad esempio un ristorante, di cui non dirò il nome, aveva avvelenato lievemente i clienti perché era stato servito un piatto con lo spinacio selvaggio dove dentro però c’era la mandragola; c’era stato qualcuno che ha avuto appunto qualche allucinazione”. Aggiunge “In molti raccolgono erbe spontanee senza specializzazione, mentre ognuno dovrebbe fare solo il proprio mestiere. Per esempio, ci sono delle piante che sono tossiche solo in alcuni periodi dell’anno, prendi la Vitalba (Sigillo di Salomone): gli apici in alcuni periodi non hanno tossine. Bisognerebbe sapere anche qual è il periodo balsamico migliore per raccogliere le erbe, in modo che le piante abbiano più profumo possibile. Quello può cambiare un piatto”. 

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Valli Cupe

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Mentre camminiamo fra le Valli Cupe e incontriamo una delle piccole cascate, per cui questa riserva è famosa, Lupia mi mostra diverse erbe del periodo (è agosto), come il pungitopo, che fa parte della famiglia degli asparagi, “È un asparago di bosco”, precisa Lupia. 

Arrivando vicino alla cascata, dall’altra parte del torrente, Lupia con notevole naturalezza guada l’acqua e va a cogliere della rucoletta selvatica, dicendo “la porto allo chef, credo gli servisse per i piatti di questa settimana”. 

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Lupia collabora con la famiglia Vrenna, e con Valentina Vrenna in particolare, proprietari di Pietramare, dal 2019; l’intento comune è quello di valorizzare e tutelare la biodiversità calabrese, di cui forse si parla poco, ma che ha dei tratti davvero particolari. “La biodiversità calabrese è una delle più diverse del pianeta, perché qui si trovano piante e climi tropicali e sub tropicali. Sulle montagne abbiamo piante di climi nordici, dell’Europa del nord. La Calabria racchiude in sé diverse fasce fitoclimatiche che abbiamo sul pianeta.” Dice Lupia.

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Le mie tre ore di chiacchierata con Lupia terminano e la sera mi ritrovo al ristorante per un menu degustazione pensato dallo chef Annunziata. I piatti del Pietramare Natural Food non tradiscono tutto il lavoro di ricerca e di cultura: il piatto probabilmente simbolo di tutto il percorso degustazione,—che ha un costo di 110 euro (per 5 portate) e di 130 euro per sette—, è probabilmente il primo, chiamato Noi di Kalabria: uno spaghetto spezzato risottato in una zuppa di pesci di scoglio dello Ionio, pesto di pomodoro e peperone essiccati e polvere di olive nere. Quasi comfort food, ma da fine dining.

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Amuse Bouche. Foto dell'autrice

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Noi di Kalabria. Foto dell'autrice.

Piatto incredibile anche l’Agnello di Marchesato laccato al miele e al peperoncino, che ricorda molto i gusti calabresi ovviamente ingentiliti ed elevati e che appunto giova del lavoro di foraging fatto da Annunziata e Lupia. Tutta la cena è allietata da uno staff giovanissimo e da una sala molto ampia. Una lista vini che forse ancora non rispecchia moltissimo il territorio calabrese al massimo, ma su progetti di questo tipo c’è bisogno di tempo affinché tutto sia perfetto.

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’Agnello di Marchesato. Foto dell'autrice

Il ristorante per il momento è stagionale—riaprirà a marzo 2023—ma l’intento per il futuro è rimanere aperti anche una parte dell’inverno.

Un altro motivo in più per riguardami indietro e apprezzare una struttura nata per il turismo alto spendente, ma che si sta impegnando per fare cultura in una regione che, nonostante tutti i suoi difetti, riesce a sorprenderti ancora.

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