MACE OBE intervista ROBOT Festival
MACE e l'autrice al ROBOT, foto di Kevin Spicy.
Musica

Sono stata al ROBOT Festival con MACE

Per l'esperienza mistica di tornare a un concerto non c'è miglior guida di MACE, che ci ha raccontato il successo inaspettato di 'OBE', il rapporto con le sostanze psichedeliche, i suoi mentori.
Carlotta Sisti
Milan, IT

Quando, all’incirca un mese e mezzo fa, ho annunciato che sarei tornata a fare la mia cosa preferita, e cioè Concertini, la rubrica in cui accompagno gli artisti ai concerti di altri artisti, ricordo sguardi carichi di tenerezza e sarcasmo. Eppure avevo ragione: i live e i festival, finalmente, sono ripartiti anche in Italia; anzi, sono esplosi, tanto che esistono persone, una delle quali vive nella mia stessa casa, che hanno creato dei file excel per “ottimizzare” l’estate.

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In questo primo episodio (speriamo di molti) del 2021 abbiamo fatto incrociare felicemente tra loro MACE, cioè l’autore di OBE, cioè uno dei dischi più belli usciti quest’anno, e il festival di musica elettronica ROBOT. In una Bologna che si conferma la terra perfetta per parlare di confini (il tema di quest’anno della tre giorni di ROBOT era appunto ‘Borders’) mentre al tempo stesso li si azzera, c’è stato il pilot, la puntata zero, di un happening musicale e di arti digitali che voleva esistere a tutti i costi (tanto che lo avrebbe fatto anche col coprifuoco a mezzanotte) e il risultato è stato un rito collettivo sempre più liberatorio, man mano che la notte cresceva e gli scontrini dei gin tonic pure.

Negli spazi post-industriali del DumBO di Bologna, riempiti da musiche d’avanguardia, progetti di sperimentazione, vertigini sonore e spettacoli col fuoco, ROBOT è stato, e qui arriva la parola chiave di questa puntata, un viaggio tra luoghi diversissimi tra loro. Dalla leggerezza della Baia, lo spazio all’aperto, che verso l’una grazie alle scosse elettriche e tribali di Tamburi Neri s’è incendiata per bene, all’oscurità cullante di Binario Centrale, algido, quasi sacrale, teatro dei set forse più attesi di Lorenzo Senni, Caterina Barbieri, Donato Dozzy e Eva Geist, al movimento dello Spazio Bianco, dove si giocava tra installazioni e live folli come quello di Mai Mai Mai, non c’è stato verso di stare fermi. Per questo l’intervista che leggerete è stata fatta prima di entrare nell’universo Robot, e da altri universi, a lui molto cari, siamo partiti con Simone, che parla come suona i suoi dischi, in un modo che fai fatica a mettere in pausa. 

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MACE intervista ROBOT Festival

MACE e l'autrice, foto di Kevin Spicy.

Non so come lo inserirò nel pezzo, sta di fatto che inizio a registrare ora, ma è già da un po’ che stiamo parlando di sostanze psichedeliche, ancora, però, non ti ho chiesto perché ti piacciono così tanto. 
Io amo alla follia le sostanze psichedeliche. So che “amo alla follia” non è il modo giusto per dirlo, o non dovrebbe esserlo, ma per quella che è la mia esperienza personale, posso dire che mi hanno fatto stare molto bene quando sono stato molto male. La prima volta ho provato l'ayahuasca, ero ero a un passo dalla depressione e sono rinato. Mentre facevo OBE, l'estate scorsa, ero in un momento di down incredibile, poi ho fatto 4 weekend tra le montagne a prendere LSD e funghi ed è stato come un ciclo di terapia, alla fine del quale ero una persona diversa. Mi ha ritirato su completamente. E queste non sono sostanze che ti tirano su in quel momento e poi il giorno dopo stai di nuovo di merda, se non peggio: ti lasciano una coda lunga perché è come se ti aiutassero a sbrogliare dei nodi dentro di te. 

Qual è la differenza tra le sostanze psichedeliche? Ad esempio tra LSD e ayahuasca?
Molto diversa è la maniera in cui le assumo, perché l’ayahuasca l’ho sempre presa in contesti rituali, quindi o con uno sciamano oppure durante delle cerimonie, per esempio di gruppi cristiani sincretici, che qui in Italia si trovano a berla due volte al mese, accompagnando il rito da canti rivolti ai santi e alla Madonna. La prima volta, anzi, è stata proprio con loro ed è stata molto potente, perché ero in mezzo a cento persone, compresi ragazzini e anziani, che cantavano e suonavano strumenti, e tu ti sentivi davvero protetto da questo guscio energetico. È stato meraviglioso. Poi la ragione stessa per cui ho smesso di aggregarmi è che ho sentito il cristianesimo troppo imperante e ho capito che non potevo fare veramente parte di quella cosa, anche per rispetto nei loro confronti.

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Lì diventava una sorta di dogma anche il rito dell’ayahuasca?
Diventava religione, ed è la loro religione, e anche se mi hanno accolto a braccia aperte, non è la mia. Ma aspetta, torno sulle differenze tra sostanze: ayahuasca sempre in contesti rituali; invece i funghi, DMT e LSD li ho presi da solo, senza una guida, ma tendenzialmente sempre in posti che comunque mi stimolino un po' il lato spirituale e mistico, che è quello veramente guaritore di queste sostanze. Quindi, per esempio, in mezzo alla natura, quando hai veramente tutti i sensi spalancati, succede che ciò che è brutto diventa molto brutto, ma ciò che bello diventa meraviglioso. Assumerle davanti a un panorama bellissimo, dove senti proprio la potenza e il tempo infinito della natura, fa succedere robe che ti toccano, sono esperienze profonde, quasi scioccanti.

MACE intervista al ROBOT Festival

MACE al ROBOT Festival, foto di Kevin Spicy.

Qual è il collegamento tra sostanze e spiritualità?
Scopri, o almeno io ho preso coscienza, di non essere solamente un corpo fisico. E quello direi che è proprio la base, del concetto di spiritualità, cioè accettare che il corpo fisico è una parte dell'esperienza, non è tutto, c’è ben altro. E tramite certe esperienze arrivi proprio a sentirlo, non è come quando io te lo racconto, che tu ci credi perché ti piace crederci: lì lo senti. 

Dato che tu hai sentito questo “altro” rispetto al corpo, e credi che esista, pensi che chiunque possa arrivare a questa scoperta?
Questo è un argomento interessante, su cui ho letto teorie diverse. Tipo che essendo sostanze usate da chi ha già latenti queste convinzioni non fa altro che convalidarle. Se invece lo facessi provare… [fa una pausa]

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A uno scettico?
Stavo per fare il nome di un rapper perché mi faceva ridere, ma diciamo uno scettico. Ecco, con uno che ha forti resistenze non so che succederebbe. Anche se credo che comunque un po' tutti dentro ce l'abbiamo, pure i materialisti più convinti, quell’idea che forse non siamo solo il corpo fisico che percepiamo. A volte mi sembra che gli scettici quasi si auto-impongano di esserlo, è come se dovessero indossare questa armatura, perché poi, di base, quando ammetti che non c’è solo il mondo fisico, parte una voragine di domande alle quali probabilmente non darai mai una riposta.

Hai detto di aver avuto la prima esperienza extracorporea molto presto.
Lo so dalle parole di mio padre, che mi ha sentito raccontare l’operazione che ho fatto quando avevo 5 anni, in anestesia totale. Io non ne ho ricordo, mentre lui più avanti mi ha spiegato che, una volta sveglio, gli ho raccontato delle cose che era impossibile che sapessi, compresi dialoghi tra lo staff medico. Credo volesse alludere al fatto che lui sa che ce l’ho sempre avuta, quella cosa lì. Quella curiosità per l’oltre.

Secondo te la morte, o comunque quello che c’è oltre l’esistenza come la conosciamo, è l’ultimo tabù rimasto?
Probabilmente sì. Viviamo in un società il cui pensiero è quasi del tutto modellato dalla scienza, dalla razionalità, anche se poi parlando con le persone mi rendo conto che sono sempre di più quelle che all’oltre ci credono. Però forse è anche la mia bolla. O la mia bolla allargata. O il fatto che persone che la pensano in modo simile in un certo senso si attraggono, si cercano. Però sì, è un tabù, nella misura in cui è estremamente difficile inserirlo in una conversazione, senza far scattare reazioni di rifiuto o diffidenze. Sicuramente a me fa stare meglio credere che ci sia qualcosa a cui non possiamo dare spiegazione, e come a me credo a tantissime altre persone che però non ne parlano apertamente.

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E, aggancio tremendo, qual è secondo te la spiegazione di un successo (“La canzone nostra”, per intenderci, è triplo platino) come quello di OBE?
La gente non ci crede, ma io davvero ero convinto che questo disco non l’avrebbe ascoltato nessuno. Okay, ha dentro tanti nomi grossi, quindi ipotizzavo che avrebbe attirato l’attenzione, ma poi se una roba non piace, uno molla. Dato che sapevo che stavo facendo una roba diversa da quello che va mediamente in Italia, ero teso, pensavo potesse essere troppo rap per i più grandi, troppo stratificato rispetto alle cose che ascoltano gli adolescenti.

L’estate 2020 è stata difficilissima, mi sentivo sovraccaricato da questa cosa e avevo anche dei problemi personali, quindi, eccolo, il momento buio di cui ti dicevo prima. Poi un giorno con i golden teacher mi si è sbloccato tutto: ero in mezzo alla natura in questo stato di alterazione e sono scoppiato a piangere a dirotto, poi il pianto è diventato una risata fragorosa e ed è come se mi si fosse tolto un tappo di stress e di dolore dal petto. Da lì ho realizzato che stavo facendo una cosa come piace a me, a mia immagine e somiglianza, e la chiave è giusto che sia questa, e mi sono detto come andrà andrà, sti cazzi. Ho realizzato quanto ci carichiamo di problemi ancora prima che esistano e mi rendo conto che sono cose che si banalizzano nel momento stesso in cui le dici, ma quando le senti, quando ti scattano dentro, cambiano tutto. 

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Come fa OBE ad essere a tua immagine e somiglianza anche se ha così tante voci dentro?
Ma le voci sono come strumenti. E tanto quanto un regista gira un film ma non recita, a volte non firma la sceneggiatura e non monta le scenografie, ma alla fine quella è la sua emanazione, così, traslato in musica, è per me OBE. Chiaro che non ho detto al rapper che cosa scrivere, ma col rapper ci ho passato tutto un pomeriggio assieme. E in più ho dato a tutti delle musiche che non sono solo suono, ma che hanno un connotato emotivo molto forte dentro. 

Avevi paura che ti potesse arrivare qualche testo che ti avrebbe messo in difficoltà?
Sì, sì, alcune cose le ho fatte cambiare, tanto che credo sia l’unico disco rap dove non c’è la parola troia. Altre cose le ho scartate, ho almeno sei, sette pezzi, alcuni quasi finiti, che alla fine ho deciso di non mettere, proprio perché non trovavo fossero all’altezza a livello di scrittura. C’ho messo un po’ a capire come far trapelare la mia personalità attraverso la penna di altri, però in una certa maniera ci sono riuscito. Quasi tutti i pezzi parlano di temi che si sono snocciolati insieme agli artisti che li cantano, di cui abbiamo parlato insieme.  

MACE intervista ROBOT Festival con Gianpace

MACE e Gianpace al ROBOT Festival, foto di Kevin Spicy.

Oggi c’è OBE, ma il tuo primo disco è del 2003 a nome La Crème, il duo in cui come produttore affiancavi il rap di Jack The Smoker, e in mezzo l’elettronica prima col collettivo Reset! poi con RRRiot. E se ricucito a infilare pure una hit come “Pamplona”. Se ti guardi indietro in questi vent’anni di musica, pensi di avere avuto dei mentori?
Assolutamente: Bassi Maestro e Fritz Da Cat. A parte che i loro dischi quando ero ragazzino me li sono consumati, ma poi hanno da subito dimostrato stima e approvazione per la mia musica. La cosa speciale, però, è che siamo diventati e rimaniamo, ancora oggi, grandissimi amici. Quello che loro hanno fatto con me, io cerco di farlo con i ragazzini oggi: quando vedo uno che è bravo, io glielo dico, gli scrivo, perché so che a me, sentirmi dire che spaccavo, ha fatto molto bene. Poi non ho la presunzione di pensare che i talenti emergenti abbiano necessariamente bisogno di me, io glielo dico perché mi fa piacere farlo, perché l’autostima è importante e fragile. Prendi Sfera: io l’ho invitato nel mio studio molto prima che esplodesse, ma non per chiedergli il pezzo insieme, ma per la bellezza di incontrare chi in quel momento, insieme a Charlie Charles, in Italia stava facendo delle cose fighissime. Quindi i miei mentori, che sono anche alcuni dei miei più cari amici, sono stati cruciali in questo lungo viaggio e loro lo sanno che gliene sarò sempre grato.

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Un’altra figura fondamentale è stata Philippe Zdar dei Cassius, la persona che ha reso possibile l’espatrio di Reset! fuori da confini nazionali. Dopo una serata a suonare insieme a Milano, infatti, è nata un’amicizia che, come spesso mi accade, è andata di pari passo ad una collaborazione artistica molto figa, con tantissime date insieme in giro per il mondo. Philippe mi ha insegnato tantissimo, sulla musica, su come approcciare la pista da ballo, ma non solo, e ho sofferto molto quando ho saputo che se n’era andato.

Invertendo i ruoli, che cosa hai visto, invece, in Blanco?
Blanco ha un talento esplosivo, ho sentito “Notti in bianco” e l’ho ascoltata dieci volte di seguito, cosa che non faccio mai con una canzone italiana moderna. Ho proprio detto: “Wow, questo è potentissimo, lo voglio chiamare.” Di Blanco mi ha colpito la scrittura melodica pazzesca, la voce pazzesca, e il fatto che scriveva delle robe a 17 anni che riuscivano a piacere a me, che ho 20 in più di lui. Poi lo vedi, e dici vabbè, allora è perfetto, ce le ha tutte. Così l’ho chiamato, ma ho voluto tirare fuori di brutto la sua vena romantica, e togliergli, per il mio disco, quella venatura pop punk che non mi interessava. 

Quindi è stato un intuito tuo capire che avrebbe potuto fare anche quella cosa?
Sì, anche se mi viene da dire che era sotto gli occhi di tutti che la sua forza devastante non è saper fare il pezzo tirato, ma saper scrivere melodie e saper usare la voce. L’ho portato in un territorio per lui inedito, l’ho decontestualizzato e lui è stato molto bravo. Ma comunque non penso di essere un suo mentore.

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No?
Ma mentore è una parola importante, è un lavoro a tempo pieno, le persone che ti ho citato sono state sempre presenti nella mia vita. No, spero di aver dato a Blanco degli input e di averlo aiutato a capire quali, secondo me, sono i suoi veri punti di forza, stop.

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Salò al ROBOT Festival, foto di Richard Giori.

Siamo a un festival che sta per iniziare e il programma è fitto, quindi ultime domande: tu hai deciso di non fare date quest’estate?
Io non farò live quest’estate. Per me era troppo limitante l’idea dei posti contingentati, le sedie, le mascherine… No, non era il tipo di esperienza che volevo dare alle persone che vogliono venire al live di OBE.

E se non ci fossero state restrizioni, come sarebbe stato?
Lo scoprirai l’anno prossimo. 

Smani più il ritorno in console o un viaggio?
Un viaggio. Mi manca da morire. Per fortuna sono riuscito a viaggiare fino all’ultimo secondo, perché sono stato a gennaio 2020 in Mozambico con Gemitaiz. Tra poco, uscirà anche il documentario Quello che resta su Vimeo, visibile con un piccolo contributo: tutto il ricavato andrà alla Coopi, una ONG che lavora là. Da lì sono andato in Marocco con Venerus ed alcuni amici a finire delle parti del suo disco e mentre eravamo lì la gente commentava i post dicendo “ma siete scappati dal virus”, e noi non avevamo idea di che cosa stessero parlando, completamente ignari. Tornati, pistoletta per la febbre alla tempia e bagno di realtà. 

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E il lockdown?
Non vorrei riviverlo, ma rispetto ad altri che hanno sofferto tanto, ma davvero tanto, sono stato bene. “Canzone per un amico” con Venerus l’abbiamo fatta proprio basandoci su uno dei milioni di racconti di disagio fortissimo. Ma se ci pensi la stasi è un sentimento difficile da governare, ti logora, forse mi sono salvato perché avevo il disco da fare e andavo tutti i giorni in studio, senza OBE chissà che ne sarebbe stato di me. 

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ROBOT Festival, foto di Richard Giori.

A questo punto il richiamo di un altro dei grandi amici di Mace, ovvero Giulio Fonseca, già Go Dugong, oggi Gianpace, che aveva attaccato il suo live set a La Baia, ci ha fatti schiodare dall’area Officina dove lo staff del Robot ci ha ospitati e riveriti per due ore 31 mila battute. Mentre risuonava in tutto il DumBO ‘Golden Teacher’, pezzo composto propri insieme a Mace che anticipa il primo lavoro di Giulio nella nuova forma di Gianpace, ci siamo incamminati, in quell’atto sacro che è l’avanzata, un po’ brilla, verso un festival, ed è li che c’è stato il click del ritorno alla normalità, che ognuno ha sentito e gestito, senza troppa retorica, senza chissà che sciorinati. Lo sapevamo, tra di noi e tra gli sconosciuti, che stava succedendo una cosa grossa, ma era tutto così giusto e bello che non avevamo nemmeno voglia di parlarne, ma piuttosto di fare come se questa vita popolata di persone e musica non si fosse mai interrotta.

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Gianpace al ROBOT Festival, foto di Costantino Bedin.

E forse ne siamo davvero usciti migliori, perché pure se c’erano 38 gradi di pura umidità, nessuno ha nemmeno accennato al caldo, ma solo del benessere che stava infondendo il live di Giulio, in cui l’ambient si mischiava alla cosmic music, con echi di chitarre slide fine '60, per farci entrare in un mondo lisergico e fare un viaggio mentale come si deve. Da quella morbidezza, siamo passati (non senza aver apprezzato le sberle di Filibalou, che aveva dato il cambio a Gianpace) ci siamo immersi nell’oscurità di Binario Centrale, dove Donato Dozzy, in console insieme a Neel e Filippo Scorcucchi, stava tenendo inchiodate alle sede un centinaio di persone, perse dentro la costruzione di un live viscerale, fiero, scurissimo e materico.

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Donato Dozzy, Neel e Filippo Scorcucchi al ROBOT Festival, foto di Richard Giori.

Ma ormai era arrivata mezzanotte, quel momento in cui tra un “ne prendiamo un altro” e “sta arrivando Cosmo” ci si è iniziati inevitabilmente a sparpagliare, con un ultimo saluto sul dance floor del cuore della ripartenza di Robot, che era La Baia, dove c’è stato concesso di celebrare, senza sbragarla, il ritorno della musica live, con un’unica, grande certezza: seduti o in piedi, balliamo sempre di merda.

Qualche giorno dopo, m’è arrivato il commento finale di MACE alla serata: “ROBOT è stata la prima esperienza di festival dopo tanto tempo ed è stata molto intensa. La location è affascinante: è industrial ma mantiene il suo calore. La lineup molto ricercata, mi è piaciuto il set super mistico di Gianpace, che, sarò di parte, ma credo sia riuscito a creare un’atmosfera sospesa, e non vedo l’ora di ascoltarlo in mezzo ad un bosco. Donato Dozzy, Neel e Filippo Scorcucchi che hanno fatto un set che per me è stata “techno metafisica”, molto interessante. Ma forse i miei preferiti del festival sono stati i Tamburi Neri, che non solo hanno fatto un set fenomenale, ma hanno anche fatto nascere un party. Mi sono dato appuntamento con Cosmo sotto cassa e ce lo siamo ballato insieme tutto. Fighissimi, sono riusciti a fondere un’elettronica dalle venature sciamaniche e l’energia di un DJ set vero e proprio.”

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Tamburi Neri al ROBOT Festival, foto di Costantino Bedin.

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