cucina Arbëreshë calabria
Tutte le foto di Nathan Hinze
Cibo

Il miracolo della comunità di origine albanese nel sud Italia, e la pasta calabrese quasi scomparsa

In Calabria e in altre zone del sud resistono dei miracoli culturali e gastronomici: le comunità Arbëreshë, albanesi emigrati più di 500 anni fa.

È questa discendenza che mi ha portata negli ultimi anni a scoprire di più sulla cultura Arbëreshë e a non identificarmi semplicemente come “di origine calabrese”

C’è una minoranza etnolinguistica in Italia che rappresenta un esempio di pacifica integrazione e convivenza. Pier Paolo Pasolini la definì addirittura come un “miracolo antropologico” nel 1975, come si legge sul sito dell’Abanian Insitute New York. 

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Sono gli Arbëreshë, la comunità di Albanesi emigrati dall’Albania, e dalla Morea e dalla Ciamuria, zone dell’odierna Grecia, in Italia tra il XV e il XVIII secolo a causa delle invasioni Turco-Ottomane, durante le quali trovò la morte Giorgio Castriota Scanderberg, eroe nazionale Albanese.

Oggi questa minoranza etnolinguistica è concentrata soprattutto in Calabria, ma sono più di cinquanta i villaggi sparsi nel sud Italia tra Puglia, Basilicata, Campania, Molise e Sicilia. Scanderberg, infatti, intratteneva buoni rapporti con il Regno di Napoli, e fu proprio Alfonso V d’Aragona a concedere agli Albanesi territori e feudi in cambio delle loro prestazioni militari.

Io discendo proprio da una di queste famiglie che, più di 500 anni fa, furono obbligata a fuggire dal proprio paese e a rifugiarsi sulla cima di una montagna calabrese. È difficile anche per noi dire cosa nella comunità Arbëreshë sia italiana o albanese; da un lato l’integrazione di secoli ci rende assolutamente italiani, dall’altra siamo riusciti a conservare un’identità culturale molto importante. È proprio questo il “miracolo antropologico” di cui parla Pier Paolo Pasolini. 

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Uno dei piatti della cucina Arbëreshë calabrese. Foto di Nathan Hinze

E ovviamente questo fenomeno d'interscambio culturale è palese anche nella nostra tradizione culinaria, che rischia però di sparire, insieme agli abiti colorati, le danze in strada, il rito religioso Greco-Bizantino che ancora oggi si sente passando davanti alla chiesa quando c’e la messa. Senza contare lo spirito di libertà e di resilienza di quella gente che, non per scelta, ha dovuto lasciare casa sua, che alberga in ognuno di noi.

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Cos’è la cucina Arbëreshë

La cucina Arbëreshë è una cucina povera ed essenziale, ma con un tocco mediterraneo: erbe selvatiche, minestre, torte salate, verdure, carni e tanta pasta. È proprio su quest’ultima che ho deciso di porre la mia attenzione, la pasta. Infatti da qualche tempo ho intrapreso un progetto indipendente proprio su questo alimento: The Pasta Magazine. Dopo aver perso la mia attività a Edimburgo a causa della pandemia, ho deciso di reinventarmi e ripartire dallo studio e la divulgazione; non solo ricette di pasta, ma anche il suo lato squisitamente culturale.

E per iniziare il racconto sulla pasta e la cucina Arbëreshë, devo per forza tornare a Farneta, uno dei villaggi con minore densità di popolazione della Calabria, arroccato su un’altura che a oggi conta circa cinquanta abitanti. Qui è dove sono nati i miei genitori e tutti i miei antenati. È questa discendenza che mi ha portata negli ultimi anni a scoprire di più sulla cultura Arbëreshë e a non identificarmi semplicemente come “di origine calabrese”.

Farneta: il villaggio con 50 abitanti e le tagliatelle con la mollica dimenticate 

Farneta è una frazione del comune di Castroregio nella provincia di Cosenza. A Farneta non esistono negozi, né una farmacia o un ristorante. Però c’è il Bar di Ciccio, l’unico punto di ritrovo per i pochi abitanti rimasti.

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Il villaggio è fatto di case vecchie e querce, “Farne”, dal quale prende il nome il paese. Le galline sono libere per strada e i cani randagi hanno il loro punto di ritrovo davanti alla chiesa. Qui ho incontrato Edda, una cugina che vive a Farneta e che mi ha raccontato del piatto di pasta delle feste conosciuto anche come il Cibo dei Mietitori, perché abbastanza proteico e nutriente da fungere da alimento unico per chi lavorava nei campi. È una ricetta vecchia cinquecento anni.

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Le tagliatelle fatte a mano con la mollica del pane, o in Arbëreshë “Tumacë me drudhëzë”, sono un piatto che ha varie versioni, ma noi oggi abbiamo provato quella che si fa per la cena della Vigilia di Natale ovvero con mollica, sugo e baccalà. Il baccalà è considerato un cibo pregiato nella zona; essendo una località di montagna, non era facile da reperire in passato ed è per questo che veniva utilizzato in occasioni speciali come il Natale.

Il baccalà essiccato si mette a mollo in acqua e si fa riposare per tre giorni, cambiando l’acqua due volte al giorno. È un processo di cura e rispetto per gli ingredienti e si rispecchia anche nel modo in cui Edda cucina e ci racconta di questo piatto. Quando il baccalà è pronto va asciugato e porzionato per poi essere conservato nel congelatore e usato all’occorrenza.

Iniziando con l’impasto, Edda mi spiega che lei non misura niente. Per ogni persona mette un pugno di farina di grano duro, poi un uovo ogni quattro o cinque persone, che molti però non usano, ma dipende dalla ricetta di famiglia, e si continua aggiungendo acqua fino a che l’impasto non si rapprende. Poi si lascia riposare per mezz’ora. E mentre chiacchieriamo dei suoi ricordi in cucina da bambina, della sua famiglia e della sua casa Edda non si ferma un secondo. Cosi inizia col soffritto e poi aggiunge la passata di pomodoro, rigorosamente fatta in casa da Edda e da suo marito Vittorio. Poi si aggiunge il prezzemolo anche se alcune famiglie usano il basilico, specifica Edda.

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Mentre il sugo cuoce passiamo a preparare la mollica, la parte più’ importante e difficile di questo piatto. La preparazione della mollica è molto delicata perché non si può mai abbandonarne la supervisione e bisogna continuare a mescolare in continuazione in quanto potrebbe bruciarsi in pochi secondi. Si versa dell’olio in una padella con uno spicchio di aglio intero, che poi si toglie; si mette la mollica del pane raffermo sbriciolata, un pizzico di sale e due cucchiai di polvere di peperone crusco o come la chiamo io “paprika calabrese”, l’ingrediente segreto. Mentre Edda mescola e rimescola ogni tanto “pizzica” la mollica con le dita per vedere se è croccante.

Quando la mollica è pronta si spegne il fuoco e si sposta il preparato in un piatto freddo per fermare la cottura. Il sugo ancora cuoce e l’impasto ha riposato è arrivato il momento di stendere la pasta.

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Una volta che il sugo ha cotto è il momento di immergere i pezzi di baccalà e farli cuocere nel sugo per altri venti minuti o il tempo che ci serve per preparare le tagliatelle. Cucinare con Edda è un po’ come giocare a ping pong: dalla spianatoia ai fornelli, mescolare senza mai fermarsi e tornare alla sfoglia. Un’energia notevole per una donna di 70 anni. La lavorazione porta a delle striscioline irregolari che verranno poi cotte in abbondante acqua salata finché non saliranno a galla.

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L'autrice con Edda

Ora che la pasta è cotta e il sugo è pronto possiamo assemblare il tutto. Si procede usando uno di quei piatti antichi che solo le nonne ormai conservano gelosamente e si parte con uno strato di sugo alla base, si aggiungono le tagliatelle precedentemente scolate, poi ancora uno strato di sugo seguito dalla mollica di pane croccante. Cosi via si ripetono gli strati fino a finire tutti gli ingredienti.

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Il baccalà, infine, si serve in un piatto separato e mangiato dopo la pasta, come un secondo. Ci si siede a tavola e tra un boccone di tagliatelle, sugo e mollica dal retrogusto di baccalà. Accompagnato da un sorso di vino rosato naturale, ringrazio Edda e Vittorio per l’ospitalità e mi godo il pranzo.

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Sto ancora pensando a come questo piatto dal gusto semplice, ma ricco di preparazioni, abbia potuto resistere vivo nella cultura e nelle cucine della gente di Farneta per cinquecento anni.

Civita: il ristorante Arbëreshë Kamastra

Dopo Farneta, mi muovo con la mia famiglia verso Civita, un piccolo borgo incastonato nelle verdi montagne del Parco Nazionale del Pollino in Calabria. Il paese si chiamava precedentemente “Cossa” e fu distrutto nel 1456 da un terremoto. Venne poi ricostruito e rinominato Civita da rifugiati Albanesi nel 1471. Oltre a offrire meraviglie naturali come le Gole del Raganello, con il suo misterioso Ponte del diavolo, Civita è stata nominata come uno dei borghi più belli d’Italia ed è custode della storia e delle tradizioni della comunità Arbëreshë.

Il suo centro storico preserva ancora oggi delle caratteristiche uniche: osservando i tetti di queste antiche case in pietra, si notano particolari comignoli decorativi o “çimineret” con design molto diversi tra loro che in passato non solo comunicavano lo stato sociale delle famiglie che ci abitavano, ma avevano valenze religiose-pagane, in quanto “scacciavano i diavoli” ed erano di buon auspicio. I comignoli sono tutti diversi perché nessuna famiglia poteva esibire la stessa scultura.

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Ci sono altri dettagli medievali interessanti a Civita, come le case “Kodra”, le “case parlanti”. Questi edifici hanno sembianze antropomorfe: finestre come occhi, il comignolo a forma di naso. Il nome deriva dal pittore Albanese Ibrahim Kodra, amico di Picasso, che quando visitò Civita fu affascinato dal loro stile artistico, molto vicino al suo.

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Dettagli del ristorante Kamastra

Arrivo a Civita per assaggiare alcuni piatti di pasta della tradizione Arbëreshë ormai quasi scomparsi. A differenza di Farneta, Civita è molto più turistica e qui sono rimaste attività commerciali e qualche ristorante. Andiamo a mangiare alla Kamastra, uno dei ristoranti di Çifti, ovvero Civita in Albanese, che riutilizza lo spazio di famiglia del proprietario, l’avvocato e compositore di musica  arbëreshë Enzo Filardi, che una volta era una filanda.

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L'autrice con Francesco, lo chef di Kamastra

La missione di Enzo è una proposta gastronomica, legata al territorio e fedele alle risorse naturali locali, per una riscoperta delle tradizioni culinarie Arbëreshë. Un incontro tra i sapori antichi della Calabria e le influenze balcaniche conservate nella cultura di Civita, il “Paese delle Aquile”.

Shëtridhlat, Dromësat e i cavatelli con l’ortica del Pollino

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Arrivati da Kamastra guardo subito il menu: antipasti locali come il prosciutto crudo del Pollino, formaggi misti di capra e pecora e frittelle.

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Il menu dei primi propone diversi formati di pasta tipicamente civitese abbinati a sughi tradizionali, dove anche qui bisogna andare indietro nel tempo. Ordino subito i cavatelli alla Nenesa o “Strangùle me nenezë”: cavatelli fatti a mano conditi con una ricotta caprina fresca e “nenesa” ovvero un’erbetta orticacea del Pollino. Fra i primi troviamo anche i “filatelli” serviti o con pomodoro fresco e ‘Nduja o ai porcini campagnoli. Proviamo quelli alla ‘Nduja seppur consapevole questo piatto non sia completamente autentico della cucina arbëreshë, l’influenza è certamente più calabrese, ma essendo fan della ‘Nduja non resisto.

Il capretto “alla civitese” cotto in umido con l’alloro è molto famoso da queste parti, quindi decido che bisogna assaggiarlo. Ma poi mi ricordo di un piatto particolare che si chiama Dromësat che emerge sempre nelle mie letture di ricerca sulla cucina Arbëreshë che però non vedo sul menu, cosi chiedo allo chef se lui ne sa qualcosa e con un sorriso sul viso mi dice: “Torno subito!”. Siamo alla fine del servizio e nel ristorante ormai sono rimasti pochi tavoli. Francesco, lo chef, allestisce un piccolo angolo nel ristorante e inizia a raccontarmi dei vari formati di pasta Arbëreshë mentre mi fa vedere la sua tecnica.

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Per iniziare mi fa vedere come si fa il cavatello usando un pò d'impasto avanzato: ne assottiglia un pezzetto fino a renderlo lungo e affusolato, tagliandolo poi in piccoli gnocchetti che vengono infine arricciati tramite “raschiatura” usando due o tre dita. Il secondo formato, invece, sono i maccheroni al ferretto che vanno abbinati rigorosamente a un sugo di carne come il ragù o un sugo di cinghiale, piatti preparati anche alla Kamastra. 

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Gli altri due tipi di pasta che lo chef Francesco mi racconta sono la “shëtridhlat” e la “Dromësat”. Per il primo formato, partendo da una pallina d'impasto bisogna creare un buco centrale, quasi fosse una ciambella. L’impasto va lavorato con entrambe le mani che, bagnate con l’olio, faranno scivolare l’impasto tra una mano e l’altra fino a che non si allarga e si assottiglia, senza mai farlo rompere.

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Questo era il gioco, la gara che facevano le nonne, ci ricorda Francesco. Anticamente fare la pasta o il pane era un momento di ritrovo per le donne. Questa pasta si serve tradizionalmente con i fagioli cannellini e peperone crusco in polvere, ed è un po’ brodosa.

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La benedizione dei dromësat

La dromësat, invece, è “il piatto dei poveri”, considerato un piatto di archeologia gastronomica arbëreshë. Questo piatto ha un rituale, un passaggio magico, durante la preparazione che è la “benedizione” della farina: dopo aver steso la farina sulla spianatoia si inizia a “benedirla” usando un mazzetto di origano essiccato e immerso nell’acqua. Così riversandovi l’acqua a pioggia sulla farina, le gocce di acqua porteranno con sé anche un po’ di origano e daranno un gusto aromatizzato alla pasta.

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La farina verrà poi strofinata con le mani creando dei grumi che verranno infine setacciati per separarli dalla farina ancora asciutta. I grumi verranno poi cotti direttamente in un sugo di pomodoro molto semplice.

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Bisogna poi ripetere l’operazione fino a utilizzare tutta la farina, rendendola grumi. La versione per le feste, vede la dromesat sempre con base sugo, ma con aggiunta di salsiccia arrostita e sbriciolata e una spolverata di pecorino del Pollino a finire.

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Io e la mia famiglia ci siamo commossi quando abbiamo assaggiato questa piatto, soprattutto mia mamma che vive solo un vago ricordo del gusto della Dromësat preparate da sua nonna, quando era piccola.

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È strano pensare come la mia famiglia in realtá non abbia nessuna relazione personale con l’Albania; il legame esiste solo per via di parenti alla lontana. Ma nonostante questo le ricette sono ancora vive oggi, tramandate di famiglia in famiglia a voce, con qualche raro appunto su carta. È forse questo che rende la comunità Arbëreshë cosi unica e speciale.

Sono davvero poche le altre minoranze etno-linguistiche che sono riuscite a preservare la loro cultura e tradizione per così tanto tempo, ed è proprio per questo motivo si parla “miracolo antropologico”: un caso raro di conservazione di cultura e tradizione con conseguente trapasso di informazioni, lingua, ricette, religione ed usanze che è ancora viva soltanto grazie alla comunità stessa che ha saputo e voluto tutelarla e conservarla nel tempo.

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