​Marixa Lemus e sua sorella Mayra hanno trasformato la politica locale di Moyuta, vicino al confine tra Guatemala e El Salvador., in una faida
Illustrazione di Michelle Urra per VICE World News.
Attualità

La storia di ​Marixa Lemus, la ‘El Chapo’ del Guatemala

Sul confine tra Guatemala e El Salvador la politica locale è fatta di agguati, vendette, fughe dal carcere e traffico di droga.
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illustrazioni di Michelle Urra
Daniele Ferriero
traduzione di Daniele Ferriero
Milan, IT

Era il 18 febbraio del 2011 e Mayra Lemus stava pranzando all’hotel Los Cuernos a Ciudad Pedro de Alvarado, una città del Guatemala non lontana da El Salvador. Mancavano pochi mesi alle elezioni e la donna, che era nel pieno della campagna per le elezioni municipali, era riuscita a far incontrare diversi membri molto importanti della comunità.

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Secondo i testimoni, i presenti avevano a malapena finito gli antipasti quando sono arrivati due furgoni carichi di uomini armati con fucili a pompa e AK-47 che hanno ucciso otto persone, incluse Mayra e una delle guardie del corpo.

Marixa, la sorella minore di Mayra, era per strada e quando ha sentito i colpi degli spari è salita sulla sua auto intenzionata a correre verso lo scontro. Le guardie del corpo sono balzate in un’altra macchina e hanno cercato di fermarla, per evitare venisse uccisa anche lei.

Quando i sicari l’hanno vista arrivare hanno cominciato a sparare all’impazzata. Marixa sentiva i proiettili rimbalzare contro la carrozzeria rinforzata. Quindi ha fatto retromarcia per andare alla più vicina stazione di polizia. Secondo Marixa, gli agenti presenti avevano già saputo della sparatoria, ma si erano rifiutati di intervenire.

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Marixa Lemus nel 2014, trattenuta dalla polizia. È stata successivamente incriminata per rapimento e omicidio. Foto scattata a novembre del 2017. Foto: Carlos Hernández per Prensa Libre.

Quando Marixa è tornata da sola a Los Cuernos la sparatoria era ormai cessata e i sicari se ne erano andati. Il ristorante era stato devastato dallo scontro, e il corpo della sorella si trovava ancora a terra. “La faccia era devastata, giaceva in un lago di sangue,” ricorda Marixa. In zona, il brutale omicidio viene ricordato come “il massacro di Los Cuernos.” Eppure, la morte di Mayra non era poi così imprevedibile.

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“Era conosciuta come un’assassina. Erano tutti spaventati da lei. Decideva chi viveva e chi moriva,” ricorda un imprenditore del luogo. La leggenda racconta persino che Mayra ha ucciso il marito nella loro casa, per poi scaricare il corpo altrove. VICE World News non ha avuto modo di controllare la veridicità dell’accusa e del crimine, e la donna non è mai stata accusata o condannata per questo.

Tuttavia, il suo passato violento, e quello della sua famiglia, sono legati ad altre figure di potere locali. Perché a Jutiapa, nel sud est del Guatemala, c’è molto per cui combattere. 

L’autostrada della cocaina dell’America Centrale

L’America Centrale è l’autostrada della cocaina dell’America Latina. Qui si trovano alcune delle rotte principali per trasportare la droga a partire dalle zone di produzione, in particolar modo dalla Colombia. L’ho notato subito, quando sono arrivata a Ciudad Pedro de Alvarado a marzo del 2021 per fare alcune interviste. C’erano dozzine di grossi camion incolonnati in attesa di passare il confine verso El Salvador. Altri facevano il percorso inverso, da El Salvador verso il Guatemala.

Il costante movimento sul confine di prodotti legalmente in commercio fornisce la copertura ideale per il traffico di droga. Molta cocaina passa attraverso questo fondamentale crocevia, nascosta nelle cabine, nei vari scompartimenti o tra i prodotti. La cocaina viene portata al nord e i profitti vengono nascosti nei camion in direzione contraria. Ma sia i magistrati locali che quelli di Ciudad de Guatemala, specializzati in narcotici, sostengono che ci sono troppi camion da ispezionare.

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Il controllo di questi hub del traffico di cocaina è molto redditizio per piccoli clan locali, quelli che vivono nelle città lungo la rotta e sono coinvolti nel traffico. Le alleanze tra agenti e trafficanti di droga tendono a variare: alle volte le autorità si limitano a tassare i gruppi criminali per farli passare senza controlli, ma in altri casi la linea di demarcazione tra i due gruppi tende a farsi più sottile, o a svanire del tutto. Spesso il potere criminale e quello politico tendono a sovrapporsi.

In più, l’ubicazione geografica di Ciudad Pedro de Alvarado implica che il Cartello messicano di Sinaloa, così come i gruppi di trasporto provenienti dall’Honduras e i produttori colombiani, abbiano interessi e siano presenti. “In sostanza, conviene essere un assassino. Qui si vince il rispetto altrui grazie al numero di cadaveri prodotti. Da quegli omicidi deriva il vero potere. Funziona così, non c’entra nulla quanto sei acculturato, ma solo quante persone uccidi,” spiega l’imprenditore.

Di conseguenza, la politica locale nelle enclavi di confine come Ciudad Pedro de Alvarado e la vicina Moyuta sembra essere simile a uno sport da combattimento. Quando Mayra è stata uccisa, la famiglia Lemus era una delle sole due contendenti alla vittoria per il posto da sindaco. Magno, il fratello di Mayra e Marixa, è stato il sindaco del posto fino alla morte per attacco di cuore nel 2009.

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Non era la prima volta che qualcuno cercava di attentare alla vita di Mayra. Nel giugno del 2006, alcuni sicari avevano aperto il fuoco su un veicolo che trasportava diversi membri della famiglia Lemus, inclusi Mayra e Magno. Entrambi erano riusciti a sopravvivere, ma non la nipote—Jennifer, la figlia di 17 anni di Marixa, morta insieme ad altri membri della famiglia.

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Croci dedicate all'attacco al clan Lemus nel giugno del 2006. Foto: Deborah Bonello / VICE World News

L’attacco era avvenuto sull’autostrada vicino a Moyuta, e ancora oggi è possibile trovare il memoriale eretto dalla famiglia in onore delle sue vittime, con le croci conficcate nel terreno sotto a un arco di pietra per proteggerle dal maltempo. Manca la croce con il nome di Jennifer e nel terreno sembrano esserci i segni di una croce strappata. All’epoca, la famiglia Lemus stava facendo campagna elettorale per la candidatura di Magno. E avrebbe poi vinto.

Le immagini dei corpi di Jennifer e Mayra sono marchiate a fuoco nella memoria di Marixa. Gli autori del crimine rimangono oscuri, ma lei dà la colpa del massacro del ristorante a una persona ben precisa: Roberto Marroquín Fuentes, la nemesi politica dei Lemus.

Secondo alcuni resoconti tratti da documenti provenienti dall’ufficio del pubblico ministero, Fuentes è uno dei principali sospettati nelle indagini riguardanti l’omicidio di Mayra, nonché suo rivale nella corsa del 2011 a sindaco di Moyuta, nel dipartimento di Jutiapa. Marroquín, che ancora oggi è il sindaco di Moyuta, sostiene di non aver niente a che fare con l’omicidio di Mayra e di aver collaborato alle indagini.

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Afferma inoltre di aver agito sempre e soltanto in difesa di se stesso e che la famiglia Lemus lo odia a causa della sua popolarità. Marroquín non è mai stato arrestato o imputato per l’omicidio. “Ci si crea la propria strada e stile di vita. Tutto questo è successo perché non ha saputo gestire se stessa e per aver peccato di ambizione,” ha poi detto a una stazione televisiva locale dopo la morte della donna.

Dopo l’omicidio, Marixa ha sostituito Mayra nella corsa elettorale e, nel tentativo di accrescere le possibilità di vittoria, si è alleata con un altro rivale politico (e criminale) di Marroquín: Rony Rodriguez. Rodriguez era l’unico in grado di battere Marroquín nella corsa elettorale. E non si trattava nemmeno dell’unico terreno di scontro: diversi testimoni hanno affermato che Rodriguez aveva preso anche il controllo delle rotte locali del traffico di droga dopo la morte di Magno Lemus nel 2009.

Rodriguez però non era destinato a prevalere. Qualche mese dopo la morte di Mayra, a luglio del 2011, anche lui è stato ucciso a Moyuta. Marroquín ha poi vinto la corsa elettorale con il doppio dei voti rispetto a Marixa. Secondo Marroquín, la sua vittoria l’avrebbe fatta arrabbiare moltissimo, tanto che lei avrebbe provato a ucciderlo in tre diverse occasioni.

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Secondo fonti locali, la sua macchina è stata attaccata da alcuni sicari a novembre del 2013, e un mese più tardi, su un ponte che aveva l’abitudine di attraversare per tornare a casa, sono stati piazzati degli ordigni. La bomba non è esplosa e la polizia locale, che apparentemente era in combutta con i criminali, se n’è andata lasciando alcuni Ak-47 e almeno una granata. Marroquín è uscito illeso da entrambi gli attacchi.

Al terzo tentativo di omicidio Marixa si trovava già in carcere, arrestata ad aprile del 2014 con l’accusa di rapimento e omicidio—incluso l’omicidio del marito, da lei negato. Durante l’ultimo attacco a novembre del 2014 gli assalitori sono riusciti a ferire Marroquín, nonché la moglie e le guardie del corpo. Nonostante Marixa sia in prigione, Marroquín la incolpa per l’accaduto.

Oggi, a diversi anni di distanza, la battaglia per il controllo di Moyuta non è ancora giunta a una conclusione. Il fratello di Marroquín, Jorge Mario Marroquín Fuentes, è entrato nei libri di storia di El Salvador quando è stato arrestato a maggio del 2017 con quasi una tonnellata di cocaina—che stava trasportando su una barca da pesca ad Acajutla, nel dipartimento di Sonsonate, una città costiera a due ore di distanza da Moyuta. Secondo il comandante della marina di El Salvador, si tratta del sequestro di cocaina più grande di sempre nel paese.

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“Prima i narcotrafficanti non avrebbero mai partecipato alle elezioni, si sarebbero limitati a finanziare la campagna elettorale e scegliere il candidato. Ora, invece, i sindaci gestiscono direttamente il traffico di droga,” sostiene Gerson Alegría, procuratore a capo delle indagini sul traffico di droga in Guatemala.

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Marixa Lemus Perez. Illustrazione di Michelle Urra per VICE World News.

Quando gli domando delle violenze tra il clan dei Lemus e quello dei Marroquín, mi risponde: “Si tratta di uno scontro relativo al controllo del territorio.” Alegría sostiene che la protezione di Marroquín sia dovuta, entro certi limiti, al fatto che è ancora in carica. Marroquín, dal canto suo, sostiene di essere una vittima del sistema, che vuole sbarazzarsi di lui a causa della sua popolarità e delle buone azioni. “Se fossi un narcotrafficante non farei il politico. Mi nasconderei,” mi spiega.

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Marixa odia trovarsi in carcere. Grazie ai suoi tentativi di fuga, si è guadagnata l’appellativo di “El Chapo” al femminile. “Ci sono così poche persone ad esserci riuscite anche solo una volta. E lei invece ce l’ha fatta per due volte, di cui la seconda in una prigione militare. Come ci è riuscita?” mi chiede il mio tassista, mentre mi porta alla prigione dove Marixa è attualmente detenuta.

La prima fuga di Marixa è avvenuta nel maggio del 2016, con l’aiuto di altri prigionieri per scavalcare uno dei muri. Alla seconda occasione, a maggio del 2017, è riuscita a scappare dalla prigione militare di Mariscal Zavala: è uscita indossando l’uniforme di una guardia, per poi salire su una macchina in attesa. Quando le autorità l’hanno rintracciata due settimane più tardi nel Salvador, aveva tinto i capelli di rosso. La sua cattura è diventata un fenomeno mediatico e persino il presidente in carica, Jimmy Morales, ha finito per tweetare sull’argomento.

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Secondo una fonte, durante entrambe le fughe dal carcere Marroquín è rimasto in attesa e sul chi vive. “Si atteggia a grand’uomo quando è con le guardie del corpo, ma è molto spaventato da Marixa. Quando è scappata per la seconda volta, non è uscito di casa fino al momento della cattura.” Quando l’ho raccontato a Marixa durante la nostra conversazione alla prigione femminile di Santa Teresa, non ha nemmeno fatto finta di nascondere la propria soddisfazione.

“So che [Marroquín] è terrorizzato da me perché sono una donna che ha preso le redini del potere, e perché mi vendicherò e vendicherò la mia famiglia,” ribatte Marixa, sui quarant’anni, che durante la nostra conversazione ha oscillato tra una determinazione d’acciaio e le lacrime. Ha pianto mentre parlava del tempo speso in isolamento—una conseguenza dei tentativi di fuga. “Una parte di me sta morendo qui dentro,” dice. E le lacrime tornano mentre ripensa a Jennifer.

“Roberto [Marroquín] non era nessuno. Un semplice pescatore. Noi, invece, eravamo una famiglia con un nome e una storia. La gente ci conosceva e rispettava,” afferma. Tuttavia, Marixa nega di aver mai provato a uccidere Marroquín. “Si tratta di auto-atentados,” afferma, suggerendo che sia stato lui stesso a inscenare gli attentati.

Anche un’altra fonte a Ciudad Pedro Alvarado sostiene la stessa cosa e, quando lo ripeto a Alan Ajiatas, il vice di Alegría che lavora all’anti-narcotici, replica: “[Marroquín] ha spiegato di aver comprato macchine a prova di proiettile come conseguenza degli attentati alla sua vita. Non è improbabile.”

“Quando sono scappata da Mariscal, ha detto che ero una donna pericolosa e che era costretto a raddoppiare la sicurezza,” ribatte Marixa. “Ha sparlato e macchiato il nome della mia famiglia, ma lui stesso è coinvolto.” Mentre parliamo, mi mostra alcune cartelle di documenti che sta preparando per il suo avvocato, dicendomi che sta ancora cercando di riavere la sua libertà: “Voglio riaprire il mio caso.”

Julie Lopez ha contribuito a questo articolo.

Questo lavoro è stato supportato dall’International Women’s Media Foundation.

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