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Attualità

Perché crediamo alle teorie del complotto?

Le teorie del complotto permeano ogni strato della società: ma perché ci crediamo, e qual è la loro storia? Un estratto da 'Complotti!', il nuovo libro di Leonardo Bianchi.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Il testo di seguito è un estratto da Complotti! Da QAnon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto, il nuovo libro di Leonardo Bianchi edito da Minimum Fax. Leonardo è news editor di VICE, e qui riproponiamo il passaggio con cui si apre la sua esplorazione del complottismo contemporaneo.

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L’idea generale sui complottisti, che chiunque si è fatto consultando i media o la cultura popolare, è piuttosto univoca: si tratta di persone disturbate, ai margini della società, che vanno in giro con cappelli di carta stagnola in testa o pensano di essere inseguiti da elicotteri neri—un po’ come Mel Gibson nel film del 1997 Ipotesi di complotto

Un assunto del genere conforta la maggior parte delle persone: noi non siamo come loro. Da una parte, come affermava il politologo statunitense Richard Hofstadter nel celebre Lo stile paranoide nella politica americana, c’è una “piccola minoranza” segnata da “accesa esagerazione, sospettosità e fantasia cospiratoria”; dall’altra ci sono individui altamente razionali e istruiti, del tutto immuni da certe derive.  

Peccato che la faccenda sia molto—ma molto—più sfumata di così. Come hanno rilevato diversi sondaggi e studi […], le teorie del complotto permeano ogni strato della società e si distribuiscono più o meno equamente sullo spettro demografico, socioeconomico, occupazionale, di genere, culturale e ideologico. 

A riprova di ciò basti pensare al fatto che molti uomini di potere fanno—e hanno fatto—un ampio ricorso alle teorie del complotto; e questo atteggiamento non riguarda solo populisti di destra radicale alla Donald Trump o autocrati alla Jair Bolsonaro, ma figure storiche insospettabili come Winston Churchill e Abraham Lincoln. 

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Del resto, le teorie cospirative sono davvero inestricabili dalla politica. Nel senso che, come sostiene sulla Boston Review il professore di storia intellettuale Nicolas Guilhot, vanno a colmare la “mancanza di visione politica” e “costruiscono ponti” (magari non solidissimi) per attraversare un “presente catastrofico.” 

Insomma: se davvero credere in una teoria del complotto fosse l’indicatore di una patologia mentale, scrive Jan-Willem van Prooijen in The Psychology of Conspiracy Theories, “allora vivremmo in una società altamente patologica.” Ma così non è; come puntualizza Rob Brotherton,

Non esiste un “noi contro loro”. Esistiamo solo noi. Loro sono noi. Noi siamo loro. Presentando il complottismo come un bizzarro tic psicologico che affligge le menti di un manipolo di pazzi paranoici, ci assolviamo con aria di sufficienza dai pensieri sconclusionati che siamo così pronti a vedere negli altri.

La propensione a credere in una teoria del complotto è universale: tutti, almeno una volta nella vita, siamo finiti nella “tana del Bianconiglio”—ci siamo convinti dell’esistenza di qualche cospirazione fittizia. 

I motivi sono vari. Anzitutto, argomenta sempre Brotherton, le teorie del complotto “rendono spiegabile l’inspiegabile” e “la complessità comprensibile”, riuscendo a “lastricare una realtà caotica, sconcertante e ambigua con una spiegazione semplice: la colpa è loro.” 

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La funzione ordinatoria del cospirazionismo crea una “rete di credenze” che si autosostentano, visto che “tutte [le teorie] si confermano reciprocamente”; una volta che si accetta una cospirazione si spalancano le porte alle altre, pure a quelle in contraddizione l’una con l’altra.

Curiosamente, i rimandi incrociati—presenti soprattutto nei testi complottisti, solitamente zeppi di note e ricchi di bibliografia—sono un palese scimmiottamento dello stile accademico, che per il resto è osteggiato in maniera radicale. 

Secondo il professor Michael Butter, questo tipo di emulazione ha a che fare con la “riemersione della storia”: le teorie del complotto facevano parte della “scienza” del Diciottesimo e del Diciannovesimo secolo, e aderire a esse era socialmente accettabile. Ora, per l’appunto, non lo è più. I complottisti vogliono comunque risultare credibili, e dunque imitano lo stile di chi detiene il potere culturale e scientifico.

Nonostante ciò, dice Brotherton, le teorie del complotto rimangono “un prodotto della fantasia di qualcuno” che diventa popolare quando si allinea con l’immaginazione di altre persone. E la nostra immaginazione è “soggetta ai vincoli imposti dalla nostra psicologia.”

Anche van Prooijen—insieme ad altri studiosi—ritiene che le teorie del complotto affondino le loro radici in processi psicologici e cognitivi sviluppatisi perché comportavano un vantaggio evolutivo, e che questi processi solitamente siano amplificati da sentimenti negativi quali la paura e l’insicurezza. Tra i principali figurano la propensione a scorgere (o creare da zero) degli schemi ricorrenti in quelle che sono delle coincidenze; l’attribuzione della capacità d’azione e di pianificazione a un gruppo ostile; e la gestione dei pericoli. Per Uscinski e Parent, le teorie del complotto fungono appunto da meccanismo di difesa per affrontare le minacce—reali o percepite come tali—verso un gruppo o un individuo. 

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Poi entrano in gioco vari bias, pregiudizi. Molte teorie fanno leva sul bias di conferma, che ci porta a selezionare solo le informazioni che collimano con le nostre convinzioni personali—ignorando quelle che le smentiscono o le mettono in crisi. 

Tante altre si fondano sul bias di proporzionalità, nella convinzione che a un evento di grande importanza debba necessariamente corrispondere una causa altrettanto grande. Il caso dell’omicidio Kennedy è paradigmatico: è davvero difficile accettare che una figura insignificante come Lee Harvey Oswald abbia alterato in maniera così dirompente il corso della storia.  

A ogni modo, ribadisce van Prooijen, il complottismo non è affatto ristretto a una dimensione puramente patologica e irrazionale; al contrario, può essere addirittura considerato “un aspetto naturale della condizione umana.” 

Non solo, come sottolinea la psicologa Karen Douglas, le teorie del complotto “soddisfano dei bisogni psicologici che in un dato momento sono irrisolti”; costituiscono pure, per usare un’espressione del filosofo Paolo Virno, il “doppio agghiacciante” dei periodi segnati da sconvolgimenti epocali: li pervertono e al tempo stesso li affiancano come un’ombra, contribuendo a plasmarne la memoria per le generazioni future. 

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La copertina del libro.

LE ERE DEL COMPLOTTISMO

In American Conspiracy Theories, Uscinki e Parent hanno provato a misurare la persistenza delle teorie del complotto nel corso della storia. Per farlo hanno analizzato più di 100mila lettere spedite al New York Times e al Chicago Tribune tra il 1890 e il 2010, ricercando al loro interno contenuti cospirazionisti.   

Da questo immane lavoro di ricerca è venuto fuori che le teorie del complotto hanno un andamento oscillante, che raggiunge i picchi più elevati in coincidenza dei cicli di grandi cambiamenti e grande incertezza. 

In particolare, la curva dei riferimenti alle cospirazioni schizza verso l’alto intorno all’anno 1900 e negli anni Cinquanta; ovvero durante la seconda rivoluzione industriale—che ha scombussolato tutti gli assetti di potere sociopolitici preesistenti—e l’inizio della Guerra Fredda, di cui il maccartismo incarnava la versione più paranoica nella sua inquietudine anticomunista.  

Anche se la ricerca è focalizzata sugli Stati Uniti, le sue conclusioni si possono estendere al resto del mondo occidentale. Come già accennato in precedenza, per molto tempo è stato perfettamente normale credere in una teoria del complotto—e spesso e volentieri la spiegazione ufficiale di un evento era a tutti gli effetti una teoria cospirativa. 

Questa prima fase, ricostruisce Michael Butter, parte dall’era moderna e finisce intorno agli anni Cinquanta. A quel punto, le teorie del complotto subiscono un “complesso processo di delegittimazione” che le porta—pur con eccezioni significative da paese a paese—a essere delegittimate e di conseguenza relegate ai margini del discorso pubblico o in specifiche subculture. 

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La seconda fase, però, dura solo qualche decennio. A cavallo del nuovo millennio la percezione sul complottismo si modifica di nuovo, e l’avvento di Internet—e poi dei social network—riveste un ruolo cruciale.  

Le teorie del complotto recenti, asserisce il politologo Rob Dacombe su The Conversation, sono caratterizzate “dal rapido cambiamento nelle modalità in cui comunichiamo” e dalla facilità con cui un singolo individuo può disseminare informazioni. La loro natura, dunque, si è fatta progressivamente più partecipativa; e in un contesto in cui la fiducia verso le istituzioni e la stessa democrazia è in calo, “questa nuova forma di partecipazione politica fornisce un’alternativa accessibile e coinvolgente rispetto a quelle più tradizionali.” 

La pandemia di Covid-19 ha accelerato al massimo questa tendenza, consolidando quella che per Butter è la terza fase, dove 

le teorie del complotto sono ancora stigmatizzate nella maggior parte dei paesi occidentali dalla scienza, dalla politica e dai media. Allo stesso tempo le subculture [complottiste] si sono ingrandite, hanno un loro ecosistema mediatico, hanno i propri esperti e un vero e proprio pubblico di riferimento. E questi due pubblici molto diversi tra loro si guardano con sospetto—uno è preoccupato dalle teorie del complotto, l’altro dai complotti.

In pratica, ci troviamo in una contingenza storica in cui le teorie del complotto sono simultaneamente rigettate e accettate. 

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Complotti! Da QAnon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto è edito da Minimum Fax. Tra i temi affrontati dal libro di Leonardo Bianchi: le teorie del complotto più diffuse sul coronavirus, viste anche attraverso i movimenti che le hanno adottate; altre teorie del complotto che negli anni si sono dimostrate particolarmente pericolose e letali; la storia di QAnon, il “supercomplotto” odierno per eccellenza.

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