Pasticceria sostenibile e stagionale
Foto di Alessandra Farinelli per gentile concessione di Mon Sciù
Cibo

Perché il concetto di stagionalità non esiste nella pasticceria?

Molti ristoranti dicono di lavorare esclusivamente con prodotti di stagione, ma quando si parla di dolci si rischia di mangiare fragole a dicembre.
Lavinia Martini
Rome, IT

Sembra che manchi un anello di congiunzione tra realtà agricole che fanno frutta e pasticcerie, che di frutta (ma anche frutta secca) fanno un utilizzo massiccio.

La mia generazione ha festeggiato i compleanni a Mimosa e Saint Honoré ed è cresciuta con il foodporn e il mito dell’oro verde, il pistacchio. Solo con l’avvento della pasticceria moderna le coscienze dei pasticcieri sono state mosse verso una nuova direzione: equilibrio degli zuccheri, qualità degli ingredienti, ripudio dei semilavorati. Nonostante questo, la pasticceria italiana sembra il settore che stenta a praticare un ideale concreto di sostenibilità, che includa la sfera ambientale, sociale ed economica di sviluppo dell’azienda. Prima di concentrarci sulla prima, vale la pena citare le aziende che hanno creato modelli inclusivi, come la Pasticceria Giotto che impiega i detenuti del Carcere di Padova, o Viva che ha offerto lavoro a donne vittime di violenza, o Frolla a Osimo dove lavorano ragazze e ragazzi con patologie fisico-mentali.

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Quando si parla di sostenibilità nella ristorazione, spesso si parla di spreco. E i pasticcieri non stanno facendo eccezione, puntando il dito contro gli scarti. A me sembra una visione un po’ miope che comincia dalla fine della filiera invece che dall’inizio: alcuni pasticcieri mi hanno confermato che nei loro laboratori non si butta via niente, anche per una questione di costi. "Da Too Good To Go, app di riferimento per il contrasto allo spreco di cibo, trasmettono un dato interessante. Premessa: su TGTG gli esercenti iscrivono le loro attività per caricare box con l’invenduto della giornata e rimetterle in vendita a prezzo conveniente. Dall’arrivo di TGTG in Italia (parliamo del 2019) le pasticcerie rappresentano il 7% delle attività aderenti. Nonostante questo il margine di miglioramento è importante: “l'app potrebbe rappresentare un aiuto concreto per contrastare lo spreco specialmente dopo le feste (Natale o Pasqua), periodi in cui vi è una produzione maggiore e soprattutto a tema, come panettoni, uova di cioccolato e altri dolci tipici del momento, prodotti ancora freschi che potrebbero essere sprecati perché, passata l'occasione, sarebbe difficile venderli” mi comunicano.

Quello che spesso non viene essenziale è capire quindi da dove arrivano le materie prime usate in pasticceria e come vengono impiegate. Qui facciamo i conti con una prima verità: alcuni ingredienti di base, come il cioccolato, il cacao e la vaniglia, in molti casi lo zucchero, escludono il Km0. C’è poi il tema della frutta e della filiera agricola, altro tasto dolente, misto a quello della stagionalità, che sembra un mistero anche per i pasticcieri più evoluti (episodio recente: “io seguo la stagionalità”, è Giugno e sul banco c’è un Mont Blanc, notoriamente fatto con le castagne). Aggiungiamo il largo impiego di ingredienti di origine animale e della plastica in laboratorio e abbiamo un primo quadro dei nervi scoperti del settore.

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Essere coerente con il concetto di stagionalità […] significa fare una fatica enorme anche in senso economico.

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Foto per gentile concessione di Eutopia

Per capirne di più abbiamo chiesto a persone che stanno lavorando per una pasticceria più sostenibile e stagionale. Gloria Luce è la proprietaria di Eutopia, che in greco significa “posto buono”, un laboratorio artigianale indipendente che non utilizza zuccheri raffinati: “Diventando mamma ho scoperto che tante cose, come il saccarosio, erano sconsigliate nell’alimentazione pediatrica. Allora ho studiato alimentazione naturale e macrobiotica e sperimentato con le ricette della mia famiglia. Da lì ho visto che cambiando gli ingredienti il risultato era ottimo”. La scelta delle materie prime è stata essenziale e impattante per Eutopia: “Ho deciso di non utilizzare conservanti e semi lavorati di pasticceria: facciamo tutto dalla A alla Z. Poi farine integrali e semi integrali, frutta di qualità, dolcificanti alternativi al saccarosio, come malti di cereali, sciroppo d’acero o sciroppo d’agave (poco), zucchero di cocco. Abbiamo due linee: quella delle ricette classiche e quella totalmente vegetale, che puoi assaggiare e non renderti conto della differenza.”. 

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Foto per gentile concessione di Eutopia

Non è tutto così semplice però: trovare fornitori locali che fanno frutta di qualità, di stagione e che sostengano i ritmi di una pasticceria (per quanto piccola) non è così ovvio. Sarà perché la frutta è un tema ignorato anche dalla ristorazione. Capita molto raramente di sentire associato a questo comparto lo storytelling dell’orto a Km0, con i prodotti coltivati direttamente dal pastry chef. “In questo momento stiamo rivoluzionando la linea perché ho deciso di essere ancora più coerente con il concetto di stagionalità. Questo significa una fatica enorme anche in senso economico. Le nostre materie prime costano in media un 30% in più rispetto alla pasticceria tradizionale. Le realtà più in linea con la nostra filosofia non riescono a stare dietro alla produzione: magari ti chiamano la mattina e ti dicono “mi dispiace, non abbiamo X e Y”. Insomma sembra che manchi un anello di congiunzione tra realtà agricole che fanno frutta e pasticcerie, che di frutta (ma anche frutta secca) fanno un utilizzo massiccio. 

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Lo stesso discorso vale anche per i packaging, affidati all’artista Flaminia Veronesi che ha realizzato i supporti ispirandosi a frutta e animali per richiamare il mondo delle favole e dell’infanzia con materiali riciclabili o riutilizzabili. Anche qui, un ulteriore costo. “I miei prezzi però sono bassi, questa è una scelta. Non condivido tante cose del mercato milanese, voglio che Eutopia sia un posto accessibile per tutti, non che sia esclusivo.” 

Se devo mettere una fragola di serra o fuori stagione che viene dall’altra parte del mondo probabilmente sto facendo un danno a me stessa e alla qualità del mio prodotto

Aperta a Febbraio del 2020 a Napoli, Mon Sciù è la creatura di Chiara Cianciaruso. Formatasi all’estero, Chiara è passata poi a lavorare nella ristorazione prima di aprire la sua realtà. “È in Francia che ho scoperto veramente la stagionalità. In Italia le nostre vetrine sono un po’ monotone”. La pasticceria che Mon Sciù offre non è quella classica napoletana, ad esempio qui non ci sono le sfogliatelle, ma nemmeno le torte di fragole a Dicembre. “È una scelta anche egoistica: se devo mettere una fragola di serra o fuori stagione che viene dall’altra parte del mondo probabilmente sto facendo un danno a me stessa e alla qualità del mio prodotto. Questo mi porta a dire tanti no ai miei clienti”. 

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​Chiara Cianciaruso. Foto di Alessandra Farinelli​ per gentile concessione di Mon Sciù​


Secondo Chiara però questo discorso va gestito con equilibrio: “Bisogna essere onesti: su certe cose possiamo fare un passo ragionato, su altre dobbiamo accettare di non essere perfetti a 360°. Basta pensare al cioccolato che viene prodotto dall’altra parte del mondo con una carbon footprint molto elevata. Siamo però in grado di fare delle scelte consapevoli. Ultimamente ho deciso di usare solo uova allevate all’aria aperta, non a terra. Un uovo mi costa 80 centesimi. Un uovo di batteria me ne costerebbe 10”. 

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Foto di Alessandra Farinelli​ per gentile concessione di Mon Sciù​

Il tema della reperibilità di materie prime da filiere virtuose ritorna, quando Chiara sottolinea che gli agricoltori di alta qualità sono delle perle rare. “Devi girare molto e considerare diversi fattori: se sono anche loro piccoli ed estremi nella loro agricoltura non sempre consegnano, oppure sono difficili da raggiungere. Vivere in Campania di certo aiuta”.

Sul tema dello spreco Chiara conferma che quello alimentare è irrisorio: “In pasticceria sappiamo sempre come rendere circolare lo scarto per farlo rivivere in un’altra cosa. Questo sta nella bravura del pasticciere. Mi metto le mani nei capelli però quando vedo quanto spreco di plastica c’è in laboratorio, nonostante io non ne acquisti e il mio packaging sia tutto carta e cartone. Purtroppo il latte ti arriva nelle bottiglie di plastica, idem le puree di frutta. Anche se, devo dire, nella ristorazione con il sottovuoto è ancora peggio. Uno scempio”. 

Ricordo però che il prezzo che non si trova sullo scontrino lo sta pagando qualcun altro. È un salto culturale che ancora dobbiamo compiere

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Foto per gentile concessione di Grezzo

Nicola Salvi è il fondatore di Grezzo, pasticceria crudista e vegana nata a Roma nel 2014 quando “la sostenibilità non era mainstream come oggi” mi racconta “in quel momento ho pensato: questa cosa prenderà piede nel 2050, e invece”.  Nicola viene da esperienze di no-profit per questo la sua idea era quella di realizzare un business a impatto positivo, in modo quasi estremo. “Avevamo fatto il primo locale con l’argilla cruda e materiali di scarto, bicchieri e posate biodegradabili. Ero talmente concentrato su questa cosa che quando abbiamo aperto non avevo le vaschette per il gelato. Una volta una cliente per portarlo a casa si è comprata una vaschetta in una gelateria vicina. A quel punto ho capito che qualche compromesso lo potevamo fare”.  

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La cucina crudista è ancora sottostimata, ma ha diversi aspetti che riescono ad impattare sull’ambiente e anche sull’impiego di energia elettrica. “Nel momento in cui abbiamo deciso di fare dei prodotti per le persone, non potevamo prescindere dall’effetto delle nostre azioni sull’ambiente in cui queste persone vivono. I nostri dolci sono esclusivamente vegetali e preparati con ingredienti biologici, questo significa rispetto delle falde acquifere, non dispersione di veleni nel terreno e così anche nell’alimentazione personale”. Non solo: c’è anche il discorso delle proprietà nutritive che con una manipolazione minima rimangono intatte negli alimenti. 

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Nicola Savi. Foto per gentile concessione di Grezzo

“In più usiamo quasi esclusivamente frutti, frutta, frutta secca e semi. L’unico cereale è l’avena, che è senza glutine ma marginale” una scelta che spiega così “ci permette di lasciare piante sul terreno, utilizziamo frutti che vengono colti senza tagliare alberi e piante, come succederebbe con la barbabietola di zucchero. Abbiamo dolcificanti naturali, come lo zucchero di cocco che viene estratto con una cannula nel tronco durante la fioritura. Solo che costa 10 volte di più dello zucchero normale”.

Questo coincide con l’idea di lavorare ingredienti integrali che non sono stati raffinati. “Usiamo fave di cacao che arrivano da una cooperativa nel cuore del Perù con certificazione fari trade. Facciamo il cioccolato senza tostatura e senza zucchero. Tutto questo però è condito da un’esperienza piacevole e buona. Deve arrivarti il gusto”.

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La Mimosa di Grezzo. Foto per gentile concessione di Grezzo

L’ostacolo più grande? “ll costo, che si riversa sullo scontrino in maniera evidente. Ricordo però che il prezzo che non si trova sullo scontrino lo sta pagando qualcun altro. È un salto culturale che ancora dobbiamo compiere”. 

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