ristorante aqua Luni Liguria
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Cibo

I giovani chef che hanno aperto un grandissimo ristorante di alta cucina nella provincia ligure

Aqua è un ristorante-pizzeria in un paesino della Lunigiana ligure. Qui due chef si sono messi in testa di portare una cucina di alto livello in un palazzo popolare.

Guardandomi intorno, penso che ci voglia un certo coraggio a immaginare un posto del genere da queste parti

Un amico mi parla da due anni di un ristorante-pizzeria a Luni, un paesino in Liguria, che fa una cucina “da stellato” in un condominio popolare, coi panni stesi alle finestre. Per incuriosirmi basta e avanza, e così: andiamo a provare ’sto posto.

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Il condomio dove si trova Aqua, Luni. Foto dell'autore

Ma facciamo un passo indietro, perché Luni magari non l’avete neanche mai sentita nominare. Era il centro principale della Lunigiana, Luni, di cui era il porto. La Lunigiana oggi è praticamente tutta in Toscana, ne costituisce l’istmo più estremo, che si incunea tra Emilia Romagna e Liguria. Luni però invece che in Toscana è proprio in Liguria, passandoci con l’autostrada si trova accanto al mare, ma dall’altro lato. Fino all’altro giorno credevo che ne restasse solo un sito archeologico, invece un pugno di casette c’è ancora oggi, per lo più condomini contemporanei lungo una provinciale.

Un posto come mille altri, al confine tra due regioni, e la sera che arrivo ad Aqua – si chiama così il ristorante – vedo che la descrizione del mio amico calza a pennello: siamo in una palazzina anni Sessanta, al cui piano terra il portico contemporaneo e curato di un ristorante sin dall’aspetto – pulito, illuminato bene – ci fa accedere a uno spazio che si presenta come contemporaneo.

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Francesco Bertolini e Lorenzo Griselli, chef di Aqua. Foto per gentile concessione del ristorante Aqua

Il locale è diviso in due spazi distinti: la pizzeria, il primo che attraversiamo, è visibilmente separata dal ristorante, in cui ci sistemiamo. Sul tavolo c’è una clessidra che sparisce appena ci portano il menu. Le pizze che vedo circolare non sembrano niente male, ma stasera non le assaggerò – l’idea che mi sono fatto è che i due proprietari, nonché chef, di Aqua, Lorenzo Griselli e Francesco Bertolini, classe ‘94, sfruttino i maggiori incassi della pizzeria per potersi permettere di proporre la loro idea di cucina senza troppi patemi. Idea che, scoprirò parlando dopo cena proprio con Griselli, è sbagliata. “I primi mesi sono stati un disastro — mi dice – pensavamo che la pizzeria ci aiutasse ad attirare le persone per poi incuriosirle a venire al ristorante, è stato il contrario. Ci ha messo più di un anno a ingranare la pizzeria, d’estate per esempio sfruttando l’esterno funziona bene”.

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Ma dato che non siamo qui per la pizza (che per la cronaca ha prezzi normalissimi, dai 6 agli 8 euro per i grandi classici e dai 12 ai 14 per le versioni gourmet), diamo un’occhiata al menu. Anche perché, vale la pena metterlo in chiaro da subito, esclusa la piuttosto remota possibilità che voi abitiate a Luni qui bisogna decidere di venirci, e deve quindi valere la pena. Come accennato Aqua è un ristorante che propone fine dining, ma si può ordinare anche alla carta: gli antipasti e i primi stanno tra i 14 e i 16 euro, i secondi vanno da 22 a 24; poi ci sono due menu degustazione: quello vegetariano viene 50, mentre il menu Astratto è a 70 – bevande escluse.

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Siamo di fronte a una cucina fatta di ingredienti per lo più italiani, quasi mai opulenti, anzi: le materie prime più costose sono evitate in favore del quinto quarto, ce n’è proprio molto di quinto quarto, ma con una sensibilità culinaria spiccatamente nordica. Insomma: tecnica, interiora e caviale (ma d’aringa), per farvi capire, trovate geniali e di ciò che non può mai mancare per far colpo in cucina: gli uccelli piccoli (in questo caso il piccione).  

Prima la moda del Kobe, e tutti fanno il Kobe, a un certo punto era partita la bambola dell’Agnus, tutti l’Angus. Noi cerchiamo di emozionare con ingredienti che le persone non sono abituate a mangiare: a Roma è normale mangiare la trippa, noi avevamo in carta un panino con la trippa, ne saranno usciti quindici in tre mesi

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Non posso cavarmela senza parlarvi di almeno un paio di piatti, per esempio dell’ombrina servita per antipasto, immersa in una boule di pietra in cui esplodevano detonazioni cangianti: sembrava una piccola supernova di granita. Tanto vale farla raccontare a chi l’ha ideata: “L’ombrina era una tartare, ingrassata e mantecata, ma al posto di usare la maionese o un’altra crema grassa abbiamo impiegato un ingrediente: il cervello di vitello.”

Lorenzo Griselli e Francesco Bertolini si conoscono da anni, hanno fatto anche l’alberghiero insieme. “Abbiamo fatto le stesse esperienze: gli stellati di Forte dei Marmi, poi alcuni due e tre stelle Michelin in tutta Italia. Francesco è stato anche a Copenaghen. Ci siamo fatti la gavetta e siamo approdati anche in posti come il St. Hubertus di chef Norbert Niederkofler.” Ma alla fine hanno deciso di tornare dalle loro parti. Più o meno. “In realtà siamo di Carrara”, mi dice Lorenzo, che continua spiegando come l’idea di Aqua originariamente fosse venuta a Francesco. “Dopo un’esperienza al Four Seasons di Milano era tornato per un po’ qui in zona e si è trovato a lavorare quasi per caso con un amico che faceva lo chef nella precedente gestione di questo ristorante”. Aveva due mesi da riempire prima di ripartire per la Danimarca, ma proprio a quel punto la vecchia gestione fallì: “Così gli chiesero se fosse interessato a rilevare l’attività. Io in quel momento lavoravo a Milano, al Mandarin Oriental e scesi a vedere il posto. Era un locale pronto a partire. Così abbiamo cominciato, più o meno tre anni fa.” 

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Guardandomi intorno, penso che ci voglia un certo coraggio a immaginare un posto del genere da queste parti. “La nostra filosofia è quella di una cucina minimale, pulita, con ingredienti magari non per forza di zona ma stagionali”, continua Lorenzo “Cambiamo menu quattro volte l’anno, mentre l’Astratto, cioè il principale dei nostri percorsi di degustazione, cambia di continuo: è fatto di illuminazioni”.

Continua lo chef “È un’idea nata per esigenza, abbiamo notato che in questa zona alcune persone erano un po’ condizionate da materie prime come cervello, cuore, fegato, lingua…” Partendo così queste persone finivano per rimanere condizionate anche al momento dell’assaggio “non erano spronati a dare la prima forchettata”. Da questa difficoltà la trovata di un piccolo gioco di ruolo, che non mi era mai capitato di affrontare: l’invito a indovinare gli ingredienti dei piatti: “Ci siamo detti: sai che c’è? Facciamoli indovinare… e poi voilà gli diciamo che hanno mangiato il cuore. Magari ti rispondono ‘oddio, se l’avessi saputo…”

Una resistenza del genere è intrinsecamente legata al posto dove si trova Aqua, se invece che a Luni fosse a Firenze o a Roma nessuno forse si impressionerebbe per il quinto quarto. “Se guardi alla ristorazione della zona” mi spiega Lorenzo, “diciamo da Viareggio fino a La Spezia, ci trovi piatti tutti abbastanza uguale: prima la moda del Kobe, e tutti fanno il Kobe, a un certo punto era partita la bambola dell’Agnus, tutti l’Angus.. Noi cerchiamo di emozionare con ingredienti che le persone non sono abituate a mangiare: a Roma è normale mangiare la trippa, noi avevamo in carta un panino con la trippa, ne saranno usciti quindici in tre mesi”.

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Questo giochetto dei piatti da indovinare è interessante, di uno avevamo azzeccato tutto – pure l’ombrina – ma di un altro non eravamo riusciti a capire molto, neanche di che carne si trattasse (era lepre). Mi dice Lorenzo, “è una via di mezzo tra una Liévre à la Royale parigina e un dolceforte: nella nostra versione scompare il foie gras – come hai visto non usiamo mai prodotti estremamente cari, come aragosta o foie gras appunto – e cerchiamo di puntare su cose magari accantonate dalla cucina gastronomica.” Ed è nata così per esempio quella Liévre à la Royale senza il foie gras, al posto del quale c’è il lardo di Colonnata. 

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Tutto sommato considerando la ricercatezza della proposta, al netto del vino, il prezzo che si paga da Aqua mi pare onesto. “Penso che la base di tutto sia l’onestà, alla fine c’è molta tecnica dietro i piatti, ci sono tante ore di lavoro, che facciamo noi due titolari più un ragazzo che ci dà una mano in cucina e in questo modo la forza lavoro risulta ‘scontata’ sul piatto. Se dovessimo pagare due dipendenti che stanno tutto il giorno in cucina – perché per fare le cose che facciamo noi bisogna davvero starci tutto il giorno – quello inciderebbe ovviamente sul prezzo”. 

“La concorrenza da queste parti è minima”, aggiunge Griselli, “facciamo una proposta diversa e io da cuoco sono contento di essermi fatto dieci anni di gavetta e aver girato tante cucine imparando molta tecnica, perché tu puoi comprare il gambero rosso di Mazara del Vallo da 75 euro al chilo ma se non sai trattare gli ingredienti e pensare a un abbinamento che sappia esaltarla, è inutile”.

Il fine dining è anche in posti che non ti aspetti, come da Aqua a Luni. Che vale il viaggio, e credo proprio me lo rifarò. In fondo mi manca da assaggiare la pizza, no?.

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