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Un miliziano armato del governo provvisorio di San Marino nel 1957. Rielaborazione grafica di Alessandro Massone, via Wikimedia Commons/Pubblico dominio.
Attualità

La storia dimenticata del colpo di stato anti-comunista di San Marino

Dal dopoguerra al 1957 il microstato è stato governato da comunisti e socialisti. Ma agli Stati Uniti non andava bene, ed è finita con uno strano golpe.

In pochi lo sanno, ma negli anni Cinquanta l’unico governo socialcomunista al di là della Cortina di ferro si trovava nella nostra penisola—e più precisamente a San Marino. Questa storia è raccontata in Titano Rosso, un podcast sul golpe democristiano a San Marino prodotto da The Submarine. L’articolo qui sotto è scritto da due tra i suoi autori e produttori.

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Oggi l’esistenza dei governi socialcomunisti di San Marino è quasi del tutto dimenticata; eppure, la piccola Repubblica è stata comandata da una coalizione formata dal locale Partito socialista e dal Partito comunista dal dopoguerra fino al 1957, quando è stata rovesciata con un’operazione voluta direttamente dal Dipartimento di Stato Usa dopo anni di intrighi e pressioni internazionali. 

Durante il decennio abbondante in cui sono stati al potere, i governi socialcomunisti potevano contare su un elettorato amplissimo che andava dai contadini delle campagne intorno al monte Titano, passava per i minatori emigrati in Francia e Belgio e arrivava fino ai cittadini borghesi.

Questa anomalia (almeno nel contesto della Guerra fredda) era il frutto di una serie di circostanze particolari della storia e della politica locale, che ha visto i borghesi e i lavoratori uniti nella lotta contro un nemico piuttosto inusuale nel Novecento: la nobiltà.

Nonostante San Marino si fregi di essere la “terra della libertà” e “la repubblica più antica del mondo,” per gran parte della sua storia è stata governata da un’oligarchia di famiglie patrizie locali—combattuta soprattutto dal Partito socialista, dal suo fondatore Pietro Franciosi e il successore Gino Giacomini. Nel 1906 il Consiglio Grande e Generale (il parlamento monocamerale di San Marino) è stato parzialmente aperto anche al popolo, ponendo fine allo strapotere dell'aristocrazia.

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Questa breve parentesi democratica finisce però con l’arrivo delle squadracce romagnole di Italo Balbo—gerarca fascista di primo piano e, tra l’altro, allievo di Franciosi al liceo. I fascisti prendono il potere sotto la guida di Giuliano Gozi: un patrizio che, come prima cosa, riporta la sua classe sociale al potere, dove resterà saldamente per tutto il ventennio fascista italiano.

Ecco spiegata la vittoria di socialisti e comunisti nel dopoguerra: la paura di un nuovo ritorno del patriziato porta la piccola borghesia locale ad allearsi con il proletariato. Questo fatto però preoccupa gli americani, e lo fa in un modo completamente sproporzionato rispetto all’importanza irrisoria della Repubblica sullo scacchiere internazionale.

È il periodo in cui la politica estera statunitense è dominata dalla dottrina del rollback, che predica un contrasto attivo a tutti i governi e movimenti comunisti—specialmente se fuori dal Patto di Varsavia.

Per tutto il dopoguerra gli statunitensi boicottano così l’economia di San Marino, non destinano i fondi del piano Marshall per la ricostruzione e fanno pressioni sul governo italiano affinché non rispetti gli accordi che regolano da sempre le relazioni San Marino-Italia. A causa di questa sorta di embargo, la San Marino post-bellica è un paese poverissimo che pure continua ostinatamente a votare comunista. 

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Illustrazione di Alessandro Massone.

Dopo l’ennesima vittoria elettorale nel 1955, gli americani decidono di risolvere la faccenda una volta per tutte. Il capo della Democrazia cristiana sammarinese, Federico Bigi, viene invitato dall'allora vicepresidente Richard Nixon a visitare gli Usa. Bigi è l’uomo a cui la diplomazia americana si affida per sbarazzarsi del “governo rosso,” e per staccare l’elettorato borghese da quello proletario.

Il momento è favorevole, vista la spaccatura tra socialisti e comunisti dopo i fatti d'Ungheria del 1956, con la sollevazione antisovietica duramente repressa. Bigi si dimostra abile: tramite una lunga serie di manovre di palazzo e di trame sottobanco riesce a creare una nuova maggioranza nel Consiglio Grande e Generale, convincendo sei deputati socialisti ad abbandonare il governo e ad allinearsi alla Democrazia cristiana—che diventa così maggioranza.

Il 19 settembre del 1957 si dovrebbero eleggere i Capitani reggenti, la massima carica esecutiva della Repubblica, ma le forze dell’ordine impediscono l’ingresso della nuova maggioranza nel palazzo del Governo. I Capitani in carica sciolgono il Consiglio: è l’inizio dei cosiddetti “Fatti di Rovereta.”

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Le segreterie del partito socialista e di quello comunista si erano già preparate a questo scenario, e avevano preso l’abitudine di far firmare ai loro consiglieri delle dimissioni in bianco. Queste dimissioni vengono tirate fuori dai cassetti: i consiglieri socialcomunisti si dimettono in massa, il Consiglio non ha più il numero di deputati legale per riunirsi, e bisogna andare a elezioni—che i socialcomunisti sono sicuri di vincere.

È a questo punto che avviene il colpo di mano. La nuova maggioranza democristiana si ribella all’atto, reputato illegittimo, e forma un Comitato esecutivo che diventa in fretta un governo autonomo, con una propria sede e delle proprie milizie in località Rovereta, dentro un capannone industriale in costruzione—per questo si usa la denominazione “il governo del capannone.”

San Marino si spacca ed è sull’orlo dello scontro civile: in base agli accordi diplomatici, l’unico paese che può intervenire per risolvere la questione è l’Italia. Ma Roma temporeggia.

Il governo italiano preferirebbe mantenere un basso profilo, evitando di farsi coinvolgere in quella che viene vista come una fissazione americana. Manlio Brosio, l’allora ambasciatore italiano negli Stati Uniti, sembra dare ragione al governo socialcomunista; sostiene che ormai “le elezioni sono un fatto dato per scontato,” e nota timidamente che “la faccenda sammarinese sta riscuotendo un interesse mediatico esagerato in America.” 

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Per gli Stati Uniti però scende in campo un pezzo da novanta: il segretario di stato John Foster Dulles, anticomunista di ferro e massimo sostenitore della politica del rollback. Dulles comincia a fare pressioni sugli italiani— secondo lui “apatici e disinteressati”—che dopo settimane decidono finalmente di intervenire per non scontentare gli alleati d'oltreoceano.

Così, il primo ottobre del 1957 il presidente del consiglio Zoli riconosce l’esecutivo democristiano “del capannone” come l’unico e legittimo governo di San Marino.

Fernando Tambroni, il Ministro dell’Interno italiano, ordina un embargo nei confronti di San Marino. La Repubblica comincia a subire un vero e proprio assedio per non far affluire militanti comunisti dalla Romagna e dalle Marche. In breve tempo è impedito a tutti l’ingresso e l'uscita da San Marino, e viene addirittura bloccato l’afflusso di viveri e medicinali. 

Intanto i due governi sammarinesi iniziano a creare corpi di difesa. I comunisti organizzano una milizia di volontari armati alla bell’e meglio con vecchi fucili; i cinegiornali italiani prendono in giro i miliziani in mantelli e stivali, dicendo che “sembrano prepararsi per la caccia alle anitre.”

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I membri del “governo di Rovereta” hanno amici ricchi e ben altri mezzi: la milizia ha armi semi-automatiche e arriverà a contare cento effettivi, grazie a giovani carabinieri o finanzieri italiani arruolati per la causa anti-comunista.

L'arrivo di carri armati italiani lungo gli accessi per San Marino, la penuria di viveri e l'impossibilità di reagire portano i socialcomunisti ad arrendersi l’11 ottobre. Il 14 ottobre un lungo corteo parte da Rovereta si inerpica sul Monte Titano, con i membri del “governo del capannone” che festeggiano e vanno a cantare il Te deum nella piccola cattedrale dove sono conservate le spoglie del Santo Marino, mitico fondatore della piccola Repubblica. È la fine del governo socialcomunista di San Marino.

Come ci ha raccontato Giuseppe Maria Morganti, già Capitano reggente nel tra il 2002 e il 2003 per il Partito dei Socialisti e dei Democratici, dopo i “fatti di Rovereta” la reazione dei democristiani fu piuttosto dura: 27 persone vennero condannate a un totale di 238 anni di carcere.

“I protagonisti del ‘governo rosso’ furono obbligati all’esilio,” dice Morganti. “Giacomini andò a Roma, lasciando il partito al figlio Remy. Primo Marani, il capitano reggente che sciolse il Consiglio, fu incarcerato e poi costretto all’esilio in Francia, dove fece il minatore. Domenico Morganti, ministro dell’Interno comunista, se ne andò a Sanremo.”

Nonostante l’esilio dei propri dirigenti, il partito socialista e comunista rimangono sulle barricate fino al 1972, quando si giunge al “compromesso storico” tra i democristiani e i socialisti di Remy Giacomini. Diversi anni più tardi, nel 1986, democristiani e i comunisti governeranno insieme. La faccenda pare chiusa, spiega Morganti, “ma la divisione di pensiero sui quei fatti è ancora presente.” 

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Anche durante i “fatti di Rovereta” i comunisti non smisero di fare leva sulla paura latente degli aristocratici, radicata in tutto il popolo sammarinese: d'altronde, a gestire le finanze del governo democristiano di Rovereta era stato fin da subito un membro della famiglia Gozi, la stessa che aveva espresso il leader dei fascisti locali. Con il nuovo governo democristiano, inoltre, la classe patrizia torna a occupare cariche importanti nell’apparato governativo della Repubblica.

Nel 2019 il Dipartimento di studi storici di San Marino ha cominciato ad organizzare un congresso in cui si sarebbe dovuto parlare dei “fatti di Rovereta” alla luce di documenti desecretati della Cia. L’incontro avrebbe dato la possibilità alla cittadinanza di affrontare quel momento controverso insieme a otto storici, che avrebbero spiegato i vari aspetti della faccenda.

Purtroppo questo convegno non si è mai tenuto: alle elezioni del 2019 stravince la democrazia cristiana sammarinese, e indiscrezioni che abbiamo raccolto sostengono che le forze governative appena insediate abbiano impedito che l’evento avesse luogo.

Per Valentina Rossi, membro del consiglio scientifico del Centro sammarinese di studi storici, manca ancora oggi “una rielaborazione approfondita per quel periodo e quello successivo.”

La vicenda è studiata a scuola solo marginalmente, e salvo rari casi “non vi è una memoria tramandata dalle vecchie generazioni.” Per i più giovani, insomma, i fatti di Rovereta “sono finiti nel dimenticatoio.”

Il podcast Titano Rosso è disponibile su tutte le principali piattaforme.