Appino pensa mentre Dente suona.
Il 2015 è stato un bel casino, sotto tutti i punti di vista. In particolare, tanto s’è discusso del rapporto tra pop e indie, due categorie che la maggior parte degli ascoltatori ritengono obsolete, basandosi sul naturale corso delle tendenze ideologico-musicali, altri ignorano completamente, beati loro, mentre c’è ancora una minoranza abbastanza folta che crede si possa e si debba discuterne ancora.
Io sto dalla parte della minoranza o della maggioranza? Sicuramente sto dalla parte della ricerca, e se ad oggi non si è chiarito se sia ancora utile parlare della distinzione fra questi generi, non mi tirerò certo indietro dal contribuire a complicare il quadro.
La Distinzione è casualmente anche il titolo di un saggio di Bourdieu che chiunque sia venuto a contatto con la sociologia nel corso dei propri studi, o con la persona stessa di Bourdieu, dovrebbe conoscere, e si fonda sulla semplice tesi che le classi sociali, generalizzando, utilizzano diversi meccanismi di distinzione o antimimetici per prendere le distanze le une dalle altre—nella fattispecie è chi sta più in alto a crearsi un sistema di segni distintivi, negli usi e costumi, per non rischiare confondersi con chi sta più in basso.
Sia chiaro che le distinzioni di questo tipo dovrebbero appartenere al passato, più precisamente ad un’epoca in cui ancora ci fosse bisogno di uno status estetico per darsi un tono. Siccome però sappiamo che in Italia la musica è uno degli àmbiti più retrogradi, abbiamo la fortuna di poter osservare, perfettamente conservati, alcuni preziosi esempi di attitudini novecentesche e pre-moderne, e tutto è riassumibile nei comportamenti degli alfieri dell’indie nei confronti della grossa e pericolosa incombenza del pop. Ovviamente non c’è bisogno di specificare che qui l’indie rappresenta l’alta borghesia e il pop sono le classi medio-basse che tentano, con strumenti e stratagemmi da parvenu, di appropriarsi dello status elitario e raffinato che, per sua stessa istanza, dovrebbe essere appannaggio solamente di una e una sola classe di individui, i veri detentori dello scettro della musica “reale”.
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Ciononostante, sembra che queste immense possibilità non vengano sempre colte, e, per qualche ignota ragione, l’indie resiste, e con esso resiste anche la parte “indie” di quelli che ora sono diventati i pesi massimi. Jovanotti deve per forza essere sempre il solito coglione che salta e fa fuoco e fiamme, l’eterno bambinone con le VANS anche se a presentarlo sul maxischermo degli stadi è Gramellini, Coppola deve opporre una resistenza editoriale, credo più per essere un minimo ok con la propria coscienza anziché farlo per amore del prossimo (cosa che invece Jovanotti fa dato che è francescano). E poi ci sono tutte le altre pedine più o meno grandi del solito circuito indie-rock la cui resistenza, ad oggi, sembra un fenomeno abbastanza italiano, ma non italiano nel senso vernacolare del termine, più allo stesso modo in cui superare gli altri in una fila o lamentarsi che il sugo non è come quello della mamma è italiano.
E così è successo che il pop è diventato una minaccia per l’indie e che ciò che resta dell’indie, per preservarsi a mo’ di riserva naturale debba applicare quei meccanismi di distinzione di cui parlavamo sopra. Queste distinzioni sono principalmente differenze di modo di approccio alla cultura dominante, resistenza nel senso più puro del termine, come quella che, negli ultimi giorni dello scorso anno, hanno fatto sì che Appino, musicista indie-rock e membro della band indie Zen Circus, ha tenuto a specificare alla persona della redazione italiana di The Voice quando gli ha risposto alla richiesta di presentarsi alle audizioni. Gli strumenti addotti come distintivi di una cultura alternativa a quella dell’immediatezza del mezzo televisivo sono quelli del tempo, dello sforzo, della gavetta, del sangue/sudore/lacrime versati sulla propria musica e per il proprio pubblico affezionato, gli strumenti della realtà contro quelli del reality. Questi strumenti, tuttavia, sono ancora molto lontani dal definire un genere se non per negazione di standard da cui tutti i musicisti affermati, non solo quelli indie-rock, si allontanano, e non perché abbiano realmente qualcosa da contrapporre a questi standard (lo stesso Appino augura molta fortuna al programma e a chi ci lavora), ma perché ritengono degradante parteciparvi per chi abbia con sé il bagaglio di realtà che si porta dietro un musicista vero. “Non saremo mai come voi”, risuona il testo generazionale dei Tre Allegri Ragazzi Morti, gli stessi che non più di due anni fa stavano in tour col signor Cherubini. A scanso d’equivoci, tuttavia, il mezzo di rifiuto del “popolare” è contrapporre, ancora una volta, una cultura alta, storicizzata, alla cultura dell’immediatezza. Il problema è che lo stesso appropriarsi di altezze o alte umiltà di fronte alle “umiliazioni alte” proproste in diretta TV è un’arma a doppio taglio, la stessa arma che fa considerare a Capovilla e soci la possibilità che non sia ridicolo fondare un super-gruppo di artisti indie-rock e chiamarlo Buñuel. Veramente? Buñuel?
Nel processo di radicalchicchizzazione dell’indie ci si sente come di fronte ai maglioni di cachemire di Bertinotti, di fronte a quella sinistra che si distingue dalla destra perché non ride, anzi piange lacrime amare sul proprio cardigan, sia esso firmato o stracciato, mentre l’industria destrorsa dell’intrattenimento si diverte e non pensa a Bianciardi e a quegli altri straccioni letterati, ma pensa solamente a monetizzare. Ancora una volta, ci si definisce non tanto per meriti propri, quanto per scelte preventive di sistemi semantici che ci parano in qualche modo i gomiti. Di seguito, ognuno ha il pubblico che si merita, e se l’audience dei talent è la massa acritica che accende la televisione e si lascia intrattenere, quella degli indie è per forza di cose una nicchia ristretta di persone, è a quella nicchia che un vero musicista indie deve parlare, perché solo quella nicchia può capire. In questo senso, ogni tentativo di rendersi pop dell’indie finora assomiglia a qualcosa come un salto della quaglia, una ritirata troppo breve e maldestra, all’ultimo minuto, dopo che si è tentato fino all’ultimo di venire dentro all’industria musicale. Si infila nel proprio immaginario qualcosa che proprio non ci sta bene con il pop, come parlare il linguaggio pratoliniano degli ultimi, della provincia, del disagio, dei quartieri, della tipa che non te la dà, di quanto non sei adatto a farcela. Nulla, insomma, che non abbia già fatto Max Pezzali, un autore che, consapevole o meno, ha fornito più di un paradigma a tanti musicisti indie italiani e ora siede ironicamente tra i giudici di The Voice.
Quindi dove sta questa distinzione? Evidentemente non nei temi trattati dalla propria arte, né nella musica tout court. Si pensi, tanto per restare in tema, a “Rockstar” di Appino, pezzo che sembra ricalcare in maniera fin troppo fedele una qualsiasi “Portami a Ballare” di Luca Barbarossa, che non ha molto di indie, a meno che non vogliamo definire De Gregori roba indie (in tal caso ci sarebbe da ricominciare da capo alcuni ragionamenti). Negli ultimi anni, infatti, è impressionante come il cantautorato alternativo italiano stia tentando di riagganciarsi alla vecchia scuola, con echi di Dalla, Stadio o Venditti in Thegiornalisti, di Battisti in Iosonouncane, di tutto questo in Colapesce e così via. E chiaramente, pure se l’ammissione di un debito nei confronti della grande musica italiana non dovrebbe essere considerata inficiante, l’eccesso di nostalgia non sta certo portando stravolgimenti avanguardistici in nessuno strato della nostra catena autoriale.
Insomma, verso fine 2015, il panorama era più o meno questo e ben poche novità sono all’orizzonte, ogni divagazione testuale è lasciata agli spasmi linguistici dei rapper, così come il gioco vocale, se non si vuol scendere nel campo della musica sperimentale tout court. La nostalgia è ancora la più grande arma del nostro esercito di musicisti alternativi, e l’anti-nostalgia (quello che per tutto il 2015 è stato chiamato “accelerazionismo” e che uso in questa sede non perché mi manchi quel tanto abusato termine della scorsa stagione, ma perché così ci capiamo) è ancora una tendenza distante dal nostro Paese, diciamo così che per ora è ancora mitteleuropea, o confinata in territori musicali molto vicini all’ibridazione, quindi in un certo senso già in grado di elaborare la propria storia come uno dei tanti strati della propria musica, non certo come la sua cifra stilistica predominante.
Ciò che fa incazzare i musicisti alternativi di oggi credo in qualche modo possa essere lo stesso impasse in cui si sono incastrati con questa volontà di raccogliere il testimone della “vera musica italiana”, quella con i testi suggestivi e la poesia in ogni sospiro. Solo che, per costruire un’identità a partire da questo omaggio, oggi, è necessario capire che cosa si perde, in termine di strumenti comunicativi. E di tutto questo bagaglio assente bisognerebbe tener conto nel momento in cui si costruisca un nuovo panorama che si voglia definire alternativo, altrimenti l’indie rischia di essere quella tasca da cui si raccolgono autori in grado di “far suonare bene” un tentativo più intimo, cantautorale, di un musicista grosso (vedi Raina che scrive per Emma, Mengoni e Club Dogo, o Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti che ha addirittura invertito la rotta del cantautorato diventando autore per Carboni). Si potrebbe pensare sia questo il mainstream di cui parla Calcutta nel suo album: il tentativo di nobilitare l’arteria portante del circuito musicale italiano alimentandola col sangue degli underdog, con un sangue vero, che ribolle, talmente a fondo che può addirittura concedere trasfusioni al pop, anche se si tratta di sangue “corretto” come quello di Morgan.
Mi rendo conto che possa essere considerato “degradante” voler approfittare della bandiera che ad oggi è retta da quella fetta di musicisti per rivitalizzare circuiti meno nobili, e che il povero stagista di The Voice si meriti, secondo alcuni punti di vista, una risposta come quella di Andrea Appino. Resta il fatto che questa confusione esiste, e la colpa non si può addossare alla grossa fabbrica di soldi, che tira su in maniera scriteriata quello che crede sia più vicino alle proprie esigenze. Probabilmente se non fosse lo stesso circuito alternativo a sottolineare il legame con ciò che è alto, essenziale della musica italiana, non ci sarebbe nemmeno spazio per questa confusione. Avremmo due realtà distinte, incompatibili e impossibili da confondere, una radicalizzazione di strumenti e intenzioni che si trasformi in una forma di narrazione troppo forte, troppo personale per essere ripresa in prima serata. In questo caso, tentativi a mezz’asta come quelli elencati qui sopra potrebbero facilmente decadere perché ancora legati a strumenti formali timidi, che non si arrischiano davvero nel lavoro complesso di tritare il mainstream anziché farne un commento ironico e leggero, quasi complice.
In questo senso il pop, così come il non-pop italiano, ha da imparare da generi storicamente lontani dalla narrazione cantautorale, come l’hip-hop o come chi sperimenta nuovi linguaggi, perché semplicemente, in quei casi, il compromesso ha meno spazio, e lascia più spazio ad un’identità artistica definita, o in alcuni fortunati casi a raggiungere lo status eletto dell’indefinizione assoluta, della pura arte (e per arrivare a questo bisogna rifarsi a modelli che purtroppo non sono più di questo mondo).
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