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2016: Le ibridazioni sono tutto il futuro di cui abbiamo bisogno

Elysia Crampton.

Nel 2015 abbiamo iniziato ad accorgerci che schermarsi della locuzione “appropriazione culturale” può rivelarsi semplicemente un modo paraculo per impedire a potenziali elementi esterni, di disturbo, di contaminare una determinata scena/giro. Come a dire “mi spiace, tu non vieni da qui, ergo non hai diritto di parola. Ogni tuo intervento sarà visto come una speculazione su questa delicata realtà.” Nulla di carino, insomma. Tutto avrei pensato, tranne che un principio semplice come il rispetto reciproco tra realtà/culture potesse essere ribaltato in termini così assurdi. Ogni volta che mi sono trovata davanti a dinamiche di questo genere è stato come essere accoltellata dalle mie stesse idee.

Circa un anno fa infatti avevo scritto un articolo sulla musica andina che per la prima volta—mia e di Noisey—trattava di un genere musicale estraneo alle dinamiche di mercato tipicamente associate all’occidente, e i piedi di piombo, nella mia testa, erano più che indispensabili. In realtà alla comunità campesina a cui si riallaccia questo particolare tipo di musica non importa molto di attenzioni del genere. 

Al contrario: uno dei processi più interessanti in atto nell’ultimo periodo è una sorta di “recupero” di determinati componenti tradizionali, che vengono immediatamente dissolti in soluzioni più contemporanee. E se quel rispetto formale su cui fa leva la logica della anti-appropriazione culturale valesse anche in questo frangente, il processo che porta alla creazione di preziosissima materia meticcia, amorfa, in cui il passato e il presente si guardano allo specchio senza rancore, non sarebbe possibile. In questo caso, il rispetto non è più un elemento formale, ma radicale, familiare, storico, innato, e per questo non frena l’innovazione ma ne è carburante.

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Tutto questo, nell’articolo, non era stato preso in considerazione, e anzi è molto probabile che sia suonato esattamente contrario alle conclusioni di cui sopra. Sarà perché in materia sono davvero l’ultima arrivata, sarà perché tutto sommato il 2015 è stato un anno in cui ho imparato ad avere un contatto molto più intimo con ciò che ascolto, anche con conseguenti stravolgimenti psicofisici ai limiti del tollerabile, ma una cosa, a sipari chiusi, l’ho capita. Barricarsi dietro a fortezze di presunta autenticità, dettata da parametri tanto boriosi quanto stantii, è una soluzione di indole conservatrice di dubbio gusto, e nel 2015 come nel 2016 come nel 2050, e l’indole conservatrice—specie in una società suo malgrado occidentalizzata—è quanto di più simile a una massa cancerogena in costante minaccia di metastasi.

L’impurità vista come elemento caratterizzante di un qualsiasi prodotto musicale, frutto di una confluenza di generi/culture/ambienti sociali diversi, da sola, potrebbe bastare per accomunare un buon ottanta percento delle cose ascoltate durante il corso dell’anno, e solo adesso mi accorgo della lungimiranza di una tale proprietà. E non sono neanche stata la sola ad accorgermene, fortunatamente. Ognuno con modalità di interiorizzazione diverse, ma più o meno tutti, qua dentro, abbiamo giovato dei frutti del processo di atemporalizzazione e ibridazione di una qualche materia di partenza, con elementi in apparenza discordanti da essa. Frutti che sì e no hanno stabilito nuovi parametri e fornito nuove unità di misura del godibile, e, che si tratti di elettronica danzereccia o meno, hanno delineato un nuovo piano di azione che supera la definizione consona di “genere musicale”.

Uno dei primi ambiti ad essere stati interamente rimessi in discussione, proprio in virtù di queste scelte, è stato quello della club music. È anche il collegamento più immediato a quanto detto, e verosimilmente, quello di più facile comprensione perché attuale.

Brandelli di tessuti alieni, appartenenti a organismi fino a poco fa ritenuti di natura incompatibile, se non opposta, rispetto alla dance music, si sono magnificamente fusi tra loro. E tutto ciò è avvenuto con un fine ben preciso: sovvertire l’esistenza non del rock in sé e derivati, ma piuttosto i paradigmi che hanno trasformato quello che un tempo poteva essere una fertile laguna in poco più che un acquitrino. E occhio che la fertile laguna era fertile perché gli spiriti che vi ribollivano all’interno erano visionari a sufficienza per metterla costantemente in discussione, in un’attitudine dissacrante che oggi ha fatto il giro ed è tornata conservatrice. Non accorgersi di questa inesorabile retrocessione, specie in un campo i cui il binomio forza fisica/suono è assioma fondante sia del processo creativo che fruitivo della musica, significa arrivare a credere che quello sia il solo e unico modo di interfacciarsi con l’innovazione, e quindi essere un po’ gli Steve Albini brontoloni della situazione.

Parlo della simbiosi tra dance e rock, nella sua venatura più post-punk di Powell e Diagonal, o Hieroglyphic Being & J.I.T.U Ahn-Sahm-Bul e le loro dance disseminata di neo-jazz, o ancora della più drammatica confluenza tra metal e techno, dove per metal non si intende solo quello fatto con le chitarre, come per techno non si intende la cassa dritta. I connubi possono essere frivoli e sfacciati, maliziosi nell’apportare carni al fuoco diverse, e divertenti—nel senso letterale del termine—proprio per questo.

Il caso di Kerridge e del suo metallo sintetico liquefatto è abbastanza esemplare, ma non è stato il solo a far mutare geneticamente la pesantezza di certe sonorità in creature autosufficienti per quanto profane. Il duo indonesiano Senyawa è ufficialmente definito come “hardcore metal” da Wikipedia, eppure chiunque li abbia visti dal vivo nel corso dell’ultimo anno, concorderà sul fatto che è proprio l’inesistenza di parametri di valutazione/oggettificazione delle loro performance, ciò che impreziosisce e rende unica nel suo non-genere l’arte della band.

Si tratta di arte intesa in un senso se vogliamo più arcaico, come affluenza di input canori, strumentali e performativi in chiave folklorica, quindi riannessa a una visione neo-tribale della sperimentazione in musica. Le urla scarnificanti del vocalist Rully Shabara sono vissute in prima persona dallo stesso, e impersonificate in un vero e proprio spettacolo teatrale, la cui irruenza è, evidentemente, ciò che Wikipedia interpreta come “hardcore metal.” E in effetti c’è da dire che non si esce vivi sereni da un live dei Senyawa, metal o non metal che sia.

La naturale spinta alla creazione di realtà ibridate viene spesso vista come forma di stravolgimento innecessario di situazioni già complete e per questo percepite come immutabili. Se a dialogare sono linguaggi scanditi da elementi tradizionali, e quindi riferiti a culture altre da quella occidentale, ciò che se ne ricava è altrettanto splendido perché impreziosito di suggestioni che altrimenti non avrebbero mai avuto modo di manifestarsi con altrettanta onestà. Un esempio è il processo di riappropriazione folklorica e de-colonizzazione più mentale che territoriale, che si sta consolidando negli ultimi anni nel Centro e Sud America. A seconda della latitudine, ultimamente, gran parte dei musicisti/produttori di musica elettronica sudamericani stanno proiettando le antiche ombre di una tradizione secolare, verso confini che prima di essere arte sono strumenti di rivendicazione sociale. NAAFI è un’etichetta messicana che sta per “No Ambition And Fuck-all Interest”, e guarda proprio in questa direzione, promuovendo artisti e sonorità “tribal prehispanicas”/”tribal house”, che sono a loro volta eredi di combinazioni etno-culturali ancora precedenti—vedi l’influenza della tradizione africana apportata dal flusso in tutto il Sud America degli schiavi, in epoca coloniale.

Nel caso di NAAFI, come in quello di altri nomi di punta della scena sudamericana, l’intento è reinserire nell’immaginario fenotipico della musica popolare—intesa come di più immediata fruizione—gli attributi di una tradizione che razzismi interni, ignoranza e generica vergogna per tutto ciò che non è uomobianco-centrico, hanno allontanato dalla quotidianità di molti paesi latino-americani. Ciò si traduce nella nascita di generi mestizos, spesso sfacciati e cafoni come nel caso del Messico, cristallini e puliti come i lavori di Nicola Cruz in Ecuador, o entità ancora nuove, sfaccettate tanto di provocazioni quanto di contraddizioni, ma non per questo meno reali delle precedenti.

Dalla musica di Elysia Crampton, giovane transessuale statunitense di origini boliviane, emerge il primario istinto di incollare insieme i pezzi di una tradizione ma a modo proprio, che ricrei un microhabitat di libertà intimissima, in nessun modo manipolabile. L’ibridazione qui è obliqua, multidirezionale, all’interno della quale si innescano processi molto simili all’alienizzazione accelerazionista alla Arca/Lopatin/M.E.S.H, che sostituisce alla tecnologia “che si guarda allo specchio”, la creazione di un linguaggio universale per chi come lei non sente più la necessità di barricarsi dietro a catalogazioni di genere o appartenenza sociale.

Tutto quello che produce è prodotto inevitabile della combinazione di queste prese di coscienza, a partire da quella asessuale e transgender, a quella che vede la naturale mescolanza di categorie come unico vero motore per una produzione artistica più matura. A maggior ragione se musicale. La bellezza sta nell’organicità che questa non-forma conferisce a una materia concepita per essere indefinibile, e che invece diventa spauracchio di una società squarciata dai suoi stessi tabù.

Più fluida è la percezione delle realtà che ci circondano a cui nostro malgrado apparteniamo, più sarà probabile che non ne rimarremo inorriditi. Il futuro è già pulsante di organismi antitetici agli standard dettati dalla consuetudine conservatrice, che ripudiano il concetto defraudante di “appropriazione culturale” e anzi lo promuovono come carburante necessario e indispensabile alla realizzazione di un sistema di convivenza tra culture/società/scene più equo. E il 2016 mi sembra un anno ragionevole per aprire definitivamente gli occhi—e le orecchie—di fronte a tale evidenza.

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