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A Proposito di Davis: il tuo bacio è come un folk

Come per "A Serious Man", nel film i Coen affrescano un'Appendice Ragionata di Tutte le Sfighe del Mondo (quelle applicabili agli individui sopra la soglia di povertà). Per queste ragioni, e per altre, Llewyn Davis è un film fenomenale.

A Proposito di Davis è il titolo italiano dato a Inside Llewyn Davis, il film dei Fratelli Coen in uscita questa settimana. All'interno del film, Inside Llewyn Davis è anche il titolo di un disco del protagonista, perché il protagonista si chiama Llewyn Davis, e perché il disco è un omaggio all'LP di Dave Van Ronk dal titolo, appunto, Inside Dave Van Ronk.

Forse come omaggio all'album di Alessio Colombini A proposito di me (1980), forse come omaggio a Francesco De Gregori che, non pago di avere intitolato un disco Francesco De Gregori, ne intitolò un altro De Gregori a quattro anni di distanza, la versione italiana di Inside Llewyn Davis si libera di Llewyn. Per rispetto ai gallesi, e per dovere di semplicità, d'ora in avanti ci si riferirà al film come Llewyn Davis.

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Llewyn Davis, il protagonista, è un cantautore folk nel 1961, due anni prima che venga pubblicato “The Freewheelin' Bob Dylan”. Si esibisce nei locali di New York, cerca di racimolare qualche soldo, dorme sui divani degli amici. Trascorre buona parte del film a rincorrere un gatto.

Un tempo suonava in un duo ma, adesso che nel duo non ci suona più, le cose non è che vadano alla grande. Llewyn Davis, il film, non è un biopic ma quasi. Innanzitutto, è il ritratto di una scena musicale in un momento ben preciso: una corrente artistica è in fermento, dei giovani si riversano nel Greenwich Village e iniziano a suonare pezzi tradizionali, e Bob Dylan è ancora a un passo dall'affacciarsi e provocare quello che a me e Noam Chomsky piace definire il maniomio.

Più in particolare, Llewyn Davis è liberamente ispirato a Dave Van Ronk, uno dei più celebri ripropositori di musica tradizionale, nonché ispiratore e fidata controparte di una serie di cantautori i cui nomi finiranno per essere molto più famosi.

Di Dave Van Ronk ci sono le copertine, qualche cenno alla sua autobiografia (Manhattan Folk Story), e un nome da vecchio continente. Per il resto, la sua biografia in senso stretto ai Coen non interessa, e Llewyn Davis è un grande biopic sul fallimento e sulla presa di coscienza del fallimento. Davis è bravo, molto bravo. Di bravi come lui ce ne sono svariati, ma di meno bravi di lui ce n'è un oceano. Lui ne è fin troppo consapevole, ma la sua bravura gli porta poco altro.

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Llewyn Davis prende una delle settimane più disperate della vita del suo protagonista e ci racconta che, alla fine dell'ora e quaranta trascorsa insieme, quando le luci si accenderanno e ci saluteremo, non è detto che le cose andranno meglio.

Come nel caso del tornado finale di A Serious Man (2009)—per molti aspetti, il film dei Coen più simile a questo—l'unico appiglio di speranza è quell'amarissimo, ineluttabile “Ricevi con semplicità tutto ciò che ti accade (Rashi).” E come in A Serious Man, i Coen affrescano un'Appendice Ragionata di Tutte le Sfighe del Mondo (quelle applicabili agli individui sopra la soglia di povertà).

Per queste ragioni, e per altre, Llewyn Davis è un film fenomenale.

I Coen hanno un invidiabilissimo senso dell'insieme. Le loro inquadrature sono il paradiso del montatore. Il loro direttore della fotografia ha trasposto la copertina New York di The Freewheelin' Bob Dylan, l'ha riempita di neve grigia, desaturazione e malessere, e si è fatto candidare all'Oscar. Le canzoni, quasi tutte registrate dal vivo, sono di una precisione acustica sconvolgente. Molti dei personaggi di Llewyn Davis compaiono in un paio di scene per non ritornare mai più, ma la loro presenza è sempre misurata al millesimo. Uno dei personaggi minori ha alcune tra le battute migliori dai tempi di Sy Ableman che conta.

Dai, il gestore del Gaslight Café si chiama persino Pappi Corsicato, esattamente come il regista italiano. (Forse i Coen avevano perso una scommessa.) Poi, c'è il cast. Justin Timberlake. “Justin Timberlake.” “Justin + Timberlake.” “Justin + Timberlake + suona + folk + video.”

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Carey Mulligan canta celestiale in una scena e la scena dopo la sua bocca produce un numero non quantificabile di parolacce, come se i saldi delle parolacce finissero domani, e domani costassero una cascata di euro, e ci si dovesse affrettare a comprarle tutte, e subito, anche per i parenti.

Su Oscar Isaac è già stato detto tutto il bene dicibile: il poverino è morto male in Drive ed è sopravvissuto a un film di Madonna, ma forse il suo destino era di superare questi ostacoli per ottenere, e impersonare in tal modo, un ruolo del genere. Davis è un personaggio difficile da amare. D'accordo, è in difficoltà, ma è uno stronzetto supponente, fin troppo autoconsapevole, sempre convinto di avere ragione; mette a disagio le persone con cui interagisce, tanto che spesso è il compito di terzi rompere il silenzio da lui creato. Sostiene di suonare per pagarsi l'affitto, ma non ha una casa, e se è per quello non sarebbe in grado di mantenerla. Probabilmente, scriverebbe per VICE.

Eppure, e qui è l'elemento prodigioso, la vita lo schiaccia, e mentre lo schiaccia, e le persone lo trattano sempre peggio, noi soffriamo per lui, e quando la sua scarpa si incastra nella neve fresca geliamo per lui. Non vorremmo mai e poi mai trovarci nei suoi panni—ma tutto sommato, vorremmo dargli una mano. Non è questo il primo film dei Coen ad avere una struttura che girovaga di capitolo in capitolo, con persone incontrate, e sfighe ricevute, e un nucleo di personaggi variabile.

Ma vuole il caso che sia il film dei Coen che più degli altri ha la struttura di un brano folk. È una serie di strofe, seguite da strofe, seguite da strofe, seguite forse da un middle eight (la parte del viaggio e la comparsa di John Goodman), seguito da una strofa, seguita da una strofa, seguita da una strofa. Anche se apprezzare il genere aiuta, Llewyn Davis non è soltanto un film sul folk. D'altra parte, come osservò una volta Louis Armstrong, “All music is folk music, I ain't ever heard a horse sing a song.”

Nel post precedente:

Lo Scorsese minore