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"Non mi sono unito ai talebani perché ero povero, ma perché ero arrabbiato"

Un report dell'associazione Mercy Corps condotto tra i giovani in zone di guerra ha dimostrato che povertà e disoccupazione non sono le prime cause della radicalizzazione.
Foto di Massoud Hossaini/AP

Si sente spesso dire che i milioni di giovani poveri e disoccupati che vivono alle periferie delle città sono il terreno perfetto in cui le ideologie estremiste possono attecchire. Ma è un mito da sfatare: le ultime ricerche hanno dimostrato che il primo motivo che spinge a unirsi agli estremisti è la rabbia, non la fame.

La radicalizzazione dei giovani emarginati, a livello globale—dall'Afghanistan alla Colombia, ai sobborghi di Parigi e Minneapolis—è in cima alla lista delle questioni di sicurezza nazionale di molti paesi.

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Mercoledì scorso alcuni funzionari americani si sono riuniti a Washington nel corso di un summit sugli esiti violenti dell'estremismo, per discutere ancora una volta quale sia il modo più efficace di contrastare le strategie di reclutamento dei gruppi estremisti, e affrontare sfide importanti, come l'informazione sui social media e le vie per instaurare rapporti con i leader religiosi.

Tuttavia, secondo un report pubblicato martedì dall'associazione Mercy Corps, i governi e gli analisti sanno ancora poco su cosa spinge i giovani a unirsi a insurrezioni o a un gruppo terroristico. Il report dichiara anche che per molti la decisione non dipende dalla povertà o dalla disoccupazione, ma piuttosto dall'ingiustizia, sommata all'esperienza della corruzione, dell'umiliazione e della violenza.

"Per molto tempo abbiamo creduto alla teoria secondo cui i giovani entrano a far parte di gruppi terroristici perché non hanno un impiego stabile o altre opportunità," ha dichiarato a VICE News Keith Proctor, autore del report. "Essenzialmente, questa teoria considera il terrorismo uno sbocco professionale. Noi non condividevamo questa convinzione."

Il team di Keith si è impegnato per confutare questa teoria, sia servendosi di ricerche statistiche sia conducendo sondaggi tra i giovani di tre paesi attualmente in conflitto. In Afghanistan, Somalia e Colombia i ricercatori hanno constatato che la tesi "occupazionale" non era applicabile.

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"Ci siamo resi conto che la disoccupazione non è un motivo necessariamente scatenante per unirsi ai gruppi ribelli," continua. "Un indicatore molto più affidabile è l'esperienza dell'ingiustizia, della discriminazione, dell'emarginazione, essere vittima di corruzione, di violenza fisica, di abusi da parte della polizia, oppure avere un famigliare ucciso dalle forze dell'ordine. Ovviamente non significa che nessuno entra a far parte di un'organizzazione terroristica o di una milizia armata anche perché non ha un lavoro. Semplicemente, non è la regola."

"Se la povertà e la disoccupazione fossero le cause, il terrorismo sarebbe ben più diffuso," aggiunge Proctor. "Ci sono milioni di persone che vivono nella miseria—perché così pochi si arruolano nelle milizie armate? Il fatto è che per la maggior parte i giovani sono pacifici, vogliono un futuro e spesso sono ottimisti malgrado le circostanze."

Foto di

Miguel Samper/ Mercy Corps

Non denaro ma dignità
La teoria che considera le società con popolazione giovane in crescita più inclini al conflitto, alla violenza e al terrorismo, è da tempo prediletta dagli esperti di guerra e dai governi, e ha suscitato molta preoccupazione nei confronti di milioni di giovani "inattivi"—soprattutto di colore o mediorientali—nel mondo. Questi giovani sono spesso descritti come una "bomba a orologeria", pronti a subire l'influenza dell'estremismo. Queste supposizioni hanno condizionato le politiche di tutto il mondo, dagli investimenti all'istruzione alla lotta alla criminalità.

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Sfatare questo falso mito è importante, perché su di esso si basano le azioni dei governi, continua Proctor. Per esempio, il finanziamento di programmi di aiuti che non sfiorano nemmeno la radice del problema e iniziative di reintegrazione economica a breve termine che non risolvono la situazione, esacerbando anzi la frustrazione.

"Non è la disoccupazione, è l'ingiustizia," ribadisce Proctor. "In futuro per far fronte al problema dovremo riconsiderare cosa esattamente stiamo finanziando e perché, e cosa dobbiamo cambiare."

Una parte del problema interessa la struttura di molte associazioni per lo sviluppo e l'importanza che attribuiscono a risultati nel breve termine—e a bruciare grandi somme di denaro in poco tempo, spesso senza conoscere i bisogni della popolazione locale, inclusi i giovani.

"È il modo in cui forniamo aiuti per lo sviluppo che può fare davvero la differenza, possiamo fare del bene se gli aiuti sono mirati e fatti con criterio, altrimenti gli effetti possono anche essere molto negativi," sostiene Proctor, aggiungendo che dovremmo assicurarci "che i giovani ci aiutino a guidare i nostri sforzi e siano parte attiva del processo. Non dobbiamo considerarli solo come destinatari dei nostri aiuti, ma protagonisti e nostri 'soci'."

Ma anche troppi aiuti finanziari possono rappresentare un problema.

Il report mostra che in Afghanistan, per esempio, miliardi di dollari inviati come finanziamenti hanno contribuito alla corruzione, agli abusi e alle manovre illegali del governo. Il che ha portato a una crescita della rabbia e dell'alienazione dei giovani del paese.

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Anche se queste circostanze sono spesso interconnesse, sono la corruzione, il nepotismo e la discriminazione le cause maggiori della violenza, non semplicemente la povertà o la disoccupazione.

"Non sono queste le cose contro cui si combatte," ha detto un giovane afghano ai ricercatori.

"Non mi sono unito ai talebani perché ero povero," ha detto un ex militante, entrato nel gruppo estremista a 18 anni, in seguito a un attacco della NATO che aveva colpito la sua scuola. "Mi sono unito a loro perché ero arrabbiato. Perché siamo stati ingannati."

Foto di

Miguel Samper/ Mercy Corps

Non ideologia ma circostanze
Secondo i ricercatori, anche l'ideologia è molto meno responsabile della radicalizzazione rispetto all'esposizione alla violenza.

Quando i giovani scelgono di far parte di un gruppo armato piuttosto che di un altro, "risultano più determinanti la geografia e la storia personale," sostiene Proctor.

"In Colombia, per esempio, abbiamo rilevato che la ragione per cui alcuni sceglievano un determinato gruppo armato non era necessariamente l'ideologia, ma il fatto che quel determinato gruppo si trovasse nel loro quartiere," ha aggiunto.

Il report mostra come il denominatore comune tra le cause che spingono i giovani intervistati ad arruolarsi in una milizia armata è la rabbia. Anche se la Mercy Corps si è concentrata sui giovani nelle zone di guerra, gli stessi fattori psicologici potrebbero essere alla base della radicalizzazione di quelli che vivono in Europa Occidentale o negli Stati Uniti, dato che anche qui, secondo i ricercatori, è l'alienazione (e non la povertà) a essere la comune causa scatenante.

Molti dei giovani che hanno lasciato l'Europa e il Nord America per unirsi allo Stato Islamico sono immigrati di seconda generazione che non hanno un vero e proprio legame con il paese d'origine, e al tempo stesso sono comunque emarginati. La povertà non è quasi mai un fattore determinante, tanto che alcuni si sarebbero lasciati alle spalle un contesto privilegiato—come il combattente inglese noto col nome di "Jihadi John," cresciuto in un quartiere ricco di Londra.

"È difficile non notare dei parallelismi anche nei paesi occidentali e sviluppati, soprattutto tra gruppi di persone che si sentono scollegate o alienate dalla società che le circonda," aggiunge Proctor. "Dobbiamo far sì che i giovani abbiano concrete possibilità di essere parte della loro comunità, della società in cui vivono, e dobbiamo ascoltare le loro rimostranze, che in molti casi sono più che lecite."

Segui Alice Speri su Twitter: @alicesperi