FYI.

This story is over 5 years old.

Cibo

Ecco come frequentare uno chef mi ha convinta a non frequentarne più nessuno

Per quattro mesi le mie serate sono state delle rivisitazioni de La grande abbuffata, mancavano solo le prostitute. In compenso, però, queste mie orge culinarie presentavano un non trascurabile effetto collaterale: il vuoto intellettuale.

Se durante il liceo mi aveste detto che gli apprendisti cuochi con cui prendevo l'autobus la mattina, proprio quelli lì brufolosi e non esattamente aitanti, sarebbero diventati i maschi alfa della mia futura vita parigina dieci anni dopo, sarei scoppiata a ridere. Innanzitutto, perché il mio scarso interesse nel cibo avrebbe vissuto esigui sviluppi solamente negli anni scolastici successivi, dato che la mia alimentazione di allora si basava solo su patatine Cheetos, tarama e Bolinos.

Pubblicità

In secondo luogo, perché in quegli anni la figura mitologica dello chef francese così come viene promossa oggi era unicamente riconducibile a personaggi come l'amabile Maïté, Jean-Pierre Coffe oppure Joël Robuchon, protagonista del famoso programma TV francese Bon Appétit Bien Sûr. Quest'ultimo cercava di mantenere promesse ben precise, ovvero di mostrarci un tipo di cucina tutta salse e carne macellata, pesante tanto quanto le battutine sporche che i futuri eredi cuochi amavano raccontare sull'autobus la mattina.

Non saprei spiegare né come né quando gli chef siano esattamente riusciti a conquistare il nostro cuore, spegnendo la luce dei riflettori che illuminava l'archetipo del DJ bello, dannato e possibilmente squattrinato, o anche del commesso di Colette. Che la ragione sia riconducibile al programma TV di Bourdain? O possiamo considerarla una conseguenza diretta del trend #foodporn? O ancora: gli chef devono il loro sex appeal a Darwin, o al genio anonimo dietro a Fais-moi une piperade, che tutti ricordano come un'ode avanguardistica ai piaceri del palato e della carne?

E in effetti, anche solo scrivendo queste parole, sento che una fantasia piena di chef sofisticati, creativi, ecologisti e brillanti stia pian piano prendendo forma. Parlo della stessa attrazione che ha generato un'intera stirpe di groupie dei chef, fra cui possiamo annoverare Sophie Marceau, che è capitombolata ai piedi di un aitante chef francese, e anche Grace Codding, ammirabile in tutto il suo splendore in diverse foto con il famoso chef americano David Chang. Ovviamente non possiamo dimenticare R. Kelly, che nella sua In the Kitchen decantava fantasie sessuali praticate su dei fornelli a induzione.

Pubblicità

Nel giro di poco tempo mi sono ritrovata risucchiata dentro a un vortice Rabelaisiano pieno di bottiglie di vino grand cru, di affettati selezionati e battute zozze non-stop.

E poi ci sono io. Eh già. Indovinate chi, per sei mesi, si è completamente infatuata di un ragazzo che preparava dei panini talmente buoni da perderci la testa? Mi recavo nel suo negozio ogni giorno a pranzo e rimanevo lì, a guardarlo. Lui tagliava il prosciutto e io pensavo che, più o meno, quella scena sarebbe potuta tranquillamente essere paragonata a film porno.

È stato durante quel periodo, più esattamente in una fredda serata di febbraio, che gli dei della gastronomia hanno fatto irruzione nella mia vita sbucando fuori da uno squallido bar. "Vuoi vedere qualcosa di divertente?", mi aveva chiesto uno di loro, presentandosi. Non avevo fatto in tempo nemmeno a rispondergli che si era già tirato su la maglia, mostrandomi un braccio marmoreo adornato con il tatuaggio dello stemma della sua terra natia. Avevo riconosciuto i vari simboli nel giro di pochi secondi, perché la sua patria era anche la mia. Sono poi bastati un gin tonic, due Pernod Ricard e cinque o più shot per sapere dove lavorasse (parliamo di una delle cucine più rinomate della città), che non avesse mai visto il Trono di Spade (nonostante somigliasse a uno dei suoi protagonisti), e soprattutto che volesse rivedermi.

Ed ecco come io mi sia alla fine ritrovata a frequentare un giro di ragazzi con le guance rosee, l'accento del sud e una particolare predilezione per il nomignolo "pollastra". Evidentemente chiamarmi per nome era troppo complicato. Nel giro di poco tempo mi sono ritrovata risucchiata dentro a un vortice Rabelaisiano pieno di bottiglie di vino grand cru, di affettati selezionati e battute zozze non-stop.

Pubblicità

C'era chi aveva i giudici degli show dedicati alla cucina, chi chef pluristellati, chi ancora prodigi della gastronomia … e poi c'ero io, che davanti agli occhi mi ritrovavo la crème de la crème della cucina francese gettata in pattumiera, scene di birre bevute dai caschi della moto, e tentativi di simulazione di Jackass che sembravano una buona idea proprio solo quando il sangue era pieno di alcol. Ero scioccata: a poco più di 800 chilometri di distanza dai miei adorati Paesi Baschi ero finita in un vortice spazio-temporale che, poco dopo, mi aveva risputata in quello che è l'inferno perpetuo del Fêtes de Bayonne.

Desideri di morte inclusi, per quattro mesi le mie serate erano praticamente delle rivisitazioni de La grande abbuffata, mancavano solo le prostitute. Vi spiego, le nostre serate si svolgevano in questo esatto ordine: bevute di alcol, cibo, altre bevute, cercare altri posti in cui bere, ordinare tutti gli stuzzichini e degustazioni possibili nei ristoranti di lusso, ingurgitarle in otto minuti esatti, recarsi in altri bar o cucine, abbuffarsi di altro cibo, uscire fuori pieni come un otre, ordinare altre bottiglie magnum, arrampicarsi fino all'ultimo piano di un bistro e iniziare a battere i pugni sul petto come Godzilla. Sbucavamo all'ultimo minuto chiedendo di poterci sedere nonostante il ristorante fosse pieno, ottenendo sempre e comunque il tavolo migliore. Non dovevamo poi nemmeno guardare il menù, perché arrivava subito lo chef a salutare i miei (nuovi) amici rifornendoci dei migliori piatti esclusivi, cucinati appositamente per noi.

Pubblicità

È un po' triste da dire, però io e il mio chef non scambiavamo mai più di quattro frasi di fila. Il cibo, come mi son resa conto nel giro di poco tempo, era la sua fonte di espressione primaria.

Sfortunatamente queste favolose orge culinarie presentavano un non trascurabile effetto collaterale: il vuoto intellettuale. Ogni conversazione, eccetto quelle rare accese dalla politica nazionalista ("ahahah, e adesso vedremo chi riderà alle elezioni del 2017!"), vertevano solo ed esclusivamente sul cibo. Durante tutti e quattro i mesi di frequentazione mi sono sentita privata delle gioie del gossip, compreso quello legato al noto magnate del petrolio che, non si sa perché, aveva prenotato due piani interi di un altrettanto famoso palazzo parigino e assunto uno chef personale che cucinasse per lui durante tutto il periodo del soggiorno nella capitale francese. Leggenda vuole che lo chef potesse usasse solamente prodotti importati dagli Emirati Arabi Uniti e, per la maggior parte delle volte, solo sughi alla bolognese Panzani con l'etichetta scritta in arabo. Una volta un cliente aveva chiesto al personale di quella cucina di rimanere disponibile fino al suo ritorno. Poiché poi questo cliente al palazzo non era più tornato e sia lo chef che il personale erano stati costretti a rimanere svegli tutta la notte, il magnate li aveva ripagati con quello che equivale allo stipendio di un mese.

Inevitabilmente, finivamo sempre nel solito club da "tre sale per tre DJ" dove la maggior parte della clientela cantava a squarciagola Les Lacs du Connemara fermandosi solo quando era ormai svenuta a terra per via dell'alcol.

Pubblicità

È un po' triste da dire, però io e il mio chef non scambiavamo mai più di quattro frasi di fila. Il cibo, come mi son resa conto nel giro di poco tempo, era la sua fonte di espressione primaria. Per dirmi che gli piacevo faceva cose come grattugiare del tartufo sulle mie uova, oppure rimpinzarmi di foie gras fino a quando non esplodevo. Ecco, potrei descrivere la nostra relazione come un baccanale ben collaudato che lui mandava all'aria non appena subentrava l'alcol.

La poesia è definitivamente passata quando, una sera, l'ho visto barcollare nel mezzo della strada e tirare il casco contro il parabrezza di una macchina il cui autista era "colpevole" di avergli suonato il clacson. È lì che la mia testa ha sbattuto contro la realtà dei fatti, infrangendo lo specchio della fantasia. La realtà mi aveva mostrato quanto duramente dovessero lavorare i guardiani della vera eccellenza gastronomica. Le loro cucine pluripremiate funzionano sulla base di turni lavorativi di dodici ore per sei giorni alla settimana, sacrifici costanti, buone maniere e talento nel preparare piatti dai sapori egregiamente squisiti, le cui fragranze ricercate contrastano quelle delle loro esistenze decisamente non altrettanto rilassate e lussuriose.

E io non penso riuscirò mai a ringraziarli abbastanza per questo.


Questo articolo è originariamente apparso su MUNCHIES France nel febbraio del 2016.