Di cosa parliamo quando parliamo di appropriazione culturale?

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Di cosa parliamo quando parliamo di appropriazione culturale?

Il mito del melting pot e dell'omaggio al “diverso” negli anni ha toccato vette di ipocrisia memorabili, nella musica come nella moda (ultimo esempio: la nuova collezione di Gucci), con questa riflessione proviamo a fare un po' di ordine.
Sonia Garcia
Milan, IT

Tra gli undici e i quindici anni circa, a metà anni 2000, ho fatto parte della squadra di pallavolo di un paesino della provincia di Arezzo, dove mi ero trasferita con la mia famiglia di origine peruviana. È stato tutto fuorché un’esperienza felice: odiavo le mie compagne e loro odiavano me. I motivi erano più o meno associabili al fatto che ero nuova, meno brava di loro, e per la maggior parte del tempo sola. Non conoscevo nessuno, mentre loro sembravano essere tutte amiche da una vita. A fine allenamento rientravamo nello spogliatoio e spesso le sentivo ridacchiare alle mie spalle, commentando quanto non fossi stata in grado di fare quella o l’altra cosa, sfottendomi di conseguenza. Non ho mai protestato, né sono mai corsa a piangere dall’allenatrice o dalla mamma; tacevo e disprezzavo in silenzio, contenta che la mia vita sociale non ruotasse attorno a quelle che mi bastava definire “sfigate”, ma alle mie vere amiche che vedevo in città.

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Un giorno, a fine di un allenamento, sento le solite lagne da parte delle cape della squadra, un po’ più sfacciate del solito. Una di loro si avvicina, e fa: “Dai Sonia, non ti hanno insegnato a giocare nel posto da dove sei venuta? Senti ma… perché non ci torni? Ce li avete i palloni?” Ridacchiano un po’ tutte, non ricordo neanche cosa le abbia risposto. Probabilmente nulla. Non ero più incazzata di altre volte, non ho interpretato la cosa in modo melodrammatico, mi sembrava coerente con la bassezza dei personaggi in questione. Solo mi sono giurata che non avrei mai smesso di odiarle per tutto questo, e così è stato. Mi sono rapidamente lavata di dosso l’esperienza dimenticandomi di loro, o meglio, tornando ogni tot a guardare come se la passavano su Facebook, per farmi due risate.

Qualche tempo fa è capitato che, annoiata, abbia ritrovato il profilo di Giulia, la stronzetta che ridacchiando mi aveva consigliato di “tornare da dove ero venuta”. Ho appreso così la sua attuale professione: insegnante di reggaeton.

È stato catartico. La tipa che mi aveva sfottuto perché “diversa”, di fatto latina, adesso non solo è fan numero uno dei balli latinoamericani (zumba, salsa, bachata), ma ne ha fatto la sua ragione di vita, nonché la sua professione. Su Instagram scrive e parla in spagnolo (se lo sarà dovuto imparare, dopotutto) e non esita a ballare tutte le migliori hit di J Balvin, Daddy Yankee, etc, con tanto di hashtag #latina #reggaetonera #saborlatino #muchoflow. Insomma, la responsabile di quell’unico episodio di razzismo rimasto scolpito nella mia memoria da quasi quindici anni, indisturbata, oggi fa il possibile per sembrare quello che non è, abbracciando una cultura non sua (e a me recriminata) nell’ammirazione generale delle persone che la circondano, catturate dal lato “esotico” della faccenda. Nessun testo accademico di critica all’appropriazione culturale raccolto negli ultimi anni è stato così efficace come l’epilogo di questa breve storia triste.

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Giulia non si può dire certo in cattiva compagnia, in questo avvincente percorso: un po’ tutte le reginette bianche del pop statunitense, da Miley Cyrus, a Katy Perry, a Gwen Stefani, hanno dedicato alcuni anni della loro vita a sposare usi, costumi e immaginari di altre culture per rendere più appetibile la loro musica, e quindi loro personaggio pubblico. Chissà se farà la fine di Miley, ad esempio, che dopo 4 anni di totale immedesimazione nella cultura nera (ricordiamo il twerking, le treccine e i dreadlock, durante la sua parentesi hip-hop) l’anno scorso “è maturata” ed è passata al country. Se da una parte c’è chi si permette il lusso di provare (o sperimentare?) elementi di culture non proprie come fossero abiti, per poi all’occorrenza sfilarseli e dedicarsi ad altro, dall’altra ci sarà sempre chi a quel mondo apparterrà per sempre, per il semplice fatto di non essere occidentale, che quindi avrà tutto il diritto di sentirsi beffato di fronte alla Miley di turno.

Miley Cyrus con i dread.

Parlando di vestiti e di moda, altrettanto di cattivo gusto è stata la sfilata di Gucci della scorsa settimana, alla Fashion Week di Milano. Ad essere criticate sono state le scelte artistiche di Alessandro Michele, direttore creativo del brand di alta moda, che, tra le tante cose, ha fatto indossare a una maggioranza di modelli bianchi turbanti Sikh, hijab, bindi, ornamenti dalla forma di architetture orientali, etc. Il brand è stato accusato di appropriazione culturale, cioè di aver decontestualizzato e oggettificato elementi sacri di culture minori (in questo caso arabe/orientali) trasformandoli in accessori di alta moda. La quasi totale assenza di modelli di colore, in una circostanza già particolarmente controversa, non ha contribuito a rendere la sfilata più facile da digerire. Comunità sikh, arabe, e in generale di minoranze etniche e di colore di tutto il mondo, si sono scagliate contro l’iniziativa di Gucci, con un unico messaggio di rabbia: mentre sfilate con i nostri oggetti sacri, fate parlare di voi grazie a elementi di culture che non vi appartengono. Nel frattempo i membri effettivi della nostra comunità (che indossano gli stessi oggetti) vengono aggrediti, discriminati ed emarginati, solo per il fatto di non essere vostri modelli.

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Non mi ha stupito nessuno di questi fenomeni: né la trovata di Gucci, né le lecite critiche delle comunità di colore, né le critiche alle critiche ad opera della popolazione più ottusa, prevalentemente bianca, che casca dal pero e non capisce dove sia il problema. La loro retorica, di fatto va a difendere l’appropriazione culturale, riparandosi dietro al pretesto dell’apprezzamento-non-appropriazione, in nome di un multiculturalismo performativo, fondato sulla contemplazione estetica della diversità e non sul suo reale rispetto.

Sarebbe utile dibattere sul significato di multiculturalismo nel 2018, ed è un peccato che sia diventato lo slogan del liberale medio, a cui basta sostenere il proprio “amore incondizionato verso le altre culture”, per silenziare il tessuto di ingiustizie e disuguaglianze sociali che sta letteralmente soffocando le minoranze da cui la società dominante attinge ogni giorno. Non a caso decolonizzazione, smantellamento della white supremacy e maggior rappresentazione mediatica delle diversità vanno di pari passo con il dibattito sui fenomeni appropriativi. È essenziale cogliere la trasversalità di queste lotte, e per un dialogo realmente costruttivo e lontano da ulteriori banalità, è bene delineare alcuni punti che chi vuole farsi un’opinione sull’appropriazione culturale, dovrebbe interiorizzare.

Nessun ambito è immune dai processi appropriativi, ma questo non li rende meno ingiusti.

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La premessa necessaria è che viviamo in una società fondata sull’appropriazione e l’assimilazione di culture minori; non avremmo di che vivere se tale processo dovesse cessare, e ciò si manifesta sotto più forme. Sul piano pratico, la tipa che tredici anni fa mi sfotteva per essere sudamericana e adesso lavora come insegnante di reggaeton e Gucci agiscono secondo lo stesso meccanismo oppressivo, ma applicato su scale diverse. Non è certo l’unico esempio di dinamica appropriativa che ha luogo in Italia: musica, arte, cinema, spettacolo, editoria, clubbing, underground e pure una bella fetta di attivismo politico, campano di processi assimilativi, restii a creditare/rendere le loro iniziative realmente accessibili alle diversità che dovrebbero tutelare. Non mi scorderò mai una serata di un festival a Milano relativamente grosso, il cui act principale era un divo del baile funk carioca, genere urbano paragonabile al reggaeton, estremamente popolare in Brasile. Penso: chissà quanti brasiliani ci saranno, essendo un nome così grosso. Manco a dirlo c’erano solo italiani, e il biglietto costava 30 euro. Per non parlare degli eventi “black” organizzati da e per un pubblico bianco, o il giornalismo musicale che tratta realtà non occidentali come fosse un atto di “scoperta” o validazione, oppure lei.

Non si tratta solo di appropriazione, ma di sistema “multiculturale” ipocrita e fallace.

Il mito del melting pot, della celebrazione e/o omaggio al “diverso” negli ultimi anni ha toccato vette di ipocrisia memorabili. Non c’è neanche bisogno di scomodare l’appropriazione culturale in senso canonico. Personalmente mi basta sapere che esistono reality in prima serata in cui i protagonisti, esponenti di un occidente “sviluppato”, spettacolarizzano la loro interazione con membri di un terzo mondo povero e narrativamente stereotipato, per darmi conferma di qual è la reale percezione del diverso della maggior parte degli italiani, in questo particolare momento storico.

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L’appropriazione culturale, in questo quadro, non è che la punta dell’iceberg di un sistema fallace e disonesto, in cui basta dichiararsi “antirazzisti”, pro ibridazione di culture, vivere in quartieri multietnici, avere fidanzati/amici stranieri per giustificare qualunquismi in stile: “Non esistono culture, siamo tutti uguali, abbiamo diritto di comportarci come vogliamo, ovunque vogliamo.” Globalizzazione non significa automaticamente annullamento della diversità culturali: la buona (per alcuni cattiva?) notizia è che tutti i membri di qualsiasi società hanno, loro malgrado, una cultura di riferimento. Andate a chiederlo ai sikh di Londra menati in metro mentre Gucci portava in passerella i loro turbanti, a ogni singolo kebabbaro, o ristoratore dei vostri ristoranti “etnici” preferiti, se anche per loro non esistono culture. Può sembrare sconvolgente, ma le culture esistono eccome, e non serve neanche così tanta umiltà per rendersene conto. Facile essere così spensierati quando si è da sempre membri del contesto socio-culturale più influente e ricco, che quindi garantisce maggiore libertà di espressione, azione, pensiero, movimento.

Il dibattito non è un "trend da social", ma nel caso siamo grati alla diffusione/visibilità che grazie alle piattaforme di condivisione il dibattito ha guadagnato.

Trovo adorabile la gente che vede la questione come “nuova” solo perché gran parte delle minoranze interessate trovano sempre più il coraggio di condividere esperienze di ogni tipo sui social. Altra amara verità: è una discussione che va avanti da quando le civiltà del pianeta hanno iniziato a collidere e conquistarsi a vicenda, quindi è letteralmente un dialogo aperto da sempre. Fa comunque tenerezza chi pensa che sia tutta una trovata mediatica volta a giovare sul capitale sociale del/la woke di turno su Instagram—se poi succede, che dire, buon per lui/lei. Non è neanche una locuzione “bigotta” (lol) volta a ghettizzare le culture o a sterilizzarle, e non ha nulla di fraintendibile.

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Non è vero, poi, che ci sia una gerarchia di “battaglie”: da una parte i reali problemi dell’Italia, Salvini, i fascisti, la disoccupazione, dall’altra il dibattito “social” sull’appropriazione culturale, la scarsa rappresentazione/inclusione di minoranze, la decolonizzazione delle menti, e via dicendo. Come se non avessero un denominatore comune. Come se anzi non fossero lati della stessa medaglia.

Se il vostro unico contributo al dibattito è “allora dovremmo bruciare tutti i Domino’s Pizza” siete fuori strada: si parla di appropriazione non solo quando la direzionalità del processo appropriativo avviene da una cultura dominante a una minore, ma quando entra anche in gioco il fattore coloniale e il conseguente sbilanciamento di potere tra le due culture. Da primo mondo a primo mondo questo sbilanciamento non è possibile, perciò no: le multinazionali di pizza statunitensi non si stanno appropriando culturalmente di nulla.

Fate un rapido check dei vostri privilegi, ed educatevi un minimo prima di sproloquiare su quanto il mondo sia rose e fiori, la cultura una sola, la vostra maglia “We are all immigrants” vessillo di autentico antirazzismo. Non umiliate l'intelligenza collettiva con altri paragoni inconsistenti tra i modelli di Gucci con il turbante sikh, ristoranti fusion e le donne nere con i capelli ossigenati: non è, né sarà mai la stessa cosa, per le diseguaglianze di potere spiegate sopra. Gucci è un brand di alta moda che come qualsiasi altra azienda è interessato a fatturare, le donne nere la categoria a cui per secoli è stato lavato il cervello su quanto non rispondessero esteticamente ai veri ideali di bellezza europei. Così come non esiste “il razzismo verso i bianchi” non esiste neanche l'appropriazione culturale “al rovescio”, ovvero da cultura minore a dominante. Quel processo inverso esiste già, riguarda il sud globale, è già stato definito e ha un altro nome: neocolonialismo.

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Personalmente non sono in guerra contro i naturali e necessari processi di contaminazione tra culture: trovo solo importante che, quando ciò avviene tra culture sbilanciate economicamente, venga garantita una sopravvivenza degna e non oggettificata a quella situata più in basso.

Lo sappiamo l'Europa non sono gli USA, ma sorpresa: siamo sempre nel nord globale.

Essere nati, cresciuti e di fatto appartenere a una società collocata nel lato privilegiato del mondo ci rende beneficiari di un sistema economico, politico e culturale di gran lunga più avvantaggiato di quello di un qualsiasi altro paese nel sud, dalla cui diaspora provengono gran parte dei dibattiti sull’appropriazione. I discorsi sull’inesistenza di proprietà intellettuali quando si parla di culture altre da quella di appartenenza alimentano la narrativa tossica e imperialista descritta prima. In pratica autorizzano e giustificano il nord globale a non riconoscere i propri privilegi, al momento di interagire e convivere con il sud.

Sembra che ci sia un oblio generale sulla posizione geopolitica dell’Italia: si tende a non considerare che ci troviamo in pieno primo mondo, viviamo di riflesso (come tutta l’Europa) la realtà statunitense e ne siamo influenzati in ambito economico e/o socio-politico dal 1947, quando venne indetto il Piano Marshall. Sono molto critica verso i tentativi di universalizzazione dei modelli statunitensi di attivismo e progressismo. Sono tutto fuorché filoamericana e più in generale detesto riferirmi agli Stati Uniti come all’“America”. Tuttavia, Europa e USA sono l’occidente per eccellenza, e in quanto tali godono di una continuità culturale ed economica riflessa nelle rispettive società.

Dico questo perché la prima cosa che amano ribattere i millennial woke italiani quando si cerca di illustrare i motivi per cui dovremmo darci tempo e spazio anche per parlare di appropriazione: “Sì, ma non siamo negli USA, il tessuto sociale è diverso, le identity politics qua non funzionano, di conseguenza l’appropriazione culturale non esiste in quei termini, né se ne può discutere.”

Già, allora tanto meglio appiattire ogni esperienza di diversità culturale fiorita sul territorio italiano perché “troppo identity politics americana”. Meglio far finta che gli italiani di colore abbiano le stesse identiche esperienze degli italiani bianchi, che il razzismo sia quello dei fascisti e della Lega e che uno straniero valga qualcosa solo quando pienamente integrato/assimilato al prezioso “tessuto sociale” italiano. In quanto membro di una minoranza etnica che in Italia non trova alcun tipo di rappresentazione trovo stimolante seguire e solidarizzare con i movimenti di altri Paesi volti alla tutela e preservazione delle stesse, sul loro territorio. E sarà così fino a quando non cambierà qualcosa anche in Italia. Fateci l’abitudine, perché una persona di colore avrà sempre molte più probabilità e motivi di una caucasica, per denunciare fenomeni come l’appropriazione culturale.

Sono tentata di mandare questo articolo a quella mia ex compagna di pallavolo…

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