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Musica

Recensione: Giardini Di Mirò - Different Times

La band emiliana fa musica per portarci via dallo scempio dei nostri tempi, almeno per la durata di un disco.
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Ormai da dieci anni i Giardini Di Mirò alternano lavori in studio “normali” alla realizzazione di colonne sonore per film muti, e dopo aver musicato Rapsodia Satanica di Nino Oxilia del 2014 era tempo di tornare a una manciata di canzoni slegate dalla celluloide. Si nota subito che in Different Times la differenza, se c’è, non va cercata nella musica: la titletrack è un po' più prodotta e leggermente meno esplosiva rispetto agli esordi del gruppo ma le chitarre rotonde, gli effetti morbidosi e sognanti, gli umori malinconici da romantici impenitenti che guardano fuori dalla finestra sulla piazza di Cavriago sono ancora lì. Oggi non sorprendono più come venti o tantomeno trent’anni fa, ma a tutto questo i Giardini Di Mirò non hanno voluto rinunciare.

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Però i tempi sono diversi, e allora in copertina ci mettiamo la Cina e nel disco ci mettiamo deglI ospiti che arrivano da mondi completamente diversi. Niente Emidio Clementi, con cui Nuccini ha fatto un sacco di cose interessanti negli ultimi anni (tanto da meritarsi addirittura una dedica da Mimì versione Sorge). Niente Max Collini, con cui Reverberi ha portato in giro un po’ di nostalgia commie grazie a Spartiti. NStavolta gli emiliani cercano di uscire un po’ da quella comfort zone costruita in tanti anni di fatica e militanza e di aprirsi un po’ di più, di essere trasversali. Subito dopo gli otto minuti di strumentazione pura e libera e super arrangiatissima di "Different Times", Adele Nigro è la prima ospite, per portare i toni sul dreampop minimale: "Don’t Lie" è un po' Beach House, un po' primi ‘90 di casa 4AD però più caldi. Segue l’ex God Machine e mastermind dei Sophia Robin Proper-Sheppard, sicuramente il più “vicino” ai Giardini Di Mirò tra gli esterni presenti, e "Hold On" è tutta un programma fin dal titolo: teniamo botta, non si molla un cazzo.

"Pity The Nation" invece musicalmente è il pezzo che impressiona meno, scontatello nel suo incedere lineare, ma il messaggio mutuato dalla poesia di Lawrence Ferlinghetti è tanto semplice quanto tristemente attuale. Si passa a Glen Johnson, ormai orfano dei suoi Piano Magic, che pur con tutti i loro sonni turbati sono stati più vicini alla forma canzone della media dell’opera dei Giardini, anche se Johnson qui risalta soprattutto come crooner. Qualche tentativo di accorciare i tempi anche per gli emiliani, che ora infilano tre pezzi tra i tre e i cinque minuti, conferma che i Giardini danno il meglio sulle dilatazioni, quando non cercano di essere sintetici ma si prendono il loro tempo per sviluppare tutto il loro spettro emotivo: moooolto meglio "Landfall", quello da cinque, che "Void Slip" e "Under", che puzzicchiano di una nostalgia indie di cui nessuno sente il bisogno. Chiude "Fieldnotes", un’ode allo shoegaze di Slowdive e Ride costruito con l’aiuto di Daniel O'Sullivan, che dai Big Pink agli Ulver ai concerti dei Sunn O))) ormai ha in mano le chiavi del mio cuore.

Alla fine i tempi cambiano, sono diversi, e fanno pure abbastanza cacare. Però i Giardini Di Mirò, pur non brillando e sorprendendo come quindici o vent’anni fa (ma magari sono solo io che ho perso la capacità di meravigliarmi e sono diventato un vecchio trombone), riescono ad essere accoglienti. A confortarmi, a farmi sentire a casa. Ora se ne andranno in Cina per un tour, poi torneranno a Cavriago, riprenderanno a passeggiare in piazza Lenin e, ne sono convinto, resisteranno. Resisteranno al tempo, al dolore, all’odio, alla politica e alla politica del dolore e dell’odio. E la loro musica sarà sempre pronta a portarci tutti via da questo scempio, almeno per la durata di un disco.

Different Times è uscito il 30 novembre per 42 Records.

Ascolta Different Times su Spotify: