Mangeresti mai cibo cucinato da chef sieropositivi?
Foto per gentile concessione di Bensimon Byrne.

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Cibo

Mangeresti mai cibo cucinato da chef sieropositivi?

Un pop-up restaurant in Canada ha aperto il dibattito su AIDS e cibo.

Un recente studio ha mostrato come solo 1 canadese su 2 mangerebbe del cibo cucinato da uno chef sieropositivo. Il June’s Eatery cercherà di cambiare le cose.

Guy Bethell non aveva mai preso in considerazione l’opzione d’intraprendere la carriera da cuoco. Dopotutto suo fratello è un cuoco professionista e lui non riusciva a stare al passo.

“La mia cucina è piuttosto semplice. Spezzatini e zuppe,” mi spiega Bethell. “Mio fratello è un cuoco, quindi io sono un po’ viziato.”

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L’atteggiamento di Bethell verso la cucina sta cambiando. La fiducia nelle sue capacità da cuoco è infatti cresciuta negli ultimi giorni, perché Guy si è ritrovato parte della squadra di 14 chef che ha prestato servizio al June's Eatery, un ristorante di Toronto, in Canada, qualche settimana fa. Per due giornate il June’s Eatery, in collaborazione con la Casey House il primo (e al momento l’unico) ospedale canadese che si prende cura dei sieropositivi e dei malati di AIDS, e le agenzie Bensimon Byrne e Narrative, ha aperto il primo ristorante pop-up con all’interno un personale composto interamente da persone sieropositive. Non si è trattato di chef professionisti bensì amatoriali, che amano cucinare per hobby ma che, per un motivo o per l’altro, non hanno mai avuto la possibilità di ritrovarsi dietro il bancone di un ristorante.

Il ristorante pop-up della June’s Eatery è legato alla campagna della Casey House per rompere tutti i pregiudizi che girano attorno alla sieropositività e all’AIDS, e mira a distruggere lo stigma un piatto alla volta.

Il lavoro principale di Bethell è nel governo provinciale, perché si tratta di un settore a cui ci si può (più o meno) facilmente affacciare quando si è sieropositivi. Tuttavia, da un punto di vista sociale e non lavorativo, i livelli di insensibilità mostrati da diverse persone hanno toccato picchi elevati, nel corso della sua vita. Alcuni rapporti si sono addirittura affievoliti quando Bethell ha rivelato di aver contratto l’HIV e, come risultato, ora la sua corazza è decisamente più spessa di prima.

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Guy Bethell.

“Ciò che mi ha infastidito di più, per lungo tempo, è stata l’ignoranza. Poi alla fine ho capito che il comportamento di queste persone era dettato dalla paura.”

E il raggio d’azione dell’ignoranza, stando a uno studio condotto a ottobre dalla Casey House, è decisamente intenso. La ricerca ha mostrato come solo 1 canadese su 2 (o almeno di quelli che hanno partecipato allo studio), “condividerebbe o mangerebbe del cibo preparato da uno chef HIV, sapendo quest’ultimo lo sia di per certo,” nonostante la malattia non si trasmetta attraverso il cibo.

“Chi vuole elargire odio, che lo faccia pure,” ha esordito Matt Basile, chef del Fidel Gastro's di Toronto, commentando dei risultati. “Parlo di tutti quelli che sottovalutano la scienza e l’istruzione, permettendo all’ignoranza di avere la meglio. Io credo che lo stigma legato all’HIV nasca da pregiudizi personali, e non dal rigore scientifico.”

Il compito di Basile, in questi due giorni, è stato quello di gestire la squadra dei 14 chef amatoriali, aiutandoli dal concetto alla realizzazione del piatto. Il risultato di questo lavoro si è tradotto in un menù a quattro portate con zuppa di porro e patate tailandese, insalata di pomodori arrostiti, pappardelle di salmerino artico più controfiletti con aglio e friarielli piccanti, e infine tiramisù al pan di zenzero.

“Le reazioni sono state decisamente positive, siamo felici di poter dire che entrambe le serate sono andate sold out subito,” afferma Joanne Simons, CEO della Casey House. “Condividere il proprio pasto con 14 chef sieropositivi ha decisamente dato visibilità alla causa, se ne è parlato molto.”

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Il dialogo nato dall’iniziativa, però, non è stato privo di situazioni conflittuali. Simons stessa, ad esempio, non era nemmeno certa le persone si sarebbero poi effettivamente presentate alle cene, soprattutto dati i risultati della ricerca iniziale. Le sue paure hanno trovato conferma in alcune discussioni intrattenute dall’opinione pubblica. “Ci sono stati diversi commenti sui social media, e molti di questi hanno sottolineato quanta ignoranza ci sia nei confronti della malattia,” ha continuato Simons. “E quando questi commenti sbucano fuori, la nostra risposta non si fa attendere. Siamo veloci e informativi.”

Lo scopo del ristorante pop-up, ossia quello di creare una sorta di santuario in cui le persone sieropositive potessero trovare un luogo libero dai pregiudizi, è stato raggiunto. “ Il cibo è una delle forme d’amore più grandi, se non l’espressione migliore,” racconta Mikiki, un altro dei 14 chef dell’iniziativa. “Se potessi cucinerei e nutrirei tutte le persone che amo, per tutto il giorno.”

Mikiki.

Artista per vocazione, Mikiki include (talvolta) anche il cibo nelle sue opere. Mi ha raccontato anche del Disclosure Cookbook, un’esperienza culinaria collettiva, creata in collaborazione con Jordan Arseneault ,che mescola insieme la vita delle persone sieropositive (trattandone sia la quotidianità che i momenti in cui si rivela a terzi di avere l’HIV), con la cucina. La partecipazione all’iniziativa della June’s Eatery, per Mikiki, è stata più che liberatoria, anche attraverso modalità che l’arte non aveva ancora toccato.

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“Sebbene, storicamente, la comunità artistica sia stata una di quelle maggiormente colpite dall’HIV e dall’AIDS, lo stigma non è diminuito. Le forme artistiche che traggono ispirazione dalle questioni legate all’identità di una persona spesso parlano a degli spettatori molto specifici, di “bordocampo”, e a te sembra di arrivare solo a una minoranza, non alla maggioranza,” continua Mikiki. L’artista spera che il progetto della June’s Eatery, così come le discussioni che ne sono nate, possano permettere anche agli spettatori “della maggioranza” di guardare con occhi diversi gli artisti impegnati nel sociale.

Mikiki aveva anche pensato d’intraprendere la carriera da chef, ad un certo punto della propria vita, evolvendo quindi un hobby a professione, ma ha desistito non appena il peso dei pregiudizi è calato sui suoi sogni. Il June’s Eatery ha dato una spinta al suo coraggio d’attivista e d’artista, puntando i riflettori della sua passione per la cucina davanti a un pubblico molto vasto. Allo stesso tempo il June’s ha permesso a Mikiki di fare pratica con gli aspetti manageriali e imprenditoriali derivati dal gestire un business. E ora riesce a dar sfogo a dei desideri che aveva imparato a sopprimere.

“Lo stigma che aleggia attorno all’HIV mi aveva tolto delle sicurezze,” conclude Mikiki. “Quest’esperienza mi ha motivato e pensare in grande, persino più in grande di prima della diagnosi.”


Questa storia è stata aggiornata il 10 novembre 2017 per aggiungere ulteriori informazioni rilasciate da Mikiki.