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Come vivono i mafiosi d'Italia e del resto del mondo nel 2017

Tra fiction e realtà, tra antichi rituali e modernità: abbiamo discusso di criminalità organizzata con il professore Federico Varese, uno dei massimi esperti al mondo sul fenomeno.
Una scena della prima stagione di Gomorra. Grab via YouTube.

Dai primi film sui gangster alle serie tv Gomorra e Suburra , la fiction ha sempre guardato al crimine organizzato—e viceversa.

Alle volte in "opposizione", dal fratello di Pablo Escobar infuriato con Netflix al boss dei Casalesi Michele Zagaria, che pochi giorni fa dal carcere ha chiesto 100mila euro di risarcimento alla Rai per il "danno di immagine" causato da una fiction sulla sua cattura. Ma in altri casi con ammirazione: i mafiosi italo-americani amavano Il Padrino al punto da impararne a memoria le battute e imitarne i personaggi, mentre “Dente Rotto” Wan, boss della triade 14K di Macao, alla fine degli anni Novanta decise di finanziare un biopic celebrativo su se stesso ( Casino).

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La storia di "Dente Rotto" Wan è tra le tante contenute in Vita di mafia - Amore, morte e denaro nel cuore del crimine organizzato , l’ultimo libro di Federico Varese, uscito quest’estate in inglese e appena tradotto per Einaudi. Varese insegna criminologia a Oxford ed è uno dei massimi esperti di criminalità organizzata a livello mondiale. Diviso in capitoli tematici (nascita, lavoro, denaro, amore e così via) Vita di mafia racconta i vari aspetti dell’esistenza degli affiliati a cinque tra più potenti mafie del globo—Cosa Nostra, la mafia italoamericana, le “fratellanze” russe, la yakuza giapponese e le triadi di Hong Kong—attraverso inchieste giudiziarie e ricerche personali.

Mentre si dibatte intensamente sulle “nuove” mafie e sui loro legami con la politica locale dopo i fatti di Ostia, ho contattato il professor Varese per chiedergli quanto è sbagliato quello che sappiamo sulle mafie, e che cosa vuol dire essere un mafioso nel Ventunesimo secolo.

VICE: Anzitutto, quanto poco si sa di mafia a livello comune, e quanto di quello che si sa è distorto?
Federico Varese: Il rischio di avere idee confuse e scorrette su queste organizzazioni criminali è molto alto, proprio perché sono difficili da studiare. C’è tutta una letteratura giornalistica e televisiva piuttosto superficiale, da cui si ricava l’impressione che le mafie siano una sorta di Spectre da 007, delle multinazionali del crimine, onnipotenti e invincibili.

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Quello che cerco di fare nel libro è dare l’idea che sono fatte di esseri umani, e che sono diffuse e strutturate come altre organizzazioni umane. Ricostruirle e ridefinirle in questo modo toglie loro il mito di invincibilità, e questo ci serve anche a combatterle meglio.

Non pensa che il “fascino” per queste organizzazioni finisca per investire anche opere che si collocano a metà fra realtà e finzione, o del tutto non-fiction come il suo libro?
Per me il fascino di queste organizzazioni ha a che fare con la loro natura di forme di governo: il loro tentativo di governare i mercati e i territori è analiticamente simile a quello degli stati, soprattutto nelle fasi della loro formazione. Questo per me è il fascino intellettuale del fenomeno.

Bisogna invece demistificare il fascino più banale, carismatico, romanzesco. La mitizzazione televisiva normalizza le mafie, le rende accettabili. Per carità, l’arte, la letteratura e la televisione sono libere di rappresentare ciò che vogliono, ma raccontare certi fenomeni in questo modo, e nemmeno accurato, aiuta le organizzazioni stesse, le rende più appetibili come modello di comportamento, e non ci racconta invece gli aspetti più meschini e meno romantici. Per fare un esempio: i mafiosi italo-americani amavano sconsideratamente Il Padrino, ma non altri film, come Donnie Brasco.

Che cosa è cambiato nelle mafie del Ventunesimo secolo, e che cosa invece è rimasto sempre uguale?
C’è una tendenza a raccontare le mafie come sempre in evoluzione. In realtà, per molti versi le cinque mafie tradizionali di cui mi occupo non sono cambiate. Sin dalle origini la loro forza e il loro ruolo è sempre quello di controllare i mercati e la politica locale. Ci sono stati però certamente dei cambiamenti.

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La mafia siciliana, per esempio, rispetto agli anni Settanta è uscita dal mercato della droga, dove è riuscita invece a inserirsi benissimo la ’ndrangheta. Un secondo cambiamento, molto importante per l’Italia rispetto al Dopoguerra, è l’espansione al Nord. Nel caso russo e cinese, rispetto agli anni Novanta sono cambiati i due regimi di riferimento, in senso più autoritario: così le mafie perdono potere e diventano talvolta accessorie dello stato.

Anche in America Latina il cambiamento ha avuto a che fare con la droga: mentre prima la maggior parte della cocaina si produceva in Colombia e nei paesi vicini, ora il ruolo del Messico e dell’America centrale nella produzione e nel traffico di droga è diventato fondamentale. Infine, sicuramente va notata l’espansione delle opportunità criminali su Internet. Gli attacchi informatici non si distribuiscono in maniera casuale nel mondo, ma vengono da zone molto specifiche—Romania, Ucraina, Russia, Vietnam, e così via. Anche nel cybercrime, dunque, c’è una dimensione paradossalmente locale.

Dato che si presenta con tratti così simili in contesti sociali e culturali così diversi, viene da chiedersi: una tendenza al comportamento mafioso è in qualche modo connaturata all’essere umano come animale sociale?
No. Secondo la mia visione, la mafia è una variante del capitalismo. Tutte queste organizzazioni emergono in periodi di forte trasformazione economica, quando c’è una transizione al mercato o mercati che si espandono in maniera incontrollata. Non sono connaturate all’umano: sono un fenomeno storico, che deriva dal fallimento degli stati nel governare queste transizioni economiche.

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Le mafie si pongono come autorità alternative nel governo di certi mercati. Non è inevitabile che sia così, e infatti la mafia non c’è dovunque. Se un certo mercato non viene governato in maniera efficace dallo Stato, altri attori entrano in gioco e lo governano con la violenza. Poi ovviamente c’è la componente individuale: spesso chi entra in queste organizzazioni lo fa perché non ha altre alternative nel proprio contesto sociale.

Nel libro paragona spesso le mafie a confraternite religiose. Un’altra analogia che mi è venuta in mente, soprattutto pensando allo status para-legale della yakuza in Giappone, è la massoneria (che tra l’altro di recente in Italia è stata coinvolta in inchieste sull’infiltrazione ‘ndranghetista ). Quanto l’esistenza clandestina di una mafia dipende dalla linea di confine che uno stato traccia tra un’organizzazione legale e una illegale?
Nello scrivere il libro anch’io mi sono stupito del ruolo della religione nei rituali, e di come siano simili tra loro i riti di queste organizzazioni altrimenti diversissime geograficamente e culturalmente. La dimensione religiosa si esplica soprattutto nella trasformazione dell’identità: entrare nell’organizzazione vuol dire diventare un’altra persona.

Nella mafia russa, come nella chiesa, ti danno un nuovo nome. Riprendendo Paolo Prodi e Giorgio Agamben, possiamo tracciare un parallelo anche con il giuramento politico, che serve agli stati per codificare sé stessi come legittimi. E questo sottolinea la natura non puramente criminale delle mafie, che aspirano sempre a essere qualcosa in più, e danno un senso di identità a chi vi prende parte.

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Sarebbe immaginabile sconfiggere la mafia “legalizzandola”, o facendola addirittura entrare nel gioco politico?
Sicuramente c’è stata la possibilità di un simile sviluppo: per esempio, il Movimento Indipendentista Siciliano dopo la Guerra era guidato in gran parte da mafiosi, e se gli americani avessero deciso per una Sicilia indipendente ci saremmo ritrovati molto probabilmente con uno stato para-mafioso.

Anche in America Latina e in Messico molti di questi gruppi si impegnano in politica con una loro ideologia populista, contro il governo centrale e federale, a favore delle autorità locali. La mafia potrebbe sì diventare uno stato, ma uno stato-mafia, totalitario, di certo non democratico né liberale.

Ma non credo che i mafiosi sarebbero disposti diventare un partito politico: il loro obiettivo è sottrarre alla politica aree di controllo democratico nei territori.


Guarda il nostro documentario sull'ex gangster inglese Shaun Smith:


All’inizio del libro lei parla di una gang inglese, dedita ad attività criminali di tipo mafioso, ma priva della struttura e del ritualismo delle mafie storiche. Recentemente si è parlato molto della sentenza di "Mafia Capitale" e della rilevanza o meno dell’elemento “autoctono” per definire la fattispecie mafiosa. Cosa ne pensa?
Non sono d’accordo con quella sentenza. Il lavoro che facciamo io e altri studiosi serve proprio a dare una definizione analitica di che cos’è la mafia. E se abbiamo una definizione analitica possiamo trovare la mafia anche in contesti non tradizionali: non solo la mafia che si “esporta” al Nord, ma forme di mafiosità “autoctona” anche a Manchester o a Salford, come dico nel libro.

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Quindi è assolutamente possibile che nel caso di "Mafia Capitale" ci fossero forme di mafiosità— on Cosa Nostra o la ’ndrangheta, ma un gruppo militare che comunque aveva una sua reputazione, e usava la violenza per acquisire fette di mercato, in questo caso il mercato degli appalti. Sicuramente è possibile trovare mafiosità anche in gruppi non “codificati”. Poi, in questo caso specifico mi sembra che Carminati avesse anche rapporti diretti con queste organizzazioni. Mi sembra quindi che l’impostazione della procura fosse abbastanza corretta. Va riconosciuto comunque che il tribunale ha condannato a pene molto gravi gli imputati.

Per finire: dove sbagliano maggiormente gli stati nel contrasto alle mafie?
La prima cosa fondamentale da fare è rendere efficiente la giuridizione civile. In uno stato come quello italiano, in cui in media ci vogliono otto anni per risolvere una causa civile, la situazione è davvero grave.

I pizzini di Provenzano dimostrano che passava gran parte del tempo a giudicare conflitti che normalmente dovrebbero essere portati in tribunale. Avere una macchina civile che funziona è fondamentale. Nei mercati illegali ovviamente è impossibile — i comportamenti e le merci illegali devono rimanere illegali. Ma più allarghiamo il confine delle merci illegali, come nel caso delle droghe, più lasciamo quel mercato al controllo delle mafie.

Bisogna anche lavorare sull’integrazione sociale. Per esempio, nel caso giapponese, ci sono due o tre minoranze che non hanno accesso alla scala sociale, e l’esclusione spinge molti a entrare nelle organizzazioni criminali.

Infine, per tornare al cinema e alla letteratura, noi che scriviamo di questi temi abbiamo una responsabilità: descrivere le mafie in maniera precisa e non eroica è fondamentale. Non basta a sconfiggerle, ovviamente, ma di certo chi fa il “lavoro culturale” ha una responsabilità nel raccontare le mafie così come sono.

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