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Immagine: Getty Images
Tecnologia

Le città ci rendono davvero più soli?

Sempre più persone vivono nelle grandi città, ma avere sei coinquilini perché l'affitto costa troppo non significa necessariamente sentirsi anche meno soli.

Da brava ragazza di provincia, ho sempre guardato alle grandi città con ammirazione e un po’ d’invidia. In città—ne ero sicura—la mia vita sarebbe stata piena di cose interessantissime da fare, vedere, sperimentare e, soprattutto, di persone con cui poterle condividere.

Perché per quanto stressanti, costose, rumorose e inquinate, le città sono soprattutto sempre più piene di gente—tanto che le Nazioni Unite prevedono che, entro il 2050, saranno casa dei due terzi della popolazione mondiale. Ma vivere a contatto con centinaia di migliaia, se non milioni, di persone non è l’antidoto contro la solitudine che si potrebbe pensare, anche in Italia, anche tra i giovani—per la maggior parte dei quali il livello di benessere raggiunto dai genitori sarà semplicemente impossibile da eguagliare, e che faticano a ritagliarsi spazi di condivisione spesso persino nell’appartamento in cui vivono in affitto, dove persino il salotto (se non il sottoscala) è sfruttato come posto letto.

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La solitudine è sicuramente uno dei grandi problemi del nostro mondo, con gravi ripercussioni sulla salute e sulla società: negli Stati Uniti, addirittura, si lavora a un farmaco per poterla contrastare, mentre in Inghilterra il governo ha dedicato un intero ministero alla questione ed esiste un mercato per ‘amici a noleggio’. Ma c’è una relazione tra tutto questo e l’inarrestabile processo di urbanizzazione? Voglio dire, tutti sappiamo o abbiamo almeno sentito dire che le città possono essere luoghi estremamente solitari, ma ci rendono davvero più soli?

“La città è il luogo in cui la modernità, e adesso la post-modernità, si manifesta nel modo più evidente,” ha spiegato a Motherboard per telefono Alfredo Mela, esperto di sociologia urbana e professore al Politecnico di Torino. Ma considerare la città—che, come concetto, raccoglie realtà estremamente diverse tra di loro, costituite a loro volta da aree estremamente diverse una dall’altra—responsabile di tutta una serie di trasformazioni culturali e di modi di vita sarebbe un po’ semplicistico, ha sottolineato.

Certamente, ha ammesso, la società contemporanea è caratterizzata da un forte individualismo e viene sempre più a mancare la solidarietà sul lavoro che in passato promuovevano anche partiti, sindacati e organizzazioni di mutuo-soccorso, ma questo non implica automaticamente un’assenza di relazioni. “Oggi, le persone hanno da risolvere un po’ individualmente i problemi fondamentali della loro esistenza sociale,” ha fatto notare Mela. In un mondo non più nettamente diviso in due classi (quella capitalista e quella proletaria, secondo la visione marxista), anche chi condivide gli stessi livelli di opportunità—magari ha un’occupazione o un reddito simile—incontra comunque grandi differenze legate al lavoro e allo stile di vita che non favoriscono una comunanza. Ma questa è una tendenza generale, che coinvolge più o meno tutto il paese—e non solo.

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“Spetta molto alle persone,” ha continuato il professore. “Non esiste un percorso obbligato per la socialità, ma neppure per l’isolamento. Nonostante tutte le difficoltà, le persone riescono a cogliere le opportunità che ci sono.” E, in città, ce ne sono davvero tante, forse, in un certo senso, troppe? “In un piccolo centro isolato, i giovani si frequentano l’uno con l’altro perché non hanno grandi alternative,” ha detto Mela. “Nelle città no, ci danno tante opportunità diverse e semmai la difficoltà è proprio quella di creare legami un po’ più forti.”

La grande possibilità di scelta permette di allargare i propri orizzonti, entrare in contatto con individui e gruppi diversi, sperimentare con i propri interessi e la propria identità, ma spesso significa anche dover ripartire tempo, attenzione ed energie tra curiosità, attività e persone diverse, precludendo la dedizione e l’assiduità necessarie a instaurare rapporti più solidi. A livello pratico, consideriamo ad esempio quando qualcuno ha una routine molto diversa dalla nostra o frequenta zone della città che ci richiedono lunghi spostamenti—incontrarsi regolarmente e coltivare il rapporto diventa faticoso. E no, scriversi su Whatsapp non è la stessa cosa.

Per quanto i traguardi personali canonizzati dalla generazione precedente—la macchina, la casa, il matrimonio, i figli—possano essere tralasciati volontariamente dalle nuove generazioni in favore di altri obiettivi e di un’idea diversa di realizzazione, per chi li sceglie rimangono troppo spesso un miraggio, alimentando un senso di inadeguatezza che non favorisce un confronto positivo con la società, mentre la disoccupazione e il precariato giovanile disincentivano la ricerca di rapporti più significativi sul luogo di lavoro. “[Senza un’occupazione stabile] sono relazioni che oggi ci sono e domani non ci saranno più,” ha ribadito Mela.

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Inoltre, la continua necessità di essere competitivi, di farsi strada tra gli altri in centri dove tendono a migrare e concentrarsi più talenti, promuove una mentalità controproducente: “Vedere il collega come un competitore o addirittura un avversario, piuttosto che come una persona con cui instaurare buone relazioni, anche questo è un elemento che gioca.”

Eppure, le grandi città—quelle che superano i 10 milioni di abitanti saranno oltre 40 in tutto il mondo entro il 2030, secondo l’ONU—sono destinate a essere i luoghi del futuro. Devono esserlo come motori della crescita economica, dell’innovazione tecnologica, della sostenibilità energetica, ma anche dell’integrazione e della socialità. E, in questo senso, l’organizzazione e la gestione degli spazi giocano un ruolo fondamentale, che va riconosciuto e tutelato prima di ritrovarci invasi da palazzine di appartamenti a prezzi proibitivi e prigionieri di una certa retorica della sicurezza e del decoro.

“[Bisognerebbe diffondere] una cultura civica che porti le persone a non affidare il destino delle città soltanto agli amministratori o ai tecnici,” ha detto Mela. “Come fare la città, come modellare ad esempio lo spazio pubblico, che tipo di servizi metterci, può essere un tema attraverso il quale i cittadini non solo si esprimono politicamente, ma [creano] dei rapporti.”

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Allo stesso modo, si possono ritagliare momenti d’incontro e coinvolgimento attivo, con progetti relativi all’uso dei parchi o alla creazione di giardini o orti di quartiere. Un trend positivo, ha sottolineato il professore, è quello di sottrarre alcune zone al traffico, permettendo alle persone di muoversi senza dover prendere la macchina. E non solo nei centri storici, nelle aree turistiche—o nei “quartieri bene”—ma anche nelle periferie e nei luoghi dove sarebbe possibile incentivare una vera frequentazione mista.

La priorità rimane quella di democratizzare l’accesso alle iniziative di socialità, di riuscire a coinvolgere e avvicinare agli spazi pubblici le fasce di popolazione più emarginate, facendo attenzione che alla rigenerazione non segua una gentrificazione.

Giordana Ferri, architetta e direttrice di Fondazione Housing Sociale, ha ricordato che le città italiane, per tradizione, storia e configurazione, vengono riprodotte un po' dappertutto proprio come luogo dell’incontro; ma alcune aree urbane contraddicono questa inclinazione. “Se [si] pensa alle nostre periferie, abbiamo la residenza e poi quello che rimane libero dalla residenza,” ha commentato. “In realtà, bisognerebbe fare il contrario, come si è sempre fatto, ovvero disegnare [prima] lo spazio urbano [che] accolga le persone, e in cui c’è anche la residenza.” Senza un sistema di piazze e luoghi dove le persone possono incontrarsi, dove i bambini possano giocare, dove sia presente un commercio di vicinato, senza strade popolate da attività e da persone, si avvia un processo di impoverimento, anche a livello relazionale. Per la qualità della vita dei suoi abitanti, la città deve offrire luoghi fisici di scambio e condivisione.

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E la condivisione è ormai un’esigenza e una realtà assodata anche nel privato, per il lavoro (con le varie forme di co-working) e soprattutto per la casa. La scelta di andare a vivere con degli sconosciuti, il più delle volte, è dettata dalla necessità di ridurre i costi e, nelle grandi città, interessa soprattutto i giovani—di cui il 29 percento under 34. Tuttavia, i coinquilini, o i vicini, possono diventare effettivamente riferimenti importanti per costruire la propria rete sociale e rappresentano spesso un primo canale di accesso ad altre persone, specialmente quando ci si trasferisce in un posto nuovo.

E se anche il mercato delle camere in affitto è sempre più inaccessibile—l’Italia registra una percentuale molto bassa di case popolari (4 percento contro una media comunitaria del 20), alle quali i giovani generalmente faticano comunque ad accedere—, l’housing sociale offre un’alternativa interessante. “Sono case che vengono date a persone che non accedono all’edilizia residenziale pubblica ma che non accedono nemmeno al mercato,” ha spiegato Ferri. Una fascia intermedia ampia, dunque, che raccoglie molti giovani con situazioni di lavoro precarie. Questi investimenti privati funzionano bene nel circuito immobiliare delle grandi città, dove il margine di mercato è più ampio: “Per poter offrire degli appartamenti al 30-40 percento in meno rispetto ai canoni di mercato dobbiamo avere un mercato che non è uguale al costo di costruzione,” ha detto Ferri.

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Nello specifico, i progetti di cui si occupa la fondazione che Ferri dirige riguardano 20mila alloggi su tutto il territorio nazionale, dati in affitto a canoni calmierati in un progetto di ‘housing collaborativo’—nel quale gli inquilini si conoscono prima di entrare ad abitare e autogestiscono degli spazi comuni, per attività sia di svago che di servizio. Sono interventi che mirano a migliorare il modo di vivere la casa e il quartiere e, in alcuni casi, riescono a rivitalizzare intere aree periferiche e residenziali offrendo alla comunità nuovi spazi, attività e possibilità di incontro—come nel caso di Mare culturale urbano, a Milano, per esempio.

La socialità è una ricaduta più che un obiettivo di investimenti di questo tipo—dettati comunque da una logica di profitto—ma il successo degli spazi ibridi di scambio e d’integrazione che ne derivano confermano la necessità, e anche una certa richiesta, di interventi di rigenerazione urbana, soprattutto nelle zone più svantaggiate.

“C’è stato un periodo, a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni 2000, di politiche di riqualificazione dei quartieri periferici abbastanza organiche e spesso supportate da progetti europei,” ha ricordato il professor Mela. “C’era tutta una galassia di progetti che si ponevano l’obiettivo, da un lato, di migliorare la qualità della vita e, dall’altro, anche di stimolare la partecipazione dei cittadini a questa riqualificazione.” Purtroppo, ha fatto notare, queste esperienze sono diminuite—se non scomparse—con l’avvio della crisi del 2008, da cui ancora fatichiamo a riprenderci.

“Una ripresa di [questi] progetti —una ripresa in termini che sarebbero completamente diversi rispetto a quelli che erano 20 anni fa, ma comunque una ripresa—[favorirebbe] anche l’aumento della socialità,” ha detto Mela. Interventi di riqualificazione architettonica e urbanistica, ma anche politiche sociali ed economiche efficaci, che stimolino e sostengano l’imprenditoria e la creatività giovanile—a tutti i livelli, senza che l’accesso diventi un nuovo strumento con cui esercitare privilegi.

Viviamo in un mondo in cui ci sentiamo sempre più soli perché fatichiamo ad affermare la nostra identità rispetto alla collettività, la nostra indipendenza rispetto alla famiglia di origine, il nostro valore rispetto alle richieste di un mercato spietato: perché la città più solitaria non è quella in cui nessuno sai chi sei ma quella in cui nessuno sa chi è, dove è possibile sentirsi al centro del mondo e allo stesso tempo ai margini della propria vita.