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Iosonopipo ha fotografato 300 donne in collant bianchi per raccontare il Vuoto

"Ci sono voluti otto mesi. È incredibile come una foto si possa fare in 4 secondi swipando la camera dell'iPhone o in otto mesi"
Tutte le foto per gentile concessione di Giuseppe Palmisano

Questo articolo è apparso originariamente su Creators

Giuseppe Palmisano, noto anche come iosonopipo, è un fotografo italiano che negli ultimi anni si è fatto notare per un immaginario preciso: avrete visto anche voi quelle foto con colori particolari e ragazze sdraiate o appoggiate da qualche parte, spesso vestite solo con dei collant, e magari presenti solo come gambe che spuntano da un letto o da dietro una tenda. Inoltre, di recente Palmisano sta lavorando anche con musicisti indipendenti di una certa popolarità: ha realizzato le foto per le copertine di Ghali e Lo Stato Sociale.

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La scorsa settimana si è cimentato nel suo progetto a oggi più ambizioso: una foto che riunisse trecento ragazze, coperte solo da collant bianchi, al centro per le arti visive La Pescheria di Pesaro, sede anche di una delle ultime mostre di Jannis Kounellis. Gli abbiamo chiesto di dirci di più.

VICE: Mi racconti la genesi del progetto? Come mai hai deciso di fotografare così tante ragazze?
Giuseppe Palmisano: Gino De Dominicis diceva che in principio viene l'immagine. Penso di funzionare così anch'io: prima del pensiero in me vive l'immagine, e anche questa volta mi è arrivata dietro agli occhi già precisa, perfetta, come doveva essere. Ci sono voluti otto mesi, poi, per farla emergere.

E perché proprio trecento? C'è qualche significato particolare in questo numero?
Cinquecento erano troppe, cento erano poche. Spesso molte mie scelte vengono fatte per praticità.

Dal lavoro hai tratto due sole foto ufficiali. Che fine faranno?
Ho sentito il bisogno di fare solo due foto, in realtà principalmente una. La seconda era per sentirmi meno stronzo ad avere tutte quelle donne e lasciarle andare via presto. Sono entrambe in vendita all'asta su Vuoto. La prima foto, che va sotto il titolo di Vuoto, è in edizione unica 1/1. La seconda è in vendita per essere utilizzata come copertina di disco o libro, è stata scattata appositamente. Quindi musicisti fatevi sotto.

Quindi in un certo senso Vuoto si può definire anche una performance, che ha una foto come risultato finale.
Diciamo che il fattore performativo fa pienamente parte del lavoro, la fotografia risulta essere una scoria, la punta dell'iceberg dell'esperienza mia e di tutti. Alcune delle donne hanno detto di essersi sentire parte di una performance, in effetti. Io lo trovo inevitabile, sia perché vengo dal teatro, sia perché si tratta di un lavoro corale e scenografico.

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Com'è andata la giornata dello scatto?
Avevo predisposto tutto, e arrivato a quel giorno, avendo una gran bella squadra, mi sono occupato solo di pensare a cosa vedevo e ad abbracciare tutte le partecipanti. È stato un sogno molto più bello da vivere che da fotografare.

E la preparazione?
Ci sono voluti otto mesi, tra cui gli ultimi due di lavoro intenso. È incredibile come una foto si possa fare in 4 secondi swipando la camera dell'iPhone o in otto mesi. Anche se a questo punto non so più se questa possa chiamarsi fotografia. O almeno, non solamente.

Ci sono aneddoti divertenti su come è andata la fase di reclutamento?
Ci sono state molte iscrizioni fake e alcune fuori dall'Italia che non riuscivo a contattare, avendo chiamato le ragazze a una a una. Una volta mi ha risposto un maschio, ti allego la conversazione.

Si leggono critiche alle tue immagini che parlano di oggettificazione della donna, che cosa ne pensi?
Mi piace molto giocare con questo, mi piace che spesso a dirlo siano donne che rivendicano la libertà sul proprio corpo e poi limitano quella altrui di poter comparire in una mia foto. Mi preoccupa più l'oggetto-donna che la donna oggetto, quest'ultima locuzione mi piacerebbe risemantizzarla, far sì che la donna abbia una tale libertà di se stessa e del suo corpo da poter anche diventare un'abat-jour, o il pavimento di una chiesa che diventa mare di corpi.

È vero che le tue ragazze spesso sembrano messe lì come appoggiate, come delle cose, spesso con la faccia non visibile.
È una condizione. Chi non è mai rimasto appoggiato come una cosa in attesa, o lasciato come una cosa tra le cose a sprofondare e voler scomparire?

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Hai mai pensato di dedicarti a uomini-oggetti?
Spesso. Ultimamente poi non fanno che chiedermelo. Penso che arriverà il momento, prima o poi. Ma non voglio forzarmi. Per ora sceglierei uomini che sembrano donne, magari sarebbe interessante, ma allora continuo con le donne ancora un po'.

Trecento donne, di tutti i tipi. Corpi molto diversi tra loro: una celebrazione della donna in ogni sua forma?
Anche. La donna è al centro della mia ricerca in quanto tra le espressioni massime della natura: ho sempre pensato che qualsiasi corpo nudo sia sempre bello, anche privo di erotismo. E questo scatto/momento performativo volevano dimostrarlo.

Ho letto delle critiche che parlavano di razzismo per la ricerca di ragazze molto bianche, sono critiche che immagino rigetterai.
Ho atteso la fine di Vuoto numero 1 per annunciare che fra trecento giorni farò la versione nera. Completamente nera. Anche nella pelle. È una decisione presa tempo fa che ha dato subito vita anche alla prima versione mentre la strutturavo. Ora tutto ha molto più senso per me.

C'era un'altra restrizione segnalata nel casting: niente tatuaggi. Come mai?
I tatuaggi contestualizzano, raccontano. È come il discorso degli occhi, dell'identità. Ho sempre fatto a pugni con le cose che mi ricordano che sono in un momento preciso dell'umanità. E della mia giornata o vita. Vorrei essere atemporale, come credo debba essere l'arte. E Vuoto era un progetto sul bianco.

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Hai lavorato tanto anche con musicisti, soprattutto indipendenti. Come nascono queste collaborazioni? E qual è il tuo rapporto con la musica?
Quasi esclusivamente un rapporto da ascoltatore (pigro) e da addetto ai lavori. Non c'è mai musica nei miei lavori da fotografo, al massimo ci sono i musicisti. Per me l'estetica è fredda in principio, e la musica è calda quindi non può entrarci. Le collaborazioni nascono da amicizie o da Instagram, per chi mi scopre da zero.

È vero, le tue foto sono fredde. Sembra quasi che l'emozione venga asportata chirurgicamente, e restino solo dei simulacri di umanità. Come mai? Riflette una tua visione della vita? Che poi sembri una persona solare.
Come dicevo, l'estetica deve partire fredda. Inserendo la musica ad esempio rischierei di riscaldarla con una storia, e io non voglio raccontare storie. È come se volessi davvero fermare un attimo, così infinitamente piccolo da non contenere né un prima né un dopo. È uno spazio tra un istante e un altro che ti fa chiedere "dove si andrà?". Raccontare una storia e quindi scaldare l'estetica vorrebbe dire indicare una via: dire la propria senza lasciare interrogativi. Per cui essere meno universali. Io invece voglio finire sulle tazze da latte!

Mi sembra che tu ti sia inventato un immaginario piuttosto originale, che ultimamente si vede sempre più spesso anche altrove, probabilmente anche ripreso da gente che si è ispirata al tuo lavoro. Ti fa incazzare o lo consideri un successo?
È più che un successo! Ho sicuramente contribuito alla creazione di un immaginario, e ogni giorno mi arrivano messaggi da gente che mi fa notare le foto à la pipo. Per cui sono contento, mi incazzo solo quando non riesco a pagarci le bollette, ma poi passa.

E a chi ti sei ispirato tu, nello sviluppare la tua estetica?
Non vengo dalla fotografia e credo fortemente che questa non possa e non debba alimentarsi solo di se stessa. Mi hanno formato il teatro e il luogo in cui sono cresciuto, la Puglia. Sicuramente rubo tantissime immagini, e così ho fatto quando ho iniziato a seguire le prime piattaforme di raccolte fotografiche. Alle volte scopro cose come questa (immagine che allego) e me ne innamoro: Cagnaccio di San Pietro, "Dopo l'orgia", 1928. Fu rifiutato dalla Biennale per la cruda critica ai poteri corrotti del regime (vedi i polsini col fascio). Col senno di poi riconosco sicuramente tra i miei riferimenti più famosi, perché gli altri li ho dimenticati, Guy Bourdin e Rodney Smith. Ma sono anche convinto che mi siano serviti di più Bertolt Brecht o Marcel Marceau.

Per saperne di più su iosonopipo, visitate il suo sito.