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Giulio Regeni

Gli ultimi aggiornamenti sul caso dell'omicidio Regeni

La Repubblica ha citato delle mail in arabo che facevano riferimento al presunto mandante del sequestro dello studente, ma secondo la Procura non avrebbero “alcuna rilevanza giudiziaria”.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
I documenti appartenenti a Giulio Regeni, in una foto diffusa dalla polizia egiziana.

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Il 5 aprile 2016 il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha riferito sull'omicidio di Giulio Regeni in un Senato semideserto, dicendo che "il governo è pronto a reagire adottando misure immediate e proporzionate" nel caso in cui non ci fosse "un cambio di marcia con gli investigatori egiziani," e ribadendo che "ci fermeremo solo quando troveremo la verità, quella vera e non di comodo."

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Nelle ultime settimane, come noto, le autorità egiziane avevano additato una fantomatica "banda di rapinatori di stranieri" come responsabile dell'uccisione di Regeni – un'improbabile ricostruzione a cui nessuno ha creduto, e che negli ultimi giorni è stata addirittura smentita dallo stesso ministero dell'interno.

Stamattina, invece, due articoli pubblicati su Repubblica e La Stampa hanno per la prima volta indicato un possibile responsabile: si tratta del generale Khaled Shalabi, l'alto ufficiale della sicurezza nazionale incaricato di indagare sul caso Regeni. Nel 2003 Shalabi era stato condannato per aver torturato a morte un uomo e falsificato i verbali, per poi essere reintegrato dopo la sospensione della sentenza.

Secondo una fonte anonima che si è rivolta a Repubblica – e le cui mail sono nella disponibilità del pm Sergio Colaiocco e del legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini – "l'ordine di sequestrare Giulio Regeni" lo scorso 25 gennaio "è stato impartito dal generale Khaled Shalabi, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza."

Prima del sequestro, l'ufficiale avrebbe messo "sotto controllo la casa e i movimenti di Regeni" e chiesto "di perquisire il suo appartamento insieme ad ufficiali della Sicurezza Nazionale." Il giorno della sparizione, Shalabi avrebbe trattenuto Regeni "nella sede del distretto di sicurezza di Giza per ventiquattro ore."

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Nella caserma, il 28enne italiano sarebbe stato "privato del cellulare e dei documenti" e picchiato una prima volta per essersi rifiutato di rispondere alle domande "in assenza di un traduttore e di un rappresentate dell'Ambasciata italiana." Secondo la fonte anonima, chi lo interroga "vuole conoscere la rete dei suoi contatti con i leader dei lavoratori egiziani e quali iniziative stessero preparando."

Nei giorni successivi, Regeni sarebbe stato trasferito "in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City," per ordine del ministro dell'interno egiziano Magdy Abdel Ghaffar. Qui il ricercatore è sottoposto a giorni di "torture progressive," in cui è stato "picchiato al volto," "bastonato sotto la pianta dei piedi," "appeso a una porta," "sottoposto a scariche elettriche in parti delicate," "privato di acqua, cibo, sonno" e "lasciato nudo in piedi in una stanza dal pavimento coperto di acqua, che viene elettrificata ogni trenta minuti per alcuni secondi."

Regeni sarebbe stato poi affidato ai Servizi militari per ordine del generale Ahmad Jamal ad-Din. I servizi, secondo la fonte anonima, "vogliono dimostrare al Presidente [al-Sisi] che sono più forti e duri della Sicurezza Nazionale." Le torture si sarebbero fatte dunque sempre più violente e prolungate, arrivando a provocare la morte del ricercatore.

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Il corpo di Regeni, a quel punto, sarebbe stato messo "in una cella frigorifera dell'ospedale militare di Kobri al Qubba, sotto stretta sorveglianza e in attesa che si decid[esse] che farne." La decisione – presa in una riunione tra al-Sisi, il ministro dell'interno, i capi dei due servizi segreti e altri alti ufficiali – è quella "di far apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore."

Per il giornalista di Repubblica Carlo Bonini, il racconto della fonte anonima è corroborato da tre dettagli delle torture riscontrati nell'autopsia effettuata nell'istituto di medicina legale di Roma.

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Secondo La Stampa, le rivelazioni sul presunto coinvolgimento di Shalabi evidenziano l'esistenza di un "sistema d'intelligence dalle anime diverse e conflittuali, la cui tensione interna è cresciuta con l'aggravarsi della situazione del paese."

La scorsa domenica, il direttore del quotidiano governativo Al Ahram aveva scritto un editoriale in cui si sottolineava "l'urgenza" di risolvere un caso che non solo "sta rovinando la reputazione dell'Egitto, danneggiandone i rapporti internazionali" ma rischia di catalizzare il "malcontento diffuso dei giovani egiziani colpiti dalla repressione."

Stando a una fonte citata dalla Stampa, pertanto, "dopo settimane nel governo [egiziano] si sarebbe fatta largo la consapevolezza di dover 'sacrificare' qualcuno di concreto, un responsabile vero, realisticamente coinvolto nel caso Regeni."

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Altre fonti italiane sentite dalla Stampa, tuttavia, indicano che potrebbe "non essere abbastanza," e che "se dovesse emergere il coinvolgimento di un ramo o più rami dei servizi sarebbe difficile credere si possa essere trattato di una persona sola."

Ieri pomeriggio Matteo Renzi ha assicurato che il governo italiano è intenzionato ad andare fino in fondo. "La vicenda di Giulio Regeni ci ha colpito tutti, molto. Ci fermeremo davanti alla verità," ha detto il premier. "Speriamo e pensiamo che l'Egitto possa collaborare con le autorità italiane, abbiamo ricevuto la disponibilità di andare a vedere le carte insieme e vogliamo che questa verità sia provata."

A quest'ultimo proposito, e in base alle ultime informazioni, il 7 e l'8 aprile si terrà un incontro a Roma tra gli investigatori egiziani – che avrebbero preparato un dossier di duemila pagine – e quelli italiani per fare un punto sul caso.

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Stando a quanto riportato poi dall'Ansa nel pomeriggio, le diverse mail in arabo giunte a Repubblica conterrebbero informazioni quasi identiche a una lettera pubblicata su Facebook a febbraio da un ex poliziotto egiziano della sicurezza — che attualmente vivrebbe in America e sarebbe noto per essere molto critico con l'attuale regime.

An almost identical account was published by former police officer Omar Afify on his Facebook page in February. — Laura Cappon (@lacappon)6 aprile 2016

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Secondo fonti della procura, si tratterebbe di "un anonimo, uno dei tanti in casi come questi di forte risonanza mediatica" che non avrebbe "nessuna rilevanza giudiziaria." Il giornalista di Repubblica, durante un evento del Festival Internazionale del Giornalismo, ha comunque rivendicato la scelta della pubblicazione.

.— Andrea Zitelli (@AndreaZitelli_)April 6, 2016


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