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Musica

'Il Dado' è stato il trip psichedelico di Daniele Silvestri

Molto prima di "Salirò", il cantautore romano si era fatto travolgere dallo spirito anarchico degli anni Novanta, pubblicando un album completamente folle.

«A distanza di tanti anni, gli album Il Dado e Acrobati hanno la stessa sincerità di approccio.»
Daniele Silvestri a Deejay.it, 5 aprile 2016

Le feste sono finite e si è concluso l’ennesimo ciclo stagionale, sono ormai lontani i giorni in cui vi strafogavate nelle ricorrenze comandate, giocavate a tombola e lanciavate dadi alla ricerca di un’improbabile vittoria monetaria. Ecco, il dado: in tutto quest’aspetto meccanico, quasi pilotato e da sempre uguale a se stesso, forse solo lui è l’unico fattore di liberazione da un binario preconfezionato, è l’incognita che salva. Ed è proprio di un particolare Dado che parleremo oggi in Italian Folgorati: quello di Daniele Silvestri, anno 1996.

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Dopo aver trattato del periodo svalvolato di Tiromancino e Max Gazzè, mancava infatti all’appello quello appartenente all’individuo che forse più di tutti gli “eroi” gravitanti nella scena del Locale (scena della quale appunto abbiamo già parlato abbondantemente nei succitati articoli) è entrato già da subito nelle grazie delle masse. Silvestri, infatti, rampollo in qualche modo già avvezzo al mondo dello spettacolo per storia familiare (suo padre Alberto era uno sceneggiatore di successo e coautore del Maurizio Costanzo Show), nel 1994 si era distinto a Sanremo giovani, vincendo il premio Tenco per il suo primo album omonimo, creandosi un seguito non indifferente fra i giovanissimi e fra (diciamolo) i radical chic di tutta Italia.

In un certo senso Sanremo è la sua vetrina, tanto che partecipa anche l’anno successivo con un pezzo dalle velleità politiche (ma che finisce per risultare più patetico che altro), "L’uomo col megafono", la cui performance sul palco dell’Ariston cita in un sol colpo sia Dylan che Carella per la trovata dei cartelli scritti a pennarello. Silvestri fa quindi lo strano un po’ a mezza pensione, dopo questo momento blandamente “riot” tira fuori un singolo di successo ultraleggero come “Le cose in comune”, in cui si nota la sua padronanza della lingua italiana in testi formalmente perfetti che strizzano un po’ troppo l’occhio a un certo tipo di “normalità” abbastanza piaciona. Roba da cenette di sushi al centro di Roma con la pischella in cui paga lui con i soldi dei genitori, per intenderci, nonostante allo stesso tempo ci sia un piglio “wannabe” tra l’intellettuale e l’impegnato, anche se questo impegno sembra un po’ quello che passa la mutua.

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Insomma, un personaggio pop in tutto e per tutto che non sembra avere l’intenzione di arrivare sulle scene per scardinare chissà cosa, semmai di confermare la regola con eccezioni volutamente e astutamente leggere, senza traumi, un po’ un Fabio Fazio dei cantautori. Altrimenti come facciamo a camparci? Questo tran tran va avanti almeno fino al 1996, anno in cui succederà qualcosa d’inaspettato: per l’appunto la pubblicazione de Il Dado, un disco che è davvero una mosca bianca nel repertorio del nostro e fa rimanere quasi increduli per la sua componente lisergica.

Come già ho ripetuto fino alla nausea, verso la fine dei Novanta non si capiva più una ceppa in Italia. Chi passava dal rock alla lounge, chi dal punk all’acid jazz, chi si dava all’elettronica dopo essere stati per anni ska (i Casino Royale insegnano). Insomma si andava alla cieca sperando che anche qua, nel nostro stivale, si riuscisse a indovinare e addirittura prevedere la nuova onda e il nuovo trend che all’estero poteva far faville, fra chitarre che ritornavano prepotentemente insieme a una certa attitudine “slacker” ed elettronica rave sdoganata su MTV da Aphex and co. verso una liberazione psichica generalizzata quanto idealista, tanto che anche vecchie glorie come i New Order parlano a quei tempi di Prozac e di empatici senza farselo dire due volte. L’unica differenza è che in Italia, ahimè, nel pop si era e si è tradizionalisti, bigotti: un aspetto della faccenda che ha sempre impedito uno sviluppo radicale della musica leggera e che ha invece, paradossalmente, rinforzato appunto le tendenze sanremesi e la musica di consumo più media.

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Silvestri, come tanti della sua generazione, pensa che forse sia il momento buono per osare visto che nel resto del pianeta si rompono strumenti, si urla a squarciagola e in classifica ci vanno dei personaggi poco raccomandabili. A differenza di molti suoi colleghi, fra i quali gli stessi del Locale, però, fa veramente sul serio nel dare un taglio malato all’opera. Punta infatti su dei suoni davvero lo-fi, figli più dei Pavement, dei Flaming Lips o degli Half Japanese che non dei Nirvana, più dei Sonic Youth o dei R.E.M. di Monster che non dei Radiohead, ma figli soprattutto della zozzeria tipica degli anni Sessanta italiani, fatti di fuzz auto costruiti, chitarre elettriche Eko da due lire e mezzo e garage beat raffazzonato. E, in effetti, quello che sembra trasparire è una specie di fiera dello schifo in senso buono, con abbondante uso di effettistica settata sui poli estremi, quasi fuori luogo, una ricerca sonora intelligentemente radicata in Italia tanto che forse questo periodo di Silvestri è uno dei pochi esempi di quello che sarebbe potuto essere il pop italiano se pensato in maniera calibrata fra la tradizione del nostro rock e la melodia, anch’essa nostro marchio di fabbrica, volenti o nolenti.

Insomma, un disco che è innovativo perché s’isolano delle parti di qualcosa di già digerito ma non abbastanza, ed è senza dubbio una mossa sveglia quella di Silvestri, che sembra proiettato a scrollarsi di dosso le patinature del pop che fino a quel momento l’avevano incastrato. Tanto che anche l’elettronica ha il suo ampio spazio, cercando un ibrido fra suoni acidi e maligni e wobbles catturati dalla neonata dubstep (in questo arrivando in anticipo su molti suoi coevi), evocando scenari di disagio. Anche nei testi Daniele osa di più infilandosi in labirinti esistenziali, impressioni di pancia, provocazioni squisitamente ludiche, momenti ironici, polilinguismi e svacchi. Quadretti in cui il vecchio Silvestri non ha per niente posto, se non per una triste eccezione.

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"Cohiba", infatti, è un pezzo che poteva tranquillamente sparire da questo disco. Un’ode alla rivoluzione Cubana abbastanza pelosa che sembra scritta per dimostrare di essere di sinistra, forse rivolta all’ala dura, e il cui valore è chiaramente e insopportabilmente acritico rispetto alla realtà del 1996 come anche all’attuale, e anche musicalmente soffre di una forzatura che inevitabilmente lo porta a essere uno dei peggiori brani di Silvestri di sempre.

Una volta tolta di mezzo questa pretenziosa marchetta, Il Dado, fortunatamente, vola che è un piacere nel cielo della ragione: il dado infatti è simbolo d’imprevisto, di qualcosa che non si può calcolare, di rischio, e l’album sembra appunto la colonna sonora di qualcuno che sta facendo equilibrismo sopra una fogna cercando di non caderci dentro. Silvestri (il cui volto appare già deformato in copertina, dallo sfondo rosso sangue) riesce perfettamente nell’intento di evocare questi paesaggi, accompagnando per mano l’ascoltatore come un bambino al quale si cerca di far saltare una pozzanghera senza infangarsi gli stivali.

Il disco è diviso come due ideali facciate nonostante si tratti di un CD. In effetti è pensato come un doppio, contenendo ben diciannove brani, fra i quali degli strumentali recuperati dalla colonna sonora del film Cuori al verde di Giuseppe Piccioni. Ma andiamo con ordine: s’inizia con "Intro", che già mette le cose nero su bianco con un synth cattivissimo e una batteria hip hop stile Dälek a dipingere un’atmosfera inquietante: “forse sono morto / oppure sono nato e non me ne sono accorto / adesso posso incominciare veramente / o meglio posso non incominciare niente”. Manifesto d’intenzioni che poi sarà sviluppato nel brano che dà il titolo al disco, vede un Silvestri demolire in qualche modo se stesso in un nichilismo che finalmente è libero da catene “senza l’obbligo di stare bene”, un frammento cupo che potrebbe stare bene nel repertorio di Tyler, the Creator.

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Con “Seguimi” lo stile è marcatamente noise pop, con una chitarra maciullata da un tremolo che sembra azionato da una terza persona e non da un piede, parole di disperazione amorosa e un ritornello in cui Silvestri si cimenta nel falsetto. Suoni rocciosi e wah wah a pioggia con finale leggermente floydiano. “Seguimi se hai il coraggio di peggiorare”, evidentemente un monito all’ascoltatore ad abbandonare i pregiudizi e farsi portare verso la novità, per quanto acre sia.

Novità evidentissima nel singolo “Hold me”, in cui, mescolando inglese e italiano, Silvestri canta in un falsetto malato una classica ballata anni Sessanta insozzata però da fischi, sonorità gracchianti e sequenze random di sintetizzatori cheap, per poi esplodere di chitarroni marci di sapore grunge. Il testo è esistenzialista, basato sul fatto che tutto deve finire e iniziare una relazione di base è già fallimentare “ma che senso ha stare così bene se non durerà”. Silvestri canta come uno spostato, in maniera più contorta delle precedenti prove discografiche, avvolgendosi su se stesso in un finale pestone come un adolescente che non vuole affrontare la vita arrotolato eternamente in un piumone.

Di "Cohiba" già abbiamo parlato male, quindi passiamo oltre e ci troviamo di fronte a "Sogno-B", dalle atmosfere elettroniche completamente dissociate, con i dial tone di un telefono mischiati a una drum machine dritta e ancora una volta hip hop oriented. È una canzone sulla cacca, Silvestri deve essere chiaramente impazzito, ma ti pare che scrivi una canzone sul cagare? Eppure ecco qua, probabilmente una metafora della vita. L’ironia è grottesca, alla fine della fiera ammette che le sue canzoni nascono sul cesso, continua il processo di auto-disintegrazione del Silvestri pop, verso “un mondo senza nessun bisogno”, il nulla.

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Proseguiamo con “Un giorno lontano”, una ballata d’amore che sembra ispirata ai classici del pop rock italiano come Umberto Tozzi, con l’upgrade di essere tempestata nel ritornello da tremolo deliranti e una ronza che manco l’harsh noise, con uno sviluppo che fa ricordare più i Sonic Youth che un brano di musica italiana. Un perfetto ibrido fra Italia e resto del mondo quindi, che offre davvero l’impressione che qualcosa sia veramente cambiato nella capoccia di Daniele.

E di capoccia si parla in “Me fece mele a chepa”, in finto pugliese Silvestri urla, si lamenta di una cefalea dovuta a un fortissimo dolore ancora una volta esistenziale, in macchina nella notte verso il mare probabilmente diretto a passare le classiche ferie in Puglia con le classiche stronzate da cartolina ggiovane – condite ovviamente dal reggae: musica a volte usata per stare bene, e invece non serve a un cazzo, a volte anzi è la rappresentazione della banalità del bene. Infatti il pezzo è sì un reggae, ma preso male, infarcito di wobbloni, non c’è speranza neanche fra i cannoni d’erba. E anche qui di chitarroni pieni di fuzz cattivissimi che è quel "qualcosa dentro che spinge e che fa male”, che fanno evolvere lentamente il pezzo da reggae a ska. Silvestri diciamo che tanto lucido non è, e meno male.

“Via col vento” ha una stupenda apertura di pianoforte, poi arriva un arrangiamento di archi quasi morriconiano (quello degli scores per Elio Petri, quindi tutto storto) per una canzone d’amore ancora una volta sofferta che improvvisamente diventa un pezzo di gelida elettronica stile Tomo Akikawabaya. Poi si smaciulla in una dissonante schitarrata rumorosa fra i Beatles di "I Want You" e i Soundgarden, con effetti di riverbero improvvisi, urli di steel guitar, sventagliate noise, psichedelia acida e field recordings, di tutto di più. Un pezzo allucinante.

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Con “Samantha” ecco uno sprazzo di cantautorato italiano solo chitarra e voce, leggermente alla Ivan Graziani. Storia di uno preso da un colpo di fulmine improvviso, “l’amore in fondo fa così identico all’istinto” è tutto inutile urla Daniele Silvestri, coperto da chitarroni micidiali e archi ancora una volta ispirati ai Beatles e da bassoni profondi e basculanti per una canzone di fatalismo e impotenza, tutto è insensato e vincere non serve a niente. In un certo senso ci sono anche anticipazioni del “Calcutta style”, e non è poco per uno nato nel 1968.

“La bomba” parte con una chitarra classica tra Branduardi e De André con chiari rimandi alla musica per liuto. Sotto serpeggia un noise di sottofondo, si narra la storia di un uomo cui esplode una bomba in faccia. Sì, proprio così, tematica bizzarra per una canzone che scivola piacevole senza troppi però, ma serve come traccia di passaggio verso nuovi e più succulenti lidi.

“Il dado” infatti, è la svolta. Recuperando “Intro”, come già detto particolarmente hip hop e malevola, esplode poi in una serie di grattugiate di chiara matrice grunge. Continua l’analisi cinica di Silvestri sul fatto di giocare col proprio destino, che si dipana fra improvvisi scatti di elettronica e in un crossover particolarmente teso al metallo. C'è l’accettazione di gettarsi nel vuoto, “la fedeltà te la ricordi ancora? Che squallida chimera”, cadono le maschere, siamo tutti in mano a un gioco più grande di noi. E subito sono assoli noise di chitarra che manco Arata dei Melt Banana o il miglior Dario Parisini dei Disciplinatha, peccato che sfumi subito, avrebbe potuto durare altri due minuti di macello e sarebbe stato uno dei pezzi del ’96.

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"Tempo1 / Ready", che inizia con un solo di violino incartato, si tramuta presto in un valzer sintetico. Rappresenta il primo pezzo del secondo disco e uno dei brani presenti nella succitata colonna sonora di Cuori al verde. Da valzer il brano scivola presto nell’hip hop, per un breve rappare più simile agli scat di Dalla che a un flow vero e proprio. Sfuma praticamente subito lasciando abbastanza spiazzati.

“Strade di Francia” inizia con una falsa partenza, in cui Daniele chiede ai suoi musicanti di restare seri, perché in effetti il pezzo è da sorriso orizzontale. Una ballata d’amore molto delicata, nonostante questo è un brano per nulla facile, perfettamente arrangiato e capace di evocare gli spettri dei cantautori classici mantenendo una personalità peculiare, senza mai scadere nella banalità, anzi, con un minimalismo che in qualche modo fa risaltare la scrittura. Voglia di fuga, e anche questa volta i sentimenti sono doloranti, malinconici, l’anima di Silvestri sembra particolarmente scossa, quasi come il Vecchioni di “Parigi o cara” di cui prende sicuramente il testimone.

Esatto, la Francia… Ma "Ville qui mort / Tempo2" ritorna nella zona colonna sonora, stavolta Daniele si esprime rappando nell’idioma francofono per un momento fra jungle, lounge e cool jazz, con sintoni delicati e accordi dissonanti di pianoforte. Un pezzo interessante e storto, quasi una sua interpretazione del sound di Hancock, per poi sfociare in un breve andazzo Lou Reediano ("Perfect Day" è chiaramente l’ispirazione principale). Si mischiano le carte in maniera senza dubbio imprevedibile.

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"Banalità" ha come palese punto di riferimento Paolo Conte, col suo jazz circense e surreale. Forse anche troppo: è un omaggio che però sfocia nell'imitazione. La storia di un tizio che vuole far perdere le sue tracce per rifarsi una vita in Olanda, accorgendosi poi che ci sta una merda e tenta di ritornare indietro usando gli stessi mezzucci di quando parte. Nulla d’innovativo, un divertissement però arrangiato in maniera pedissequa.

"Ferrament / Tempo3" è un’elettronicata di stampo minimal che poi diventa un elettrofunk tutto giri di basso hammond e groove assortiti. Anche qui un misto d’inglese, inglese maccheronico, dialetto e italiano. Insomma, un macello – di stampo ludico però, attenzione. Infatti questo secondo disco si basa proprio sul gioco, sul piacere di divertirsi, tentando di seguire più la freschezza di un istinto che il comporre a tavolino (mentre il primo disco sembra al contrario concentrato sulla depressione e sul disastro, una delle facce del dado). E questo si sente anche nel tramutarsi improvvisamente in un siparietto semi-lambada di fisarmonica, chitarra e shaker, così su due piedi.

"Lasciami andare / Tempo4" vede lo spettro dei Beatles di "Let It Be", con tanto di citazioni di Billy Preston quasi imitati pedagogicamente nel sound, un pezzo tipicamente rock scritto senza sbavature, anche qui con uno skip fra inglese e italiano. Poi si scende in un mare di tremolo praticamente applicato a qualsiasi cosa sia registrata per un brano d’atmosfera strumentale sempre tratto dalla famosa colonna sonora di cui sopra.

In “Pino fratello di Paolo” Silvestri riprende il rappare/spoken di “Le cose in comune” per un momento comico funk-oriented, anche qui completamente deragliato: il basso gira facendo cose abbastanza improbabili, quasi zappiane (non a caso per tutto il disco a suonarlo è Max Gazzè, che dà un’impronta decisiva al lavoro col suo fare visionario). Il suo fantomatico amico Pino pare sia uno stronzo approfittatore e qualunquista, in pratica rappresenta il declino della sinistra italiana, un uomo che dagli ideali si è ridotto ad avere la cirrosi epatica, con un falso finale che si ripete per tre volte, abbastanza fuori di testa per gli standard di un disco licenziato da una major.

“Aiutami” è l’ultimo brano del lotto, la voce femminile è quella di Laura Arzilli dei Tiromancino. È una chiusura trip hop con feedback e bassi rotolanti, si riprende l’incipit di “Intro” come se la fine fosse l’inizio (e nel finale, piazzata come ghost track, una jam session cazzarona con Max Gazzè dal nome interessante di "Rappresaglia", registrata probabilmente con un registratore a cassette antidiluviano di cui si sente il wow and flutter perenne). Una richiesta di aiuto dell’anima di Silvestri che vorrebbe finalmente uscire allo scoperto nel mondo alternative dopo questa prova coraggiosa?

Ebbene, no. Dopo questo episodio Silvestri ritorna nei ranghi del pop italiano. Basta registrazioni fatte col culo, basta session fatte direttamente in cucina o nel cesso, basta. È il momento del successo, non si può più scherzare col fuoco o tentare di mantenere promesse radicali. Il suo eclettismo, per quanto sempre potenzialmente interessante se non fosse schiacciato dalle sue ambizioni pop, sicuramente vede l’apice in questo disco ispirato e delirante dove c’è tutto e appunto nulla, come il destino che avvolge il lancio di un dado. Lo conferma il fatto che, come si legge nella citazione che ho incluso all'inizio, Daniele ha sempre tenuto nel cuore Il Dado come uno dei momenti più sinceri e creativi della sua carriera, paragonando la gestazione dell’ultimo disco d’inediti Acrobati proprio a quel periodo (ma in realtà, sebbene diverso dalla media, Acrobati non riesce a eguagliarne lo spirito iconoclasta).

A fine dicembre però l’abbiamo visto in tour, appunto, con il suo socio Gazzè e con Carmen Consoli, in una sospetta quanto forse inutile rimpatriata: sarebbe il caso di dire che a volte il destino trasforma un dado da gioco in un dado da brodo. Speriamo sia l’ultima volta che Daniele lo riscalda, ci rimarremmo davvero troppo male.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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