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letteratura

Le recensioni della cinquina del Premio Strega che stavi aspettando

Abbiamo letto i libri che sono passati alla fase finale della competizione, così puoi decidere se farlo anche tu.

Ieri sera con strombettamenti angelici e un Facebook Live di RAI Cultura gestito goffamente da un presentatore di Quelli che il calcio è stata annunciata la cinquina del Premio Strega 2017 (Ciabatti, Cognetti, Marasco, Nucci, Rollo), dopo che il giorno prima sempre Cognetti vinceva lo Strega Giovani.

Il Premio Strega è il principale premio letterario italiano e si svolge ogni anno, con il patrocinio della Fondazione Bellonci, in tre tappe: la prima a inizio aprile, quando 12 titoli di produzione nazionale vengono selezionati per vestire la fascetta "Candidato al Premio Strega" in libreria. La seconda è quella a cui abbiamo assistito ieri sera e la terza, la proclamazione finale, sarà il 6 luglio. I membri della giuria sono noti come Amici della domenica, nome che ricorda un po' i Compagni di merende ma che in realtà designa un vasto gruppo di persone culturalmente rilevanti che presentano i propri candidati, poi votano e infine eleggono il vincitore. Ci sono anche delle giurie aggiunte, quelle dei lettori forti, degli stranieri, e un "voto collettivo".

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Comunque, una componente fondamentale del Premio Strega è che ti dà qualcosa di cui parlare quando ormai si è esaurita la scia di Sanremo e il Parlamento sta per chiudere per la pausa estiva. Ogni anno il premio è fonte di polemiche, che di solito hanno come temi centrali lo strapotere delle grandi casi editrici e il fatto che alternativamente i vincitori vengono considerati "non vera letteratura" o "incomprensibili". Frasi come "Lagioia lo preferisco da editor," "Di Albinati secondo me nemmeno la giuria è arrivata alla fine," o "Se non hanno fatto vincere nemmeno Elena Ferrante, le indipendenti non vinceranno mai," possono fornire materiale di conversazione fino a settembre.

Ecco, al di là dei meriti di questa cinquina, il punto è questo: se vuoi continuare ad avere relazioni sociali quest'estate e magari pure sapere cosa succede nel nostro panorama letterario ti conviene leggere le recensioni che seguono. Vedi tu poi se leggere anche i libri o mandare qualche frase a memoria per l'aperitivo di domani.

Teresa Ciabatti, La più amata (Mondadori)

Si sente spesso dire che basta con questi memoir, sono démodé—a me invece piacciono molto. Il problema de La più amata non è tanto il genere a cui appartiene, piuttosto è che l'autrice sembra non avere chiaro che le nevrosi delle persone interessano solo a chi le partorisce. Per scriverne bene bisogna trasformarle in un personaggio interessante. Ne La più amata sembra di leggere il resoconto di una seduta di terapia in cui l'autrice non ascolta mai la terapeuta e continua a ripetere le stesse cose con tono lagnoso. Parlare in maniera così seria e ossessiva di temi quali: chi è la più bella, chi è la più ricca, chi è la più popolare è noioso. Sono complessi che conosciamo, e per renderli appetibili dopo i diciott'anni c'è bisogno di una rilettura, che sia ironica, che sia analitica, che sia qualcosa.

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Anche l'empatia è fondamentale quando si parla di affetti primordiali. Perché ci dovrebbe interessare che il padre della Ginzburg parli di "negritudini"? Perché quando Sedaris parla del padre che istruisce i pescatori sulla spiaggia ridiamo così tanto? Perché in entrambi i casi ogni parola è talmente pregna di affetto da restituirci l'immagine di una persona reale, resa ancora più vivida dal filtro della memoria semantica di chi gli è stato accanto. I personaggi della Ciabatti sembrano invece dei manichini bidimensionali e sbiaditi, piatti, senza scopo. E non è chiaro perché dovremmo affezionarci a dei personaggi quando l'autrice se ne disinteressa.

Il lato positivo è che scorre via, senza le pretese formali che piacciono tanto alla giuria dello Strega. Alle persone intorno a me sembra pure essere piaciuto molto.

—Irene Graziosi

Paolo Cognetti, Le otto montagne (Einaudi)

Avvicinarsi all'ennesimo romanzo di pseudo-formazione di un uomo attraverso temi freudiani come: il confronto, la gelosia e poi il rifiuto per il padre, la morte del padre, la sua eredità, l'amicizia con un altro uomo e tutto quello che succede dopo non mi allettava più di tanto. In generale, è più o meno da quando molte persone delle cui opinioni letterarie mi fido mi hanno consigliato di leggere Atti osceni in luogo privato che mi chiedo cosa stia succedendo agli scrittori italiani tra i 30 e 40 anni, perché abbiamo sentito la necessità di questo ripiegamento del bildungsroman tradizionale all'interno del proprio sé.

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Detto questo, sono cresciuta anche io tra scalate e arrampicate e il dettaglio con cui nel libro si parla di cordate, bivacchi e discese a rotta di collo mi ha fatto sorridere. Inoltre, Cognetti in generale si legge sempre con piacere e con una certa tranquillità d'animo, sapendo che qualunque possibile momento di svolta (la definitiva manifestazione del mal di montagna, uno scivolone da una parete di roccia che è anche uno scollamento dagli amici "non veri") verrà riassorbito in uno sguardo commosso, in una patina malinconica: quella del protagonista per l'infanzia dove tutti i tasselli andavano a posto, quella dei suoi genitori per le montagne dove erano cresciuti, etc.

Voglio dire, questo libro non ha niente che non va. E non so, indubbiamente non so, se ci sono oggi altre possibilità di narrazione rispetto a quella dell'uomo che prova a diventare adulto. Ma lo spero tanto.

—Carla De Biase

Wanda Marasco, La compagnia delle anime finte (Neri Pozza)

L'hubrys emotiva e la reiterazione di modelli neorealisti, diciamocelo, è una roba che ha un po' rotto le palle nei libri italiani. A nessuno frega più niente di sapere come si svolge l'addolorata vita quotidiana degli italiani semplici e delle loro piccole tragedie. C'è una sola eccezione geolocalizzata: Napoli.

Che sia per l'hype socio-demografico che i riferimenti ai napoletani suscitano in questo momento storico italiano, o per il fatto che è effettivamente la città più interessante d'Italia, ma le storie che mutuano pesantemente dall'immaginario della realtà cruda ambientate a Napoli sono le uniche che sembrano avere ancora un senso.

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Pur con alcuni difetti strutturali, e una prosa a volte un po' troppo calcata e retorica, Wanda Marasco mette insieme un gruppo di storie e personaggi che ti fanno venire voglia di vedere come va a finire il libro. E non è una cosa scontata nella cinquina di questo Premio Strega.

—Roberto Parente

Matteo Nucci, È giusto obbedire alla notte (Ponte alle grazie)

Avete presente quella sensazione di familiarità che si ha a volte mentre si legge un libro o si guarda un film, quell'insieme di dettagli abusati che ti fa dire "Ok, dopo 30 pagine ho già capito che piega narrativa prenderà ognuno dei personaggi?" È uno dei pilastri portanti della mediocrità della letteratura italiana contemporanea: l'estrema reticenza nel fare i conti con una caratteristica dei lettori che abitano il mondo reale, ovvero l'ipercoscienza dei modelli di intrattenimento.

Simbolismi emotivi evocati da dettagli naturali, i lati nascosti di una realtà—come ad esempio una città—che tutti conoscono (ma non veramente eh!) messi in luce, l'esaltazione delle storie di margine come esempi di qualcosa di più generale, i richiami classici come sostegno per l'analisi di una tesi contemporanea: sono tutte caratteristiche a cui chiunque abbia letto più di 15 libri è abituato, e che se non hanno uno sviluppo formale provocano una sola reazione della corteccia cerebrale, la noia.

È giusto obbedire alla notte è praticamente è intriso di queste cose: è la storia di una piccola comunità di emarginati che vive in una zona dove "il Tevere non ha più argini" e che accoglie un uomo misterioso che deve fare i conti con il proprio passato e il proprio dolore. Il proscenio è rappresentato da una città di cui pochissimi scrittori hanno tentato di raccontare le pieghe nascoste: Roma. Ah: alcuni protagonisti prendono il nome di celebri personaggi della letteratura classica.

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—Niccolò Carradori

Alberto Rollo, Un'educazione milanese (Manni Editori)

Ieri sera, intervistato dal tizio di RAI Cultura che continuava ad andare a ficcare il microfono nel naso ad Albinati mentre faceva lo spoglio manco fosse Buffon nel dopopartita, Rollo ha esplicitamente detto che Un'educazione milanese non è un libro autobiografico. Ah, perché sul sito di Manni viene sponsorizzato come "un romanzo autobiografico magistralmente scritto, lo sguardo teso della visione: la storia di una città, di una generazione."

Di sicuro la narrazione che Rollo fa del modo in cui Milano è cambiata è interessante a livello storico e aneddotico, è un po' come sentire i fratelli di tua madre quando vi ritrovate tutti insieme e raccontano di quando all'Isola c'era la malavita calabrese, la Bocconi non esisteva ancora e be', non parliamo di City Life con quel grattacielo tutto storto. C'è soprattutto un sentimento di classe, l'educazione milanese è quella della consapevolezza operaia, dei ferrovieri, dei funerali di Giangiacomo Feltrinelli. Ecco, Rollo ha lavorato per tanti anni per la casa editrice di Feltrinelli, e se dovessi descrivere il sentore, ma anche il modo di scrivere, che sta dietro a questo libro lo definirei un 100 percento Feltrinelli.

Tento la chiusura istituzionale: un bell'affresco e una dichiarazione d'appartenenza e d'amore. Però non so se è perché sia la storia sottesa a tanti di quei collettivi studenteschi all'Università Statale, ma ogni tanto tutti quei pugni alzati e coscienza di classe vengono un po' a noia.

—Elena Viale