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Macro

Perché è così difficile tagliare la spesa pubblica?

Anche quest'anno è stata scritta un'altra legge finanziaria e anche quest'anno l'entità della "spending review" è stata ridimensionata. Ma come mai i governi italiani sembrano non riuscire a tagliare la spesa pubblica?

Striscione di protesta contro i tagli alla ricerca alla Normale di Pisa. Foto via Flickr/

Marco Menu

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Anche quest'anno è stata scritta un'altra legge finanziaria—una legge, cioè, che determina il budget dello stato per l'anno a venire—e anche quest'anno il taglio alla spesa pubblica predicato da tempo da vari governi italiani è stato ridimensionato rispetto alle promesse iniziali.

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Nemmeno un anno fa, il premier Matteo Renzi aveva promesso una "spending review" da 16 miliardi di euro. Ma già ad aprile, nel DEF—il Documento di programmazione Economica e Finanziaria che prevede i trend delle finanze pubbliche nazionali—l'asticella era stata abbassata a 10 miliardi, e ora che il budget per l'anno prossimo è stato ufficializzato si è passati a 5-6 miliardi di euro. Un ridimensionamento drastico che secondo alcune indiscrezioni poi smentite avrebbe spinto Roberto Perotti—docente della Bocconi e incaricato da Renzi di gestire il taglio alla spesa insieme al deputato PD Yoram Gutgeld—a presentare le dimissioni.

Già prima di Perotti, altri due nomi eccellenti avevano fallito. L'ultimo in ordine di tempo era stato Carlo Cottarelli: ex direttore del Dipartimento Affari Fiscali del FMI che, chiamato nel novembre 2013 dall'ex premier Letta a gestire la "spending review," era arrivato con l'aura del "super-consulente internazionale" in grado di tagliare il nodo gordiano delle spese dello stato italiano. Non era andata così: dei quasi 60 miliardi di tagli preventivati in tre anni ne erano stati realizzati solo 12, e nell'ottobre 2014 Cottarelli era stato rispedito a Washington con poco o nulla di fatto. La delusione aveva poi spinto Cottarelli a scrivere di essersi trovato in "una situazione paradossale in cui la revisione della spesa (futura) viene utilizzata per facilitare l'introduzione di nuove spese"—tanto che al netto delle nuove spese permesse dai tagli i risparmi effettivi derivanti dal piano Cottarelli ammonterebbero ad appena otto miliardi di euro.

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Quella della "spending review" è una storia che sembra destinata a ripetersi all'infinito. La prima Commissione tecnica per la spesa pubblica risale infatti a oltre 30 anni fa: istituita nel 1981, fu sostituita nel 2007 dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica che, a partire dal 2008, è stata incaricata di effettuare "un riesame sistematico dei programmi di spesa delle amministrazioni centrali, volto ad individuare le criticità, le opzioni di riallocazione delle risorse e le possibili strategie di miglioramento dei risultati ottenibili con le risorse stanziate sul piano della qualità e dell'economicità dell'azione amministrativa".

Poi è arrivata l'epoca dei commissari—non solo Cottarelli e Perotti ma, ancora prima, l'ex commissario della Parmalat Enrico Bondi e Piero Giarda, entrambi nominati dal governo Monti, seguiti da Mario Canzio. Nonostante questo dispiegamento di forze, però, secondo l'Istat tra il 2002 e il 2012 la spesa pubblica è aumentata—passando dal 47,2 percento al 51,2 percento del Prodotto interno lordo dopo aver toccato nel 2009 il 52,5 percento.

A determinare buona parte di questo incremento è stata l'esplosione della spesa delle regioni a seguito dell'introduzione del federalismo all'italiana, che dava ai consigli regionali e ai governatori locali una grande autonomia di spesa—autonomia che in molti casi veniva utilizzata per sostenere sistemi di corruttela e spese ingiustificate, che a loro volta hanno finito per pesare sulle spalle di tutti i contribuenti.

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Indicando con 100 il livello di spesa pubblica nel 1996—anno delle prime riforme Bassanini che riorganizzavano le pubbliche amministrazioni—alla fine del 2008 le spese delle Regioni erano aumentate di oltre 40 punti, arrivando a un indice di 140,97. Il federalismo avrebbe dovuto implicare più spese a carico delle regioni e meno spese a carico delle amministrazioni centrali, ma nello stesso periodo è aumentata anche la spesa di questi ultimi—arrivando a un indice di 120 alla fine 2008, al netto dei tanti interessi che lo stato italiano paga sul suo enorme debito pubblico.

Nei tre anni successivi, tra il 2009 e il 2012, una serie di tagli ai trasferimenti tra stato e regioni imposti dalle misure di austerità legate alla crisi economica ha portato a una drastica diminuzione (pari al 12 percento) della spesa pubblica a livello regionale. Ma se le regioni hanno dovuto tirare la cinghia—anche se si sono spesso rifatte sui cittadini, aumentando le tasse locali—Roma non ha fatto lo stesso: secondo i dati Istat, la spesa pubblica "reale" delle amministrazioni centrali sarebbe infatti diminuita solo del 2,5 percento. Gran parte del risparmio è stato determinato proprio dalla diminuzione dei trasferimenti verso le regioni: escludendo questi e gli interessi sul debito, tuttavia, emerge che tra il 2008 e il 2012 la spesa reale delle amministrazioni centrali è in realtà aumentata dello 0,6 percento.

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Ma perché è così difficile tagliare la spesa pubblica in Italia?

Nel 2008, la Commissione tecnica per la finanza pubblica ha di fatto risposto a questa domanda, affermando che "l'organizzazione periferica dello Stato è spesso troppo frammentata," cosa che rende difficile persino capire quali sono le voci di spesa da aggredire, mentre "la cultura della valutazione nella pubblica amministrazione appare ancora poco diffusa: manca generalmente—e appare comunque priva di effetti sui responsabili amministrativi—la valutazione ex post."

Questo fattore ha portato a veri e propri "meccanismi difensivi" da parte dei vertici della pubblica amministrazione nei confronti ai tagli negli stipendi, che sono stati compensati da promozioni indiscriminate. Inoltre, "le rilevanti e sistematiche differenze tra stanziamenti iniziali e finali nei ministeri di spesa, legate ai ritardi nei trasferimenti operati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, riduce la trasparenza del bilancio, crea incertezza gestionale e ostacola quindi una efficiente politica di spesa".

Insomma la frammentazione, la scarsità di informazioni, i costi che esplodono oltre le attese, le partecipazioni pubbliche fuori controllo e la mancanza di cultura della trasparenza sono i fattori che hanno trasformato la pubblica amministrazione in un mostro fuori misura. Ma oltre a questo c'è anche la scarsa volontà della politica di interrompere alcuni rapporti di dipendenza finanziaria.

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Per capirlo basta vedere dov'è che si annida la distanza tra i tagli promessi e quelli effettivamente adottati per il 2016. Una delle voci che ha subito i maggiori ridimensionamenti è la spesa dei ministeri: doveva esserci un taglio da 3-4 miliardi di euro, che invece si limiterà a 1,7 miliardi—è quindi proprio il governo il primo ente burocratico a non riuscire a riformare se stesso. Altri due miliardi saranno garantiti da una diminuzione delle spese della sanità pubblica, mentre tra gli 1,5 e i 2 miliardi di risparmi arriveranno dai cosiddetti "costi standard"—nello specifico, per questa voce il Piano Cottarelli prevedeva un risparmio di 7,2 miliardi per il solo 2016, oltre tre volte di più.

Oltre al ridimensionamento dei tagli ai ministeri sono spariti i tagli alle forze armate—che Cottarelli aveva stimato in 2,5 miliardi di euro per il solo 2016—la riorganizzazione dei corpi di polizia (che avrebbe portato 1,7 miliardi), la digitalizzazione di parte della pubblica amministrazione (2,5 miliardi di euro di risparmio), il taglio dei costi della politica (quasi 1 miliardo) e la riduzione dei trasferimenti alle imprese (più di 2 miliardi). E queste sono solo alcune delle voci mancanti.

È chiaro quindi che a rallentare il processo dei tagli non sono solo fattori strutturali, ma c'è anche una volontà politica. "Questa è una manovra espansiva," ha spiegato il Financial Times, una legge finanziaria scritta con l'idea di spingere l'economia a mostrare con decisione il segno più in un'epoca di scarsa crescita a livello globale. Ma proprio un recente lavoro di Larry Summers—ex ministro del tesoro degli Stati Uniti ai tempi del governo Clinton—mostra che i tentativi di aggredire eccessivamente la spesa pubblica durante gli anni di crisi possono portare a effetti molto negativi per l'economia nel suo complesso.

Tuttavia, secondo Massimo Bordignon e Francesco Daveri questa manovra tradisce una visione troppo limitata al presente: mentre si cerca la crescita economica in vista di elezioni sempre più imminenti, si mette a rischio la stabilità dei conti in futuro e si rinuncia a limitare le spese inefficienti che indubbiamente si annidano nei conti pubblici dello stato. Rendendo questo compito sempre più difficile ma, allo stesso tempo, sempre più necessario.

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