FYI.

This story is over 5 years old.

Macro

Tutto quello che impari facendo un lavoro porta a porta

Ho lavorato per un po' raccogliendo soldi in beneficenza tramite il porta a porta. Nonostante la paga misera e le lunghissime camminate, mi è capitato raramente di avere a che fare con così tanta umanità in così poco tempo.

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Se c'è qualcosa che ci ha insegnato l'Ice Bucket Challenge dell'estate scorsa, nonostante le varie critiche, è che sui social network le raccolte di fondi a scopo benefico funzionano. E questa è una buona notizia per due ragioni: a) quando i soldi vanno effettivamente a finire nelle tasche di chi ne ha bisogno, possono dare un aiuto concreto, e b) tutto sembra suggerire che gli incaricati delle raccolte fondi in carne ed ossa siano una specie in via di estinzione.

Pubblicità

In un futuro non troppo lontano potreste non essere più obbligati a schivare gente in gilet e cartellette mentre tornate in ufficio dopo la pausa pranzo. Al contrario, forse vi basterà aspettare che un annuncio faccia la sua comparsa improvvisa nel feed di Facebook, potendo fare la donazione comodamente dal letto.

Al momento però questa specie esiste, e non è delle più apprezzate; gran parte dei passanti li considera un ingombro o alla meno peggio li ignora, ma c'è anche chi si confida con loro come mai ci si aspetterebbe. Per un motivo non meglio specificato, la gente sembra più disinibita quando si rapporta ai responsabili delle raccolte fondi, offrendo a questi ultimi uno spaccato singolare––tanto piccolo quanto estremo––sulle loro vite.

Lo so perché l'estate scorsa ero uno di loro, quello che in inglese chiamano "chugger" (ovvero una fusione di "charity" e "mugger", ormai marchiata nella parte posteriore del mio orecchio per tutte le volte che mi sono sentito dare del ladro-al-soldo-di-ladri-ancor-più-grossi). Sapevo a cosa andavo incontro, ma mi sembrava un'alternativa valida allo spillare birre––se non altro, idealmente, la mia attività di raccolta fondi avrebbe portato pasti caldi in tavola piuttosto che birre in pancia e pugni in faccia.

Prima di fare domanda conoscevo per lo più solo i tizi che stazionano per strada, agli incroci. Ma come avrei scoperto mano a mano, quelli che fanno il porta a porta––i testimoni di Geova dei "due euro al mese che possono cambiare la vita di una persona dall'altra parte del mondo"––sono di tutt'altra stoffa. All'epoca, mi erano stati descritti come "non proprio degli sfigati, ma gli orfanelli della società."

Pubblicità

La mia esperienza è iniziata con uno colloquio di gruppo nell'ufficio della compagnia; ero l'unico in giacca e cravatta. Tutti gli altri sembravano essersi appena risvegliati dal letargo di un salotto, pronti a tornarci il prima possibile. Ed effettivamente, il responsabile del colloquio era l'unica altra persona con addosso qualcosa che avrebbe superato la selezione all'ingresso di un locale. Ci ha raccontato del suo lavoro, di come era partito dalle raccolte fondi per strada fino a scalare le vette della compagnia. A sentire lui, con le capacità giuste il porta a porta poteva trasformarsi in una professione redditizia––le persone "col guizzo" avrebbero potuto fare anche più di 2.000 sterline (2.800 euro) al mese.

Inizialmente avremmo preso 35 sterline al giorno, con la possibilità di ottenere un bonus (50 sterline a firma) una volta superate le otto firme a settimana. Immagino che con "guizzo", avendo a mente lo stipendio mensile che ci aveva fatto subodorare, intendesse l'obbligo di raccogliere almeno 13 firme a settimana (le otto standard, e il resto di bonus). E se avete mai scaricato una di queste persone a un incrocio, capirete quanto sia complicato fare questi numeri.

Il passo successivo ha previsto che tutti imparassimo e facessimo pratica con un discorso che poi avremmo dovuto sciorinare di porta in porta; un'altra parte della formazione, poi, è stata dedicata alla gestione delle obiezioni. Le persone, essendo creature per natura egoiste, cercheranno sempre una scusa che motivi la loro impossibilità a fare un'offerta; noi dovevamo imparare a ribattere alle scuse. Per esempio, se qualcuno ci avesse detto di non poter donare tre sterline, noi avremmo dovuto rispondere, "Ma signora, tre sterline sono meno di quanto spende in una settimana per pane e latte, ci pensi." A quel punto, stando ai piani, la persona in questione si sarebbe sentita attanagliata dai sensi di colpa fino a cedere.

Pubblicità

Il mio primo giorno di lavoro l'ho passato in un paesino di campagna nel Norfolk. Ogni gruppo, composto da cinque persone, aveva un capogruppo. Dopo aver percorso qualche chilometro il capogruppo ci ha chiesto se non avessimo fame, per poi accostare nel parcheggio di un KFC in cui avremmo trascorso la prima ora del nostro turno. Come ho scoperto più tardi, l'andamento della giornata dipendeva in larga parte dal tracciamento via GPS. Ogni capogruppo doveva avere con sé uno smartphone così che il responsabile, dalla sede, potesse controllare gli spostamenti e assicurarsi che ognuno stesse facendo il proprio lavoro. Ma l'accessibilità agli smartphone si scontrava col budget risicato, e questo faceva sì che ogni giorno diversi gruppi potessero lavorare (o non lavorare affatto) senza l'incubo del tracciamento.

In quel giorni senza GPS, ognuno aveva un modo tutto suo di occupare il tempo: alcuni andavano alla spiaggia, altri al bar, un altro ancora andava a casa della sua ex e si faceva preparare un piatto caldo dalla madre di lei. Quanto a me, io mi limitavo a fumare e mangiare schifezze fuori da Sainsbury's in compagnia di qualche collega.

Ovviamente c'era anche chi si dava da fare, e lo faceva anche nei giorni in cui il tracciamento non era previsto. Erano persone che non erano riuscite a trovare lavoro altrove, a cui si aggiungevano gli studenti, gli artisti e i musicisti––che facevano lo stretto necessario per potersi pagare le spese in attesa di finire quell'opera multimediale d'avanguardia o l'EP kraut-funk a cui stavano dietro da mesi. E poi c'erano i veterani, come Jacob, che univa una discreta familiarità con gli stupefacenti a una competitività più adatta alla finanza che alle conversazioni unidirezionali coi pensionati. Immagino che nella sua vita non ci fosse molto altro al di là del porta a porta, perché non faceva altro che parlare di campanelli. Dopo un po' notai anche che aveva la tendenza a mentire sui destinatari delle donazioni e sulle modalità di sottoscrizione.

Pubblicità

Col tempo ho anche capito che molto variava da zona a zona: per quanto riguarda il Norfolk, se la ricerca sul cancro e la povertà riscuotevano un certo consenso, bussare a una porta a nome di Oxfam o qualsiasi altro organismo per l'aiuto umanitario significava soltanto vedersi chiudere quella stessa porta in faccia. In un'occasione la mia interlocutrice aveva detto che non le interessava aiutare "i negri", mentre un uomo aveva investito vari minuti a spiegarmi che l'Africa, tutta l'Africa, si trovava in "quella situazione" perché "fanno troppi figli." A un certo punto Harry, uno dei miei colleghi, ha annunciato di voler lasciare il lavoro perché incapace di sopportare quel razzismo "imbarazzante."

Ma c'erano anche bei momenti. Come la volta in cui un uomo ci ha liquidato dicendo ad alta voce di non essere interessato alla ricerca sul cancro, per poi aggiungere in un sussurro, "In realtà gli ho dato praticamente tutti i soldi che ho, ma lascerò che mia moglie lo scopra quando sarò morto." Forse era una scusa per farci sparire, ma di certo è stata una delle più toccanti.

Più di una persona poi è scoppiata in lacrime e mi ha ringraziato per aver bussato. Alcuni mi abbracciavano persino, e in quei casi mi sentivo sempre tremendamente in colpa (in fondo, ero lì per convincerli a darmi i dettagli della loro carta di credito), una sensazione a cui cercavo di rimediare fermandomi a parlare il più a lungo possibile. Lavorando anche per organizzazioni che si occupavano di ricerca sul cancro, mi capitava spesso di imbattermi in persone con storie personali legate alla malattia, e dare l'impressione di avere un cuore era il minimo che potessi fare per qualcuno che, nella gran parte dei casi, sembrava passare più tempo da solo che in compagnia.

Col tempo ho imparato anche a riconoscere i clienti e le specificità della piccola, media e alta borghesia dell'East Anglia. Come si dice spesso, i più ricchi erano anche quelli meno disposti a donare, preferendo investire il proprio denaro in cancelli e telecamere a circuito chiuso per tenersi il più al riparo possibile dal resto della comunità. I giorni più proficui erano quelli trascorsi tra i complessi poco fuori dal centro, dove gente che non sembrava possedere più di un cane, un telefono fisso e un letto poteva firmare nel giro di pochi minuti.

Ora come ora, mentre ci ripenso, avverto una specie di nostalgia per un lavoro che quando era il mio non potevo fare a meno di odiare. Nonostante la paga misera, le lunghissime camminate e le vesciche, mi è capitato raramente di avere a che fare con così tanta umanità in così poco tempo. Di poter capire cosa pensa la gente. Siamo così abituati a scansare quei tizi in gilet e cartelletta, che quando alla fine ci parliamo per davvero si crea uno strano senso di apatia.

Così come ci interessa ben poco di ciò che pensano di noi quando diciamo di non voler fare un'offerta, ci interessa altrettanto poco quando per una volta ci apriamo. E così ci apriamo, senza filtri e senza censure. Un attimo è il razzismo, l'attimo dopo è l'insospettabile filantropia. Mi sono dovuto ritrovare dall'altro lato della porta per capirlo, ma occupare quella strana posizione tra altruismo e disturbo della quiete domestica significa godere di un punto di vista privilegiato sulla società.

E alla fine, è un peccato che tutto quello che impari sia così sconfortante––e che, tra tutte le attività di consulenza non previste e i giorni senza GPS, alla fine non raccogli poi tutti questi gran soldi per le persone che ti pagano per farlo.