I pirati della recessione greca
Tutte le foto di Michela A. G. Iaccarino.

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A12N1: Tanta carne al fuoco

I pirati della recessione greca

Michela Iaccarino è stata tra i porti del Pireo lasciati ad arrugginire, le compagnie straniere che arrivano a comprarli e il malcontento per Tsipras.

Tra le onde del mare aperto e il cemento del molo, un pezzo di Ellade è in lotta. Tra il Pireo e il porto di Perama, a pochi chilometri da Atene, nel cantiere navale abbandonato di Drapechona, i marinai che un tempo si esibivano in racconti di tempeste al largo ora parlano solo delle navi su cui lavoravano, ora arenate dalla bancarotta e da armatori corrotti. Celios ha vissuto in nave tutta la vita. "Finché io non avrò i miei soldi, questa nave, la mia nave, non gliela do."

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Su quello che era il ponte d'attracco e ora è la soglia d'ingresso all'imbarcazione ribelle c'è scritto con gli stessi colori della bandiera greca, blu su bianco: ta lefta, mas peiname—non abbiamo soldi, abbiamo fame.

Dry dock di Perama, Pireo. Un fabbro al lavoro in uno dei cantieri che una volta erano tra i fiori all'occhiello dell'industria navale ellenica. 

Celios un paio di volte ha messo piede fuori di qui, ma mangia, dorme e vive nel ventre del colosso di ferro Teofilos—sette piani, 125 metri, una piscina, due discoteche, centinaia di tonnellate di alluminio e ferro—dal 27 giugno 2014. In questo dry dock , come vengono chiamati i bacini in secca usati per le costruzioni navali, nella periferia del Pireo, il primo mare che incontri se parti dalla capitale di Tsipras, quelli che erano marinai sembrano ora pirati che occupano vascelli in attesa del salario arretrato.

Alcuni si danno il cambio per mantenere l'occupazione delle ex navi da trasporto. Potrebbero portarle via da un momento all'altro per smantellarle e recuperarne l'acciaio. Dove prima lavoravano 5000 operai e ora la mattina nessuno varca più i cancelli, sono rimasti solo rottami e la rabbia degli operai che reclamano anni di salari non elargiti.

Nel porto di Drapechona, dove si incrociano le leggende delle battaglie degli antichi greci e la disperazione economica dei moderni, la Nel Lines, Naftiliaki Eteria Lesvou, compagnia nautica di Lesbo, da oltre un anno non eroga stipendi e conta in totale tre centinaia di licenziati in tutte le isole greche. "I porti non li chiudono, li fanno arrugginire, così quando arriveranno a comprare gli stranieri, il resto delle nostre coste e i cantieri costeranno solo un euro," è uno dei proclami di scontento.

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Panorama dei cantieri deserti del Pireo.

Dal Pireo a Perama, da Skaramangas a Salamina, i porti sono cimiteri di navi non sorvegliate che si lasciano galleggiare. I cantieri marittimi sono ridotti all'abbandono. Quella di Celios e degli altri è una storia che si intreccia con le svendite del governo greco, che hanno condannato in questi anni alla polvere quella che era un tempo la punta trainante dell'economia della penisola dell'Egeo.

Le navi della Nel occupate sono tre. Celios vive nella più grande, senza luce e senz'acqua. Alle otto accende il generatore per vedere il telegiornale. Se è in onda la faccia di Alexis Tsipras, la parola del coro dei lupi di mare è malaka, coglione. I compagni di ammutinamento intorno al tavolo sono Sisi, 24 anni—ex secondo ufficiale sull'European Express, altra nave occupata che ondeggia accanto a Teofilos—il meccanico di bordo Stavro e Kostas, barman. Il primo vive sulla nave Aqua Jewel e il secondo sulla chiatta Aqua Maria. Sisi "l'abbiamo nominato nostro capitano quando il nostro primo capitano ha abbandonato la lotta e ha trovato lavoro in un'altra compagnia." Ioannis Avradinis, maggior azionario della Nel, "mi deve 40.000 euro di salari e 16 mesi di vita," dice Kostas. Prepara la brace per la carne con pezzi di barche di legno. Le stoviglie che usano sono quelle del servizio passeggeri.

Kostas fissa con tristezza l'orizzonte, poi la nave, poi il porto, poi i tre cani randagi, tutti marroni. "A volte arriva la polizia, ma non tentano più di mandarci via, chiedono solo: allora, sapete quando vi pagano?" Attraccano barche israeliane, partono quelle australiane e alcuni dei marinai greci soffrono ancora a vederle partire.

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Celios sorride sempre, parla greco, turco, bulgaro, inglese e un paio d'altre lingue balbettate vicino e lontano dai confini in cui è nato, provincia di Xanti. "Bambino mare, adesso kaputt," mi dice in italiano. Si imbarcò come gli altri a 14 anni la prima volta, arrivò al porto Livorno, cominciò a fare spola con le Americhe, con l'Argentina in particolare. "Poi più invecchi, più la rotta si accorcia. Le mie ultime rotte erano solo tra un'isola e l'altra qui in Grecia." Teofilos è la stata la sua ultima barca e ne conosce corridoi e passaggi a memoria, tanto da poterli percorrere al buio.

I suoi 60 anni Celios li ha passati al largo e non si aspettava di finire così, imbarcato sulla terraferma: un muro di cemento che copre l'orizzonte dove naviganti e mozzi hanno scritto negli anni i loro porti di provenienza. Taiwan, Burgas, Odessa Mama. Il mare qui intorno è una ciminiera liquida, una striscia bituminosa. Ci sono più gru che operai nel porto che ha di fronte Salamina, dove 2500 anni fa Temistocle sconfisse i persiani e ora approdano i low cost idiots al porto del Pireo.

Perché in tutto questo frotte di turisti continueranno ad arrivare ogni estate per una vacanza economica in mezzo alla miseria altrui.

Un operaio in attesa di un pezzo di ricambio durante la riparazione di una nave ormeggiata a Perama.

Intanto Nike o Tanatos, vittoria o morte, è la scritta che campeggia sul pontile che vede ogni giorno. Alla sua punta il faro continua a intervallare luce verde e luce rossa per le barche, anche se non arrivano più. "Questa per noi non è mai stata una professione. Questa è la nostra vita. Abbiamo trascorso più tempo in acqua che in qualsiasi altra terra che si possa chiamare patria."

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Nessuno di loro crede alle scialuppe di salvataggio lanciate dall'Europa, mentre Atene vacilla intorno al suo zero di ripresa economica. Ogni tanto abbandonano le navi occupate per andare a protestare di fronte alla sede del governo di Tsipras non lontano dal Maximu, il Parlamento di Atene.

"L'esperimento greco è riuscito, il nostro è solo l'ennesimo shipyard in coma" dice Danai Houhzoum, di un altro dry dock in lotta, quello di Skaramagas.

"Non spara nemmeno: è bello ma non serve a fare la guerra," dice Danai. "A cosa serve un sottomarino così?" Parla di un U214, un sottomarino di produzione tedesca, parte della flotta greca Papanikolis. Come gli altri non funziona a dovere, se l'acqua è agitata addirittura funziona peggio. È solo una boa contro l'oblio "per tutto quello che è successo fino a oggi." Quel capidoglio nero, 65 metri e quasi 2000 tonnellate di pece battuta, sembra un mammifero di ferro lucido e bulloni scuri. È vietato fotografarlo. È l'unico sottomarino visibile al cantiere navale di Skaramagas. Sta metà in acqua, metà fuori.

Se non fosse un simbolo di mazzette e scandalo che galleggia su quattro miliardi di euro di costo, monumento alla corruzione di funzionari greci e manager tedeschi, sarebbe anche maestoso, con la bandiera greca sul muso. È l'unico dei quattro sottomarini completi tra quelli della commessa della discordia che ha messo in ginocchio lo stato greco e in piedi un sistema di tangenti e riciclaggio in un robusto asse tra Berlino e Atene, un asse molto più saldo di qualsiasi altro tentato dal Governo ellenico e dall'Unione Europea.

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Il marinaio Manolis sulla sua nave nel porto di Salamina.

Gli operai di questo cantiere navale prossimo alla chiusura— come molti impiegati delle compagnie marittime in crisi—attendono la liquidazione. O almeno una spiegazione. Qui dove lavoravano quasi 6000 persone ne sono rimaste 800 ancora in tuta. Lo stipendio non arriva dal 2013.

Come scrive il New York Times, i greci sono messi alla prova dalla disonestà dei loro rappresentanti. Alla corruzione, a quello che è un sistema e non un caso isolato, hanno fatto il callo.

Durante il processo che lo vedeva coinvolto come imputato nella questione del porto di Skaramagas, Antonis Kantas, direzione armamenti del Ministero della Difesa, ha dichiarato di aver ricevuto così tante bustarelle da non poter ricordare i dettagli e l'ammontare di ognuna.

Prima comprato dallo stato greco dalla compagnia tedesca HDW, poi ricomprato dalla ThyssenKrupp "per un euro," come dicono gli operai, il porto di Skaramagas è l'icona della svendita delle risorse del Paese, della desertificazione industriale e dello smantellamento progressivo del sistema ad azionariato popolare dei cantieri navali greci.

Manovale all'opera nel porto di Perama.

L'inizio della fine fu proprio l'appalto per la produzione militare. "Tutto è cominciato quando lo stato e la Ellenic Shipyard hanno deciso di vendere ai tedeschi. Chiudere o privatizzare, non c'era alternativa," dice la sindacalista Danai. "In Grecia quando è arrivata questa parola, Europa, i cantieri navali e i porti hanno cominciato a chiudere uno dopo l'altro. Il mare non è più nostro."

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L'alleanza tra Berlino e Atene è stata cementata a forza di mazzette e riciclaggio del denaro scambiato dai funzionari e ministri ellenici con i manager e i rappresentanti delle multinazionali tedesche. A rimanere coinvolte nel primo ciclo di tangenti tedesche per l'acquisto del cantiere erano facce del vecchio partito socialista Pasok, il vecchio braccio destro del primo ministro Papandreu, insieme a Vassilis Papageorgopoulos, ex ministro di Nea Demokratia.

Nel secondo ciclo di tangenti fu il turno di Antonis Kantas, unto negli anni con più di 14 milioni di euro in fondi neri per favorire l'acquisto dei quattro sottomarini, missili stinger, un F35, cannoni dismessi dalla Bundswehr, la Difesa Tedesca, e 170 carri armati Panzer Leopard. Nella poverissima Grecia ci sarebbero stati, aggiunti a quelli vecchi, più carri armati di quelli della ricchissima Germania.

Nel 2013 Syriza era ancora la testa d'ariete dell'opposizione e chiese una commissione d'inchiesta per fare chiarezza, ma la proposta fu bocciata. A spalleggiare Syriza allora c'erano il KKE, Partito Comunista Greco, i Greci Indipendenti e Alba Dorata. Votarono contro, ovviamente, i membri del Pasok e Nea Demokratia, che allora erano al governo e attualmente sono all'opposizione.

Aeroporti. Ponti. Infrastrutture. Telecomunicazioni. Porti e armi. Gli scandali sono notizia vecchia ma i greci hanno buona memoria, e molte delle lamentele battono su un tasto ben preciso. "Dietro ogni scandalo e bancarotta greca c'è un'azienda tedesca," è il mantra di Vasilij Zpispidis, ingegnere marittimo, consigliere governativo, uomo di fiducia dell'ex ministro dell'energia Panagiotis Lafazanis. "Prima hanno svenduto i cantieri, poi i porti, adesso svendono direttamente tutta la Grecia". Per tutti gli scandali greci scoperti dietro gli appalti delle grandi opere quasi tutti i corrotti erano membri del partito Nea Demokratia, ma soprattutto veterani del vecchio partito socialista Pasok.

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I corruttori dall'altro lato della linea avevano nomi famosi: erano decine e decine di imprese come Siemens, Deutsche Telecom, Krauss-Maffei Wegmann, Bmw e Mercedes. "Questo che si gioca sulla nostra pelle è un gioco sporco, per questo combattiamo i tedeschi," dice Vasilij. Corrompere uomini di potere in Grecia è sempre stata una passeggiata al sole per gli stranieri, secondo i marinai.

L'ultimo finanziamento per il cantiere di Skaramagas dello stato alla Thyssen risale allo stesso anno in cui l'azienda tedesca decise di disfarsene: era il 2010, la crisi greca cominciava a essere coniugata senza condizionale e nel settembre di quell'anno Yorgos Papaconstantinou, ex ministro delle Finanze, ed Evanghelos Venizelos, ex ministro della Difesa, incontrarono Iskandar Safa, proprietario franco libanese della compagnia Abu Dabi Mar, permettendogli l'acquisto del dry dock. La ThyssenKrupp, rimanendo con quota minima, se ne liberava senza consegnare i sottomarini terminati. Intanto il 95 percento dei lavoratori di Skaramagas veniva licenziato.

Oggi anche l'unica linea di produzione che rimane attiva sta per fermarsi. E il francolibanese Safa, il proprietario di questo cantiere navale alla deriva, qui a Skaramagas non l'ha mai visto nessuno.

"Anche al porto di Perama [dove la disoccupazione è a livelli percentuali altissimi]," mi dice Vasilij, "tutti sanno che faranno la fine di Skaramagas," dove quel sottomarino nero è ormeggiato e forse non verrà mai usato. "Prima qui si costruiva tutto: navi da crociera, mercantili, da guerra. Oggi nessun porto greco ha una commessa." Per gli operai marittimi e i marinai, licenziati o al lavoro senza salario, riforme, promesse, benefit placebo—se ce ne saranno—non rappresentano che una magra consolazione rispetto al lavoro perduto, e agli scenari futuri che si dipingono davanti a loro. Quando sentono nominare la aziende straniere, ormai, i portuali aggiungono il nome di un ex ministro greco e riassumono tutto con una parola: mafìa, accento sulla i.

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"Non dovevamo entrare nell'Unione Europea, ma adesso non dobbiamo più uscirne," è il ritornello comune, che si sente un po' in ogni porto. L'Europa "vuole da noi più soldi di quanti gliene abbiamo fatti fare in questi anni". Negli ultimi anni il 15 percento delle armi tedesche, e un dieci percento di quelle francesi, sono arrivate qui, dove nonostante la bancarotta imminente, lo stato continuava a comprare armi da Berlino spendendo, fino al 2014, 551 milioni di dollari.

"Il grande piano? Renderci un'isola di servizi a basso costo, essere l'Africa d'Europa," dice Manolis, marinaio della Nel Lines in un altro porto abbandonato sull'isola di Salamina, di fronte alla costa di quel Pireo dove vive Celios. Manolis è solo insieme a decine di navi vuote. È finita la corrente del generatore, la sua branda è accanto alle scale mobili, ferme da più di un anno, ma le istruzioni e i cartelli sono ancora appesi ai muri.

"Dobbiamo risalire dal fondale. Intendo la Grecia," dice Manolis. "Per i marinai è già dal 1992 che le cose vanno male. Cominciarono ad assumere i marinai filippini perché costavano la metà dei greci. Cominciarono a riparare e smantellare le navi in Turchia perché costava meno che farlo qui in Grecia." E ora è arrivata anche la danese AP Moeller Maersk. Manolis è uno strano ibrido di nostalgia politica, rimpiange la junta—il regime dei colonnelli—"che agivano solo per il bene della patria e la sua economia, che hanno lasciato ai successori corrotti un paese solido," e adesso ripone le sue speranze in Tsipras. "È l'unico che può salvarci."

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Il premier aveva provato a ridurre le spese agli armamenti in questi anni, applicando quei tagli previsti anche per altri settori dell'economia, proponendo un tetto di costi di 200 milioni di euro nel 2016, 400 milioni di euro nel 2017. Le azioni erano mirate e riguardavano anche l'organico: la Grecia, in rapporto al totale della popolazione ha una quota di personale militare tra le più alte in Europa.

La penisola greca, che rischia di affondare sotto il peso dei suoi armamenti, si difende poco sia a terra che in acqua che in cielo: "Noi spendiamo miliardi per gli armamenti e voi per violare il nostro spazio aereo" è stato uno dei tweet di Tsipras durante una delle ultime convention dei 28 membri EU. "Meno male che i nostri piloti non sono nervosi come i tuoi contro i russi," ha continuato Tsipras rivolgendosi al suo omologo turco, ricordandogli del caccia di Putin abbattuto dai soldati di Erdogan per aver violato la linea di confine.

Una nave riverniciata e ribattezzata Divina St. John's nel porto di Drapechona, Pireo.

Non solo Tsipras, ma anche tutti gli abitanti delle isole hanno difficoltà a tenere il conto delle violazioni aeree dei turchi. "Volano sulle nostre teste solo per dimostrare di poterlo fare rimanendo impuniti. A cosa servono tutte queste armi se non possiamo difenderci?" mi fanno notare. Prima di oggi, ma dopo la contesa tra greci e turchi per l'isola di Cipro, la minaccia che riuscì a convincere l'Ellade e i suoi uomini, dentro e fuori i palazzi del potere, a investire nel sistema di difesa fu la crisi militare per Imia, isola dell'Egeo, rivendicata dai turchi con il nome di Kardak. Era il 1996.

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Vent'anni dopo non sono solo le scie degli aerei di Erdogan in cielo a far infuriare gli abitanti delle isole, ma l'ammissione di incontrollabilità del governo turco delle coste intorno a Smirne, dove i trafficanti organizzano ogni giorno decine di partenze verso Lesbos e Kos per i migranti, su barche e gommoni che si riversano sulle loro coste.

Da Atene a Mitilene, isola di Lesbo, su tutti i muri c'è scritto Syriza, ma la z è una svastica nazista. Alle ultime elezioni per confermare Tsipras al potere, comunque, nessuno ricorda di essere andato a votare. Tanto orm ai il dado è tratto. Per quello che Atene è diventata—migliaia di poveri in fila alle mense sociali e senzatetto che vivono spalla a spalla con il turismo— rimanere a bordo di Teofilos è un modo per evitare la deriva, e per continuare a resisterle.

Qui intorno, rosso su giallo, la scritta vendesi è un po' ovunque: è il cartello su negozi vuoti dai vetri rotti e su case abbandonate in palazzi cadenti. I marinai, come molti altri cittadini greci, non si chiedono più se il loro Paese in apnea potrà salvarsi, ma "quale sarà la prossima Grecia in Europa."

E l'Italia è sempre tra le nominate. "È come quando c'è stata la conferenza di Jalta: America e Russia allora non sapevano chi doveva prendersi la Grecia. Accade lo stesso oggi, lo stanno facendo di nuovo, solo che al posto degli imperi ci sono le banche europee. La Terza guerra mondiale non ha bisogno di cannoni, bastano i prestiti sul conto corrente e i bancomat. Gli investitori, soprattutto i tedeschi, conoscono il potenziale del nostro suolo e dei nostri porti dalla Seconda guerra mondiale. Questa che oggi si chiama emergenza è stata pianificata molto tempo fa, da Papandreou, l'idiota."

Una nave in riparazione a Perama, dove è attiva una delle ultime officine navali del Pireo.

Il radiotelegrafista militare di 64 anni che non andrà in pensione "per non morire di fame" guarda il Pireo, dove ricorda lavoravano vent'anni fa 25.000 operai. Oggi ne rimangono forse 2.000 scarsi. "Tutto è cominciato quando è arrivata la compagnia cinese Cosco [China Ocean Shipping Company] che ormai possiede il 70 percento del porto." Tra migliaia di migranti che ogni giorno sbarcano dal ventre delle grandi navi di trasporto ancora attive—ogni biglietto costa a un profugo dai 40 agli 80 euro—la linea d'orizzonte tra terra e mare non la vedi più. L'ha cancellata il colosso cinese con le sue torri di container che arrivano fino al cielo. Nei dintorni dei porti, dove il KKE aveva quote bulgare, oggi sono spuntate anche le sedi del partito di ultradestra Alba Dorata. Era figlio di portuali e di questi porti, operaio marittimo lui stesso, il rapper Killah P, morto "da comunista, per mano dei fascisti di Alba Dorata."

Lungo la strada del centro abitato, a pochi passi di distanza dall'aggressione che gli è costata la vita, oggi c'è una statua in sua memoria. nni di vittorie sindacali sono andati in fumo. "Chi non combatte è già morto, solo che ancora cammina."

A parte il fraseggio marxista, la sinfonia collettiva di rivendicazioni sociali non dimenticata da inizio Novecento, i comunisti che fuori da Skaramagas hanno le percentuali più alte tra gli operai fanno poco e altrettanto poco fa il Pame, il sindacato del KKE più votato da fabbri, marinai e tutti gli altri lavoratori portuali.

Non si è riverniciato di politicamente corretto come gli altri sindacati, ma oltre ad appoggiare le mozioni in Parlamento e organizzare scioperi, ha fatto poco per far comparire ed emergere in piena luce la questione dei porti greci. "Oggi il salario minimo da 750 euro è passato a 586: ma tanto non ci sono contratti e se li fanno, sono part time quindi gli operai ricevono la metà dei soldi." Dunque che farete? "Lotteremo," risponde sempre Danai se qualcuno glielo chiede. Lo dice anche Celios, ma per lui è una parola che senza ammutinamento collettivo non serve a niente. Una parola che serve solo a fare quell'eco che il ventre della sua balena d'acciaio di nome Teofilos ingoia in fretta.