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Come sono sopravvissuta a chi voleva salvarmi dalla prostituzione

Quando mio padre mi avviò alla prostituzione, ai tempi di Clinton, per lo stato dell'Alaska era “abuso sessuale su minore.” A 15 anni la polizia decise di “salvarmi” e, per mia sfortuna, finii sotto i servizi sociali.

Foto Wikimedia Commons

Nell'Alaska della metà degli anni Novanta, quando ero ragazzina, le leggi sullo sfruttamento della prostituzione non esistevano ancora. Oggi esistono, ma sono così ampie e vaghe che le autorità le hanno addirittura usate per accusare le stesse donne di “vendersi” da sole. I media parlano di protettori che sequestrano le ragazze nei centri commerciali, ma le storie della maggior parte delle vittime hanno presupposti ben diversi. Lo so perché sono stata vittima della tratta, e la mia esperienza riflette quella di molte altre donne.

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Quando mio padre mi avviò alla prostituzione, ai tempi di Clinton, per lo stato il suo crimine consisteva nell'“abuso sessuale su minore.” Quando poi la polizia decise di “salvarmi”, fecero pressioni sullo stato perché mi prendesse in custodia, così da impedire a mio padre di portarmi via e scappare. Ormai vivevo con amici da anni. La mia responsabile al Dipartimento della Famiglia e dei Servizi alla Gioventù (oggi Ufficio dei Servizi per l’Infanzia) non voleva farsi coinvolgere—pensava che fossi una bugiarda e che meritassi una punizione per essermi inventata fandonie su mio padre—ma alla fine fece quello che le dicevano i poliziotti. Con quasi tutte le famiglie adottive rimasi meno di una settimana.

Questa è la storia di quello che ha fatto lo Stato per “salvarmi” da mio padre—e badate, sono stata fortunata. Altre ragazze hanno subito stupri e sono state costrette a prostituirsi anche durante il periodo di affidamento. Al tempo non ne avevo idea, ma c’è una ragione dietro la mia buona stella: dieci anni prima mia madre, temendo per la nostra incolumità, era fuggita di casa insieme a me e si era rifugiata da una vicina. Rimanemmo sveglie tutta la notte, terrorizzate tanto dal chiedere aiuto quanto all’idea di tornare a casa. Quella vicina è successivamente entrata in polizia. Quando si imbatté in un rapporto sul mio conto (simile ai 13 recapitati al Dipartimento della Famiglia e dei Servizi alla Gioventù e agli altri due finiti nelle mani della polizia) decise che mi avrebbe tirata fuori dai guai.

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Dopo pochi mesi lo stato esaurì la sua riserva di famiglie affidatarie, e io fui catapultata in un centro per minori da cui poi venni puntualmente espulsa. Avevo passato tre o quattro settimane a casa di amici che, in quanto adulti, avevano iniziato le pratiche per l'adozione. Era il periodo più lungo che avessi mai trascorso in una sola casa. Dopo aver disfatto i bagagli la mia responsabile arrivò e disse che non c’erano abbastanza uscite di sicurezza. Mi chiese di raccogliere le mie cose e di salire in macchina con lei.

“Non ho tempo,” mi disse mentre guidava. “Dovevo uscire dal lavoro un’ora e mezza fa. I miei figli sono a casa che mi aspettano.” Disse che lo stato non aveva più famiglie affidatarie, così mi portò al centro per minori. Era un luogo a me familiare, perché di solito trascorrevo lì alcuni giorni prima di essere trasferita altrove. Prima di lasciarmi andare frugò nella mia borsa e mi prese tutti i soldi. Disse che probabilmente li avrei spesi per comprare della droga.

Qualche settimana più tardi scoprii che aveva mentito sul perché non potevo stare dai miei amici. In tribunale il tutore mi lasciò leggere il mio fascicolo. Scoprii un grossa mole di documenti che rivelavano la vera ragione per cui avevo dovuto lasciare quella casa: la mia amica aveva presumibilmente abusato di suo figlio e permesso a un pedofilo di vivere sul suo vialetto d'accesso.

Di solito il limite di permanenza nel centro era di due settimane. Io ci rimasi sette settimane, perché non avevo una famiglia da cui andare. Gli ospiti non potevano lasciare l’edificio senza una buona ragione, come lavorare o frequentare la scuola. Io a scuola non ci andavo da anni, così rimasi dentro per tutto il tempo.

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Alla fine mi annoiai talmente tanto che cominciai a incidermi profondi tagli sulle braccia. Il giorno dopo dovetti prendermi cura del figlio neonato della direttrice mentre lei e il resto dello staff discutevano del mio caso in cucina. Decisero che dovevo andarmene perché avevo tendenze suicide. Chiamarono la mia responsabile. Dal momento che non avevo davvero tentato il suicidio non sarei potuta andare in ospedale. La mia responsabile mi trovò una nuova famiglia affidataria, una coppia arrivata da poco dall'India. La prima sera che trascorsi con loro il marito rimproverò la moglie per la cena. Lei buttò via il cibo e ne preparò dell'altro. Il giorno successivo uscii per fare una passeggiata e mi dimenticai di tornare.

La responsabile chiamò i miei amici e disse loro che ero scappata, aggiungendo che ospitandomi sarebbero finiti nei guai con la giustizia. Invece di disturbare qualcuno di loro, decisi di andare nel bar di un hotel. Lì trovai un uomo che mi portò a casa sua. Oggi si chiamerebbe “sesso per sopravvivenza”. Secondo uno studio sul traffico sessuale giovanile a New York, il Commercial Sexual Exploitation of Children, dal 30 al 50 percento dei giovani senzatetto si prostituisce, e solo il 16 percento delle ragazze ha iniziato con un protettore o un servizio escort.

Un paio di giorni e un paio di uomini dopo incontrai i genitori affidatari della mia migliore amica. Viveva con loro da quando sua madre era morta, anni prima. Dissero che sarei potuta andare da loro e rimanerci senza problemi, dato che avevano già la mia amica in affido. Chiamarono la mia responsabile, che arrivò subito. Dopo aver perquisito nuovamente la mia borsa in cerca di droga e avermi preso i soldi, acconsentì a lasciarmi lì. La mia nuova mamma mi portò a fare shopping, e mi comprò una graziosa felpa blu che mi copriva i tagli sugli avambracci.

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La prima sera in quella casa mi ritrovai a un grande tavolo rotondo. Sembriamo una famiglia! pensai. Poi notai che i bambini fissavano il pavimento e stavano zitti. Presto scoprii il motivo di quel silenzio. A metà della cena, il fratello della mia amica prese una timida forchettata di pasta, e la madre esplose. Gli disse che il suo modo di masticare era disgustoso. Gettò a terra il piatto, lo chiamò cane e gli ordinò di ripulire tutto leccando il pavimento. Mentre lui obbediva, lei lo prendeva a calci.

Qualche ora dopo la mia nuova mamma affidataria mi mise a letto e baciandomi sulla fronte mi disse che avevo una famiglia. Aspettai che se ne andasse, afferrai la felpa blu nuova e uscii dalla finestra. Una volta fuori mi resi conto che eravamo fuori città, e che non avevo nulla di adatto a ripararmi dal freddo. Così tornai dentro. La mattina dopo chiamai la poliziotta che si era presa cura di me, e lei venne a prendermi. Le chiesi di accompagnarmi al supermercato, e promisi che la mia mamma affidataria mi avrebbe recuperato più tardi—a forza di accusarmi di essere una bugiarda, gli adulti mi avevano insegnato che dovevo smettere di parlare di abusi.

Mi recai al solito bar, dove c’era un nuovo barista. Rifiutò di farmi entrare perché ero minorenne. Allora mi incamminai al freddo, verso zone dove sapevo di poter incontrare uomini disposti a pagare per fare sesso con me. Camminavo veloce per riscaldarmi. Nessuno mi fermò, così andai al centro e li implorai di farmi entrare.

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“Non credo di essere autorizzato a farti entrare,” mi disse un impiegato. “Ma intanto vieni, riscaldati. Ora chiamo e controllo.” Chiamò a casa la direttrice, che rifiutò categoricamente.

“Potrei morire di freddo nel vostro parcheggio!” esclamai. Per tutta risposta, l’impiegato mi diede una coperta. Mi ci avvolsi e mi sedetti sul cumulo di neve vicino al posto auto della direttrice.

“Fottiti” le dissi quando arrivò.

“Vattene dalla nostra proprietà. Oppure chiamo la polizia,” disse lei.

“Allora chiamala! Chiama gli sbirri e di’ che non fai entrare i ragazzini!”

Lei fece roteare gli occhi e si girò dall’altra parte. “Non ho tempo per queste cose,” rispose. Io guardai il traffico della mattina, la neve. Poi mi spogliai e rimasi in canottiera. Qualche minuto dopo uno dei miei clienti regolari si fermò e mi tirò su. A che serve avere un tetto, quando puoi farti pagare per un pompino?

Foto dei documenti, per gentile concessione dell'autrice.

La mia era una situazione tutt'altro che eccezionale. I servizi di assistenza e le leggi che li regolano causano talmente tante sofferenze che esiste un libro intitolato Collateral Damage: The Impact of Anti-Trafficking Measures on Human Rights Around The World. “All’inizio siamo rimasti sorpresi dalle tante storie di ragazze e giovani donne, anche transgender, sulle violenze subite in associazioni non profit e da parte degli assistenti sociali,” spiega il Young-Women Empowerment Project. “Sono descrizioni terribili, soprattutto perché spesso adulti e assistenti sociali dicono che rivolgersi a loro può migliorarti la vita.”

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Sapere queste cose non mi ha sorpresa. Dopo la mia ultima fuga, la mia responsabile mi disse di nuovo che non c’erano più famiglie disponibili. I miei amici erano ancora spaventati all’idea di accogliermi. La poliziotta mi diede una lista di associazioni caritatevoli a cui rivolgermi, ma tutte mi dissero che non si occupavano di minori. La sera, alcuni impiegati del centro mi facevano entrare di nascosto per farmi dormire in una stanza riscaldata al piano terra. Altre notti le passai fuori ad aspettare la direttrice, per dirle di tutto quando arrivava. Oppure stavo con degli uomini, a casa loro o nelle stanze d’albergo che mi pagavano. C’è stato un periodo in cui li portavo nel parcheggio dell’orfanotrofio. La direttrice non lo scoprì mai, anche se segretamente avevo sperato che lo facesse. Una volta ho fatto l’autostop e mi sono trasferita in un’altra città, dove ho trascorso l’estate con un’amica. Per qualche settimana sono diventata una spogliarellista. Un’altra volta ho costruito una casa sull’albero vicino a un lago e mi sono nutrita di conigli arrostiti sul fuoco.

Guardando indietro mi è capitato di chiedermi se la mia responsabile sapesse che cosa facevo per sopravvivere. Sempre che le importasse qualcosa. Chiunque con un minimo di buon senso sa che una ragazza che si è prostituita, se privata di una rete di supporto e lasciata all’addiaccio nel freddo dell'Alaska, si prostituirà nuovamente per sopravvivere. Le probabilità aumentano se ogni volta le viene confiscato tutto il denaro che possiede. Secondo il Trafficking Victims Protection Act, indurre un minore a fare sesso per soldi rende una persona colpevole di sfruttamento della prostituzione. È questo quello che ha fatto la mia responsabile dei servizi sociali? Lo stato, la direttrice del centro per minori, il sistema mi hanno obbligato a prostituirmi? Le leggi sono così contorte che una prostituta adulta e indipendente può essere accusata di “vendersi” da sé, ma lo stato può teoricamente obbligare una minorenne a entrare nel giro della prostituzione senza conseguenze?

Il Young- Women Empowerment Project ha indagato sulla violenza nella vita delle ragazze della tratta. Il 30 percento degli incontri violenti sono avvenuti con la polizia, il 6 percento all’interno del Dipartimento per i Servizi alla Famiglia, l’1 percento negli orfanotrofi. Solo il 4 percento con i protettori. Gli episodi di violenza sessuale da parte di agenti di polizia comparivano nell’11 percento dei rapporti—tre volte più dei protettori, con casi di violenza generica sette volte superiori per i poliziotti che non per i protettori.

Eppure, la mia storia ha avuto un sorprendente lieto fine: lo stato ha rinunciato alla mia custodia. Quando avevo quindici anni, la mia responsabile disse al giudice che ero uno spreco di risorse. Il giudice esaminò la mia perizia psichiatrica e si disse d’accordo. “ È una questione molto seria,” mi spiegò. “Ho già visto diagnosi come la tua. Probabilmente morirai prima di compiere 16 anni.”

Quella notte dormii nel parcheggio del centro, fantasticando su un modo spettacolare di uccidermi sul loro marciapiede. Peccato che questo avrebbe confermato la loro teoria sulle mie tendenze suicide.

Dopo qualche mese chiesi al giudice di sciogliermi dalla custodia statale. Il giudice accolse la mia richiesta, e così potei ottenere un lavoro “vero”, prendere in affitto un piccolo appartamento, tornare a scuola, fare sesso per soldi in modo molto più sicuro—e molto meno frequentemente. Tutto questo era impossibile quando ero sotto custodia.

Tara Burns ha scritto Whore Diaries: My First Week as an Escort e Whore Diaries II: Adventures in Independent Escorting.