Come sono finito ad allenare una squadra di rugby nel carcere di Bologna
Tutte le immagini per gentile concessione di La prima meta.

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Attualità

Come sono finito ad allenare una squadra di rugby nel carcere di Bologna

Nel documentario La prima meta, la regista Enza Negroni ha seguito la squadra del carcere Dozza di Bologna e il suo allenatore Max.

Due uomini a una scrivania. Uno è molto giovane, sulla ventina, l'altro ne ha una quarantina e un marcato accento meridionale. È la firma di un contratto, e l'uomo sta spiegando le clausole al ragazzo: "Devi tenere sempre un comportamento rispettoso ed evitare atteggiamenti aggressivi nei confronti dei tuoi compagni, degli educatori, del personale di polizia penitenziaria, dei civili, ma anche dei responsabili della società sportiva. Ti premetto che qualora tu venga meno a queste regole verrai escluso. Questo è il codice comportamentale… e lo firmi."

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Questa scena racconta un passaggio dell'ingresso nel Giallo Dozza, la squadra di rugby del carcere Dozza di Bologna protagonista del documentario La prima meta, presentato alla 57esima edizione del Festival dei Popoli e di prossima distribuzione nelle sale. Dal 2014 il Giallo Dozza partecipa al campionato di C2, giocando sempre e solo in casa, e tra i suoi membri conta 40 detenuti di nazionalità diverse e con pene dai quattro anni all'ergastolo.

Prima di guardare il documentario, ero convinto che mi sarei trovato di fronte alla classica storia un po' melensa di carcerati le cui vite complicate vengono illuminate da un progetto sportivo. Una cosa un po' strappalacrime che mostrasse quanto fa schifo vivere confinati fra mura alte tre metri, sbarre e secondini. Sorprendentemente, non ho trovato nulla di tutto questo. La prima meta non indugia sulle scelte sbagliate del passato dei carcerati, né sulla loro presa di coscienza con conseguente redenzione. "Non volevamo suggerire allo spettatore il nostro punto di vista," mi ha spiegato Enza Negroni, la regista. "Preferivamo che il film fosse il più possibile oggettivo. Per due mesi io e Giovanna [Camè, la produttrice] abbiamo seguito gli allenamenti e la partite dentro il carcere. Poi, una volta deciso di realizzare il film, siamo entrate con tutta la troupe. Insomma, ci sono voluti almeno otto mesi, più un anno per il montaggio. Ma calcola che non sapevamo nemmeno cosa sarebbe successo, non avevamo una sceneggiatura."

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Punto fermo in questa imprevedibilità è l'allenatore Massimiliano Zancuoghi, il personaggio chiave del documentario—non solo perché è evidente che sia il punto di riferimento della squadra, ma perché impersonifica la separazione fra "dentro e fuori", con tutte le difficoltà che questo ruolo comporta. Ho contattato Max per chiedergli come è stato entrare per la prima volta in un carcere e come sta andando con la squadra.

VICE: Max, come ti sei ritrovato ad allenare una squadra di rugby di detenuti? E quale è stato il primo impatto?
Max Zancuoghi: La squadra è nata grazie al progetto "Tornare in Campo", coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928, di cui io faccio parte—il presidente mi ha chiesto se volevo occuparmene, e io ho subito accettato.

Il primo impatto è stato sicuramente potente. Non è una squadra normale, ci sono delle persone con difficoltà diverse da quelle che puoi incontrare nella quotidianità. Ti faccio un esempio: in un campo normale, su 30 persone tre hanno dei problemi che possono essere più o meno gravi. Dentro il carcere ce ne sono 30 con dei problemi grossi. Il tuo giocatore può essere incazzato perché l'avvocato gli ha appena fatto sapere che il suo ricorso non è stato accettato, per dire… Capisci che la differenza non è poca.

E sul piano tecnico, cosa cambia nell'allenamento dei detenuti?
Guarda, intanto in questo caso i criteri di selezione non potevano essere così minuziosi. Abbiamo fatto selezioni in un certo senso "estetiche"—guardavamo peso e corporatura—e mediche. Insomma, ci accertavamo che fossero di sana e robusta costituzione. Questa era sicuramente la prima peculiarità.

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Iniziati gli allenamenti mi sono confrontato con il piano tecnico. Della squadra, quasi nessuno aveva mai né visto né tantomeno toccato una palla da rugby. Uno mi ha fatto anche la classica domanda, "Ma perché la palla è ovale?" Lì mi sono messo le mani fra quei pochi capelli che avevo e ho capito che avrei dovuto cominciare davvero da zero, dalle regole dei casi di "impatto"—contatto con gli avversari, placcare, etc. Quando lo insegni a un bambino è un conto, con gente di 90 kg diventa più complesso.

Membri della squadra durante l'ora d'aria.

È mai successo che in una di queste occasioni di contatto fisico la situazione diventasse "accesa"?
Certo. Cioè, non è mai successo niente di grave. Ma litigi e scontri verbali anche duri è chiaro che siano avvenuti, per il semplice fatto che stavano facendo delle cose per la prima volta.

Conoscevi i motivi per cui i tuoi giocatori erano in carcere?
Sì. Non da subito, perché all'inizio i ragazzi erano dei muri di ghiaccio. Quando però sono riuscito a guadagnarmi la loro stima e mi hanno raccontato le loro storie, l'ultima cosa che sono riuscito a fare è stata giudicarli. Alcune vicende sono allucinanti, mi spingevano a chiedermi, "Ma se ci fossi stato io al loro posto, come mi sarei comportato?"

E questo ti ha mai condizionato?
Ma sai, prima di entrare sì. Pensi, "Chissà se faccio un rimprovero in più cosa può succedere." Ma se questo pensiero ti resta anche quando sei dentro, meglio che te ne torni a casa. Io sapevo benissimo che quei ragazzi avevano fatto delle cazzate nella loro vita, ma non è mai, e dico mai, mancato il rispetto nei miei confronti o in quelli dello staff. E, poi, una volta che inizi a giocare pensi solo a quello.

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Massimiliano Zancuoghi durante un allenamento.

Nel film si vede che chi viene selezionato per la squadra viene spostato in un'altra ala del carcere, insieme ai compagni di squadra. Perché questa idea?
Abbiamo pensato che fosse il miglior modo per creare il gruppo. In realtà all'inizio i ragazzi non l'hanno presa bene. Si erano creati la propria routine dov'erano. Lo spostamento è stato davvero come farli cambiare di casa, e il forte disagio iniziale è stato causato anche dallo scontro di storie, culture e religioni diverse. Alla fine però si è rivelata la carta vincente, e la squadra è diventata una specie di famiglia, in cui si condividono i problemi e si è fatto proprio lo spirito di sacrificio per l'altro, che nel rugby è fondamentale.

Ma non ti sei mai dovuto confrontare con un po' di cinismo? Non c'era nessuno che cercava di rimarcare che per quanto sia importante lo sport, il carcere è sempre il carcere?
All'inizio sì. E credo sia normale che ci fosse un po' di disillusione, soprattutto da parte di chi non partecipa alla squadra. Sai, dentro un carcere chi vive qualcosa di bello non è sempre visto di buon occhio, rappresenta una nota stonata. Poi però il Giallo Dozza è diventata la squadra di tutto il carcere, tutti hanno cominciato a tifare per lei.

Un placcaggio durante una partita.

Immagino che anche i tuoi giocatori all'inizio possano averti guardato un po' storto per lo stesso motivo, no?
Guarda, ogni volta che vado ad allenare lì dentro passo 11 cancelli, che mi vengono richiusi alle spalle uno alla volta. È ovvio che quando faccio quel percorso all'inverso so che mentre io esco, loro non possono. Ma questa è la realtà dei fatti, quindi ne ho semplicemente parlato con i miei giocatori.

Gli ho detto la verità, senza prese per il culo o ipocrisie. "Ragazzi, io posso uscire da qui e voi no perché voi avete fatto degli errori, e siete qui per ripararli. Grazie a questa squadra forse riuscirete a ripararli prima, e magari creerete anche dei legami che vi resteranno per tutta la vita. Quindi fate voi."

All'interno di un programma di rieducazione, perché secondo te il rugby può essere più utile di altri sport?
Per due motivi, oltre al sacrificio e alla fatica insiti in questo sport. Nel rugby non c'è il Maradona di turno, o in 15 giocano in maniera coordinata o non si va da nessuna parte. Nel rugby corri in avanti ma puoi passare la palla solo indietro, a un tuo compagno che c'è, deve esserci, perché se non c'è sei da solo. Ma soprattutto il rugby è un sport di regole, che vanno rispettate in modo maniacale. Se ti rivolgi all'avversario in modo non corretto ti buttano fuori. Se solo ti avvicini all'arbitro per protestare, ti prendi il cartellino. Figurati se puoi offenderlo.

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