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Italia

Il teschio calabrese diventato simbolo delle battaglie dei neoborbonici

Villella era un bandito calabrese dell'Ottocento: il suo cranio venne utilizzato da Lombroso per la teoria "dell'uomo delinquente”, e da qualche anno è diventato il simbolo delle battaglie neoborboniche.
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Giuseppe Villella, bandito calabrese della seconda metà dell'Ottocento, aveva una testa degna di nota.

Il suo cranio, finito nelle mani dell'antropologo Cesare Lombroso, fu la base per formulare la teoria dell'atavismo criminale, secondo la quale esisterebbero tratti ereditari che conferirebbero ad alcuni individui una predisposizione al crimine.

A circa 150 anni dalla sua morte, però, il bandito calabrese ha involontariamente scatenato una specie di guerra. Oggetto del contendere: cosa fare dei suoi resti, attualmente esposti al Museo di Antropologia Criminale "Cesare Lombroso" di Torino.

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Infatti, i movimenti Neoborbonici, il "comitato tecnico scientifico No Lombroso" e il comune di Motta Santa Lucia (in provincia di Catanzaro, dove Villella nacque) chiedono che il cranio venga seppellito, e ancora adesso accusano Cesare Lombroso di razzismo verso il Sud — tanto da chiedere la chiusura del museo, considerato la "più grande fossa comune di meridionali del mondo."

Ma davvero Lombroso odiava i meridionali? E cosa ha scatenato questa bizzarra disputa? Per saperlo è necessario contestualizzare la vicenda.

Arrestato per furto e tentato incendio di un mulino, Villella muore nel 1864, nel carcere di Pavia. Il suo corpo non viene reclamato da nessuno, e dunque viene dissezionato per scopi scientifici — come era pratica comune all'epoca.

Pochi anni dopo il suo teschio finisce nelle mani di Cesare Lombroso, che verso la fine del 1870 "esamina per la prima volta il cranio di Vilella e si accorge della presenza una fossetta fra i due lobi del cervelletto, dove di solito c'è una crosta ossea e gli sembra di aver scoperto chissà quale anomalia" — come spiega a VICE News Maria Teresa Milicia, docente di antropologia culturale all'università di Padova, e autrice del libro "Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso."

La particolarità del cranio di Villella, però, per Lombroso è la prova regina della sua teoria secondo cui criminali hanno tratti anatomici ancestrali, gli stessi che si trovano nelle scimmie e nei feti di cinque mesi. E che quindi i comportamenti criminali avrebbero luogo proprio perché i delinquenti possiederebbero tratti non evoluti, come "scimmie in mezzo a noi" con "anomalie strutturali" trasmesse in maniera ereditaria.

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Tra le cause di queste anomalie, Lombroso indica: "(…) l'epilessia nella maggior parte dei casi, l'alcoolismo, i traumi, la sifilide in altri, che alterando la formazione regolare dell'individuo, ne arrestano a un certo punto lo sviluppo."

Secondo lo studioso, è possibile individuare i "tipi criminali" da alcune caratteristiche fisiche, fra cui il rapporto fra l'altezza e l' apertura delle braccia, lo strabismo, la mandibola sporgente o la fossetta occipitale del cranio — come per Giuseppe Villella.

"Nella persona di Giuseppe Villella risiedono gli studi fondamentali di Cesare Lombroso, che in lui trova la malevolenza e la minorità che vede su tutti i meridionali," spiega Domenico Iannantuoni, fondatore e portavoce del Comitato No Lombroso.

Pugliese, residente a Milano sin da piccolo e fra i fondatori del "Partito del Sud", da qualche anno Iannantuoni ha dichiarato guerra alla figura di Cesare Lombroso, che accusa addirittura di essere ispiratore del nazismo.

"La dottrina di Lombroso fu colta a piene mani da Goebbles e da Mengele. Lombroso non solo odiava i meridionali, ma odiava anche tutti i neri e i gialli," dice Ianantuoni, secondo cui l'unica soluzione alla vicenda Villella sarebbe il seppellimento del cranio.

"Non è un caso che Lombroso elabori proprio su Villella la sua teoria", accusa: "Villella è il totem dell'atavismo criminale: è meridionale ed è calabrese."

"Noi chiediamo che sia rispettato il defunto, che ci sia una dignità di un uomo che non aveva nessuna colpa, come non avevano nessuna colpa le centinaia e centinaia di persone i cui resti sono custoditi nel museo."

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Nessuna apologia di razzismo, ribattono però dal museo. "Il cranio è utilizzato per spiegare gli errori commessi da Lombroso, ed è un valore per le collezioni. È una rarità, un caso quasi unico nella storia della scienza, la prova di un errore nella formulazione di una teoria," dice Silvano Montaldo, docente di Storia del Risorgimento all'Università di Torino e direttore del museo Lombroso.

"Non si capisce perché dovremmo modificare un allestimento che è stato approvato, recensito e segnalato come innovativo proprio perché segnala gli errori commessi."

Storia di un cranio e di un museo

Negli anni Lombroso ha accumulato una notevole collezione di reperti: teschi ottenuti in maniera più o meno legale (come quello del bandito Gasbarrone che si si fece recapitare dal collega Camillo Golgi, poi premio Nobel nel 1906), fotografie, armi, calchi e abiti come quello del finto capo indiano Cervo Bianco, persino lo scheletro dello stesso Lombroso — a partire dal 1906 i reperti troveranno casa nel "Museo di Psichiatria e Antropologia criminale" diretto da Mario Carrara, genero dello studioso.

Con l'arrivo del fascismo inizia la fase di oblio per il museo: Lombroso - nel frattempo morto nel 1909 - era ebreo, positivista e socialista razionalista, quindi poco congeniale alla propaganda fascista — tanto che Julius Evola lo inserisce nella lista delle personalità che hanno cercato di "giudeizzare il mondo." Lo stesso Carrara è un antifascista che si rifiuta di giurare fedeltà al regime, e sarà per questo rimosso dalla cattedra e dalla direzione del museo.

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Nel dopoguerra il museo rimarrà in uno stato di abbandono che durerà fino al 2009, quando verrà riaperto nella sede attuale: è da quel momento che il cranio di Villella, fino ad allora dimenticato da tutti, diventa oggetto di una contesa.

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L'idea della riapertura però non piace a tutti, tanto che l'8 maggio 2010 viene organizzata una manifestazione di protesta contro il neonato Museo, definito "razzista."

L'evento, seguito anche dal blog di Beppe Grillo, segna l'inizio della campagna dei movimenti meridionalisti: "Prima nemmeno sapevamo dell'esistenza di Giuseppe Villella," ammette Ianantuoni, del Comitato No Lombroso.

Pochi giorni dopo il comitato apre la sua pagina Facebook e avvia una petizione online per chiedere la chiusura del museo —a cui viene opposta una petizione "alternativa" a difesa del museo. "I bambini delle elementari, che entrano gratuitamente, che cosa vedono in un museo criminale che si chiama museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso," polemizza Ianantuoni. "Ma qui di educativo non c'è niente."

Secondo il direttore del museo Silvano Montaldo, "c'è stata una sovrapposizione fra l'inaugurazione del museo e l'inizio delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia, occasione ghiottissima per i gruppi neoborbonici. Hanno scelto un obiettivo istituzionale: noi siamo un museo pubblico, hanno sparato su un bersaglio non piccolo e si sono fatti un enorme pubblicità."

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Un'accusa che il comitato No Lombroso però respinge nettamente: "La nostra è stata una iniziativa trasversale a cui hanno aderito 150 città, non solo meridionali," spiega Domenico Iannantuoni, che vede in Villella un martire della resistenza borbonica.

"Non rubò mai neanche un fiore nel campo del vicino, ma era contrario all'unità di Italia e quindi come tale fu colpito dalla legge Pica e portato in carcere. Magari è bastato un dubbio, una delazione secondo cui lui era ancora leale a Francesco II."

Dalle piazze al tribunale

Ma davvero Villella era un martire della lotta anti-piemontese? Pare di no.

L'antropologa Maria Teresa Milicia, calabrese al pari di Villella, parla di "riduzionismo storico:" è una sciocchezza, spiega, dire che Lombroso ce l'avesse con i meridionali. "Lombroso costruisce l'uomo delinquente come una specie a sé. Il cortocircuito avviene quando statisticamente si iniziò a ragionare su una tendenza di tipo razziale, cioè che alcune razze avessero una maggiore tendenza a delinquere."

"Villella aveva già scontato 6 anni per furto nel 1844, sotto il regno delle Due Sicilie, e non era affatto brigante neoborbonico," continua la professoressa. "Certo, esisteva il brigantaggio in tutta la zona fra la Campania e la zona chiamata Terra di Lavoro, in Puglia, ma molto di meno la Calabria. Man mano che si va giù la tradizione scema, e Motta Santa Lucia - in particolare - non è mai stato un centro anti-sabaudo," conclude l'antropologa.

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Brigante o meno, Villella è diventato una sorta di marchio identitario per i movimenti che - a vario titolo - contestano l'unità di Italia. In questi anni la protesta anti-Lombroso non si è mai interrotta, fra petizioni online, articoli su giornale e blog, manifestazioni dai toni antisemiti, personalità più o meno illustri chiamate a fare da testimonial (fra tutti vale la pena di ricordare i Sud Sound System e il cantante idolo dei complottisti Povia). Vengono persino prodotte delle spillette celebrative con il disegno del cranio e la scritta "degna sepoltura."

Ma è la decisione di ricorrere alla legge presa dal comune di Motta Santa Lucia, assistito dal Comitato No Lombroso, a cambiare le carte in tavola. E così nel 2012 il giudice Gustavo Danise stabilisce che il cranio di Villella deve tornare in Calabria. Dato che il teschio non era più utile alla ricerca scientifica, ha spiegato il giudice Danise in un'intervista al giornale online Calabria on web, "bisogna seppellirlo."

In passato ci sono stati altri casi di reperti restituiti, a partire da quello dell'anarchico Giuseppe Passannante (che tentò di uccidere Umberto I), il cui cranio è stato conservato fino al 2007 al museo criminologico di Roma per poi essere seppellito a Savoia di Lucania, il suo paese natale.

Lo stesso Museo Lombroso in passato ha dovuto restituire i resti di David Lazzaretti, il profeta dell'Amiata i cui resti venero prelevati da Lombroso poco dopo la sepoltura. Ma sono casi diversi, sostiene il direttore Montaldo: "Il cranio di Passanante non era inserito in un allestimento che spiegava una teoria. Era semplicemente esposto lì perché faceva parte di una collezione del museo di criminologia, mentre per Lazzareti la restituzione fu fatta quando il museo era ancora chiuso e prima del Codice Urbani, che ha tutelato le collezioni storico scientifiche," conclude lo storico.

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C'è poi un altra vicenda, che riguarda però la Francia. È quello di Saartjie Baartman, la "Venere ottentotta," una donna africana di etnia Khoikhoi deportata alla fine del Settecento in Europa come fenomeno da baraccone. Il corpo della Baartman venne analizzato dal naturalista francese Georges Cuvier per dimostrare che esiste una vicinanza scientifica fra i neri e le scimmie ed esposto al pubblico fino al 1974. Solo nel 2002 i resti della donna vennero sepolti in Sudafrica.

Per paradosso, il caso italiano è ancora più "grave" di quello francese: mentre Cuvier muore vent'anni prima dell'arrivo di Darwin, Lombroso opera in un periodo in cui la teoria dell'evoluzione è già molto conosciuta. Dunque, anche se Villella non è un brigante borbonico, e Lombroso non odiava i meridionali, il cranio va comunque rimosso perché rappresenta una teoria che si è dimostrata essere totalmente sbagliata.

La questione è più complessa, come dice a VICE News il professor Antonio Mosca, epistemologo e docente all'università Paris II: "Nel caso di Saartjie Baartman parliamo della tratta dei neri, riconosciuta come un genocidio a cui la Francia ha partecipato. Per questo la Francia ha ceduto i resti. Nell'Italia del Sud non c'è stato un genocidio. Io sono pugliese e sono molto critico della politica dello stato unitario, ma da questo a dire che c'è stato un crimine contro l'umanità ne passa."

Intanto, dopo la sentenza del 2012, l'università di Torino ha deciso di ricorrere in appello. Il 4 ottobre 2016, sei anni dopo la prima manifestazione, la Corte d'Appello di Lamezia Terme è stata chiamata a esprimersi sulla vicenda. È a questo punto che arriva un colpo di scena: fa la sua comparsa una possibile discendente di Giuseppe Villella, intenzionata a lasciare esposti al Museo i resti del suo avo. La presenza di una terza persona, fino ad ora sconosciuta, rimette tutto in discussione, tanto che il processo è stato ulteriormente rinviato a novembre.

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Il reperto scomodo

"Il problema del cranio è relativo, perché in questo caso si mette in discussione il concetto stesso di museo," sostiene il professor Mosca. In effetti, comunque finisca la vicenda, è indubbio che un interrogativo di fondo resti: cosa può stare in un museo? È giusto che qualcuno possa richiedere la rimozione di reperti che - a torto o a ragione - ritiene offensivi per la sua storia?

Il rischio di questo discorso - come messo in luce da alcuni dei più importanti storici del mondo - è che a un certo punto si arrivi ad una versione edulcorata della storia, in cui fenomeni sociali complessi - come il brigantaggio o il positivismo lombrosiano - sono letti esclusivamente con gli occhi di oggi, e trattati secondo la logica "buoni contro cattivi", con questi ultimi rimossi dai musei.

Secondo il professor Mosca questo ragionamento nasconde però un errore di fondo. "Chi - come i No Lombroso - ha questa idea, pensa che un museo sia un monumento. Ed è lo stesso ragionamento che farebbe mia nonna, che è convinta che io all'università insegni solo cose positive e importanti. Ma il museo non serve a validare qualcosa che si sa già sul proprio passato, e non deve servire a rassicurare su quello che si crede di sapere. Uno deve capire lo scopo del museo prima di criticarlo, e criticarlo significa proporre un discorso alternativo — non chiudere il museo."

"Altrimenti," conclude, "ogni comunità dovrebbe gestire la propria storia, coi piemontesi che parlano solo dei piemontesi, i pugliesi che parlano di pizzica e tarantella, e i calabresi che si tengono Villella."

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Foto: grab via canale YouTube del Comitato No Lombroso