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terrorismo

Il mio viaggio nello Stato Islamico

A giugno del 2014, il regista Medyan Dairieh ha trascorso tre settimane nel territorio controllato dallo Stato Islamico. A un anno dall'uscita del documentario esclusivo di VICE News, Medyan ripercorre la sua esperienza.
Photo par Medyan Dairieh

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A giugno del 2014, il regista Medyan Dairieh ha trascorso tre settimane nel territorio controllato dallo Stato Islamico. Da quell'esperienza è nato un documentario esclusivo di VICE News che ha mostrato per la prima volta la vita sotto il califfato. Questo è ciò che ha visto.

I due uomini armati erano sorpresi di vedermi. Nessun giornalista era arrivato così vicino. Dopo giorni di attesa, e un tentativo fallito, ero riuscito a raggiungere il primo checkpoint al limite del territorio controllato dal gruppo all'epoca conosciuto come Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS).

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Due settimane più tardi il leader, Abu Bakr al-Baghdadi, si sarebbe attribuito poteri religiosi e politici nominandosi califfo. Il cosiddetto califfato è stato dichiarato un anno fa, mentre io ero ancora là. Da allora l'ISIS sarebbe divenuto noto come Stato Islamico (IS).

Mentre aspettavo il segnale per poter attraversare il confine l'ISIS aveva preso Mosul, la seconda città dell'Iraq. Fino ad allora, con l'avanzata delle formazioni ribelli in Siria, era sembrato che il gruppo fosse per lo più sulla difensiva. Ma con le sue azioni in Iraq e la proclamazione del "califfato" il gruppo era tornato a rappresentare una vera e propria minaccia––non solo per Iraq e Siria, ma anche per il resto del Medio Oriente. Chi erano? Da dove venivano, e in che cosa credevano? Volevo scoprirlo.

Il giorno del mio arrivo al confine le due guardie ne avevano chiamata un'altra, che a differenza loro non sembrava sorpresa di vedermi. Disse alla radio: "L'ospite è arrivato, l'ospite è arrivato."

Dairieh e un giovane combattente europeo che lavora per il media center dell'ISIS di Raqqa, Siria. Foto di Medyan Dairieh.

Abu Jindal al-Iraqi

Erano passati quasi 10 anni da quando avevo conosciuto Abu Jindal al-Iraqi. Era successo ai tempi della Seconda Battaglia di Fallujah, sei settimane di violento combattimento a fine 2004 durante le quali gruppi di insorti, tra cui al-Qaeda, si erano scontrati con i marine americani e i loro alleati iracheni e inglesi.

Al-Iraqi era un comandante di brigata di artiglieria che combatteva contro gli americani, ma non era ancora un affiliato di al-Qaeda. Era un ex colonnello della guardia repubblicana di Saddam, dissolta nel 2003 in seguito all'invasione americana. All'epoca non aveva la barba e non era nemmeno particolarmente religioso.

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Da un giorno all'altro, migliaia di uomini come al-Iraqi avevano perso lo stipendio e il loro status. Molti sfruttarono l'addestramento militare (e spesso anche l'equipaggiamento) per unirsi alla resistenza.

Quando l'ho incontrato di nuovo, a giugno del 2014, portava una folta barba e aveva tutte le caratteristiche dell'islamista convinto. Nei dieci anni che sono passati, la sua milizia si è prima unita allo Stato Islamico in Iraq, un franchise di al-Qaeda, che poi ha fondato l'ISIS. Ora è un comandate dell'IS.

La storia di al-Iraqi è una storia come tante. Il documento riservato ottenuto da Der Spiegel non ha rivelato soltanto che la catena di comando del gruppo è formata da ex ufficiali del Baathismo, ma anche che l'organizzazione si sviluppa secondo le linee guida dell'intelligence militare irachena.

Aleppo, un ex combattente di al-Qaeda che si è unito all'ISIS mostra l'iscrizione di al-Qaeda sul suo fucile. Foto di Medyan Dairieh.

La nascita dell'IS

Dentro l'IS è possibile individuare tre gruppi principali: lo Stato Islamico dell'Iraq (sorto attorno a ex componenti dell'esercito iracheno), elementi di al-Qaeda formatisi in Afghanistan e le forze guidate da Abu Omar al-Shishani, provenienti dalla Cecenia e dal Caucaso.

Io e al-Shishani ci eravamo incontrati durante un mio viaggio in Siria nel 2013. In quel periodo era sempre occupato e distratto, impegnato a negoziare tra l'ISIS e il Fronte al-Nusra. All'epoca le tensioni stavano per esplodere.

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Nel 2011, col diffondersi delle proteste popolari contro il regime di Assad, Abu Bakr al-Baghdadi, allora leader dello Stato Islamico dell'Iraq, aveva mandato in Siria uno dei suoi uomini più fidati, Abu Mohammed al-Jolani, con l'obiettivo addestrare il Fronte al-Nusra, l'affiliato siriano di al-Qaeda.

In seguito al-Jolani e al-Baghdadi ebbero delle divergenze riguardo alla direzione di al-Nusra. Al-Baghdadi voleva che il Nusra diventasse un'estensione dello Stato Islamico dell'Iraq sotto il suo comando. Al-Jolani invece preferiva concentrarsi sulla lotta contro il regime, lavorando accanto a gruppi radicali, così da crearsi un seguito tra la popolazione.

Aleppo, 2012. Foto di Medyan Dairieh.

Al-Jolani si guadagnò il sostegno della leadership di al-Qaeda, che si pensava si trovasse al confine tra Pakistan e Afghanistan. Ho sentito che l'IS aveva cercato di mandare un loro uomo, libico, a parlare con i capi di al-Qaeda in Afghanistan. L'inviato aveva avuto non poche difficoltà a raggiungerli, e questo mi aveva fatto ipotizzare che i contatti tra l'IS e al-Qaeda fossero piuttosto deboli.

Quando la spaccatura fu ufficiale, i combattenti stranieri––inclusi i ceceni di al-Shishani e un gruppo di libici conosciuti come il battaglione di al-Battar––si unirono in massa all'IS. In seguito, quando sono tornato in Libia, ho incontrato qualche componente del battaglione al-Battar che era tornato per combattere nel Paese.

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Penso che i muhajireen, il termine con cui vengono chiamati i combattenti stranieri o foreign fighters, non fossero in Siria per fermare Assad. Erano lì perché si consideravano soldati dell'Islam, e pensavano che fosse loro destino costruire il califfato.

Nusra aveva contatto con gli altri gruppi ribelli, partecipava alle iniziative di raccolta fondi e combatteva al loro fianco. L'ISIS andava avanti per conto suo.

Poi, il 22 febbraio 2014, l'ISIS ha ucciso il leader degli Ahrar al-Sham, una milizia salafita alleata a Nusra, Sheikh Abu Khaled al-Suri.E al-Nusra ha dichiarato guerra all'ISIS. In generale però è l'IS che ha attirato la maggior parte di volontari, inclusi sostenitori da Egitto, Yemen, Libia e altri paesi da tutto il mondo.

Raqqa

Sono arrivato a Raqqa, la capitale dell'IS, poco dopo aver oltrepassato il confine. Ho assistito a una parata militare, che in seguito ho scoperto essere stata organizzata per farla coincidere con il mio arrivo.

Prima della guerra era una città tollerante, e musulmani e cristiani convivevano gli uni accanto agli altri. La sera si usciva in strada per stare con gli altri e fumare. Ora per le strade non c'è più musica, e le foto sono state tutte coperte––è completamente cambiata.

Oggi Raqqa ospita persone di 80 nazionalità diverse. I ragazzini sotto i 15 anni frequentano le scuole religiose, e dopo i 16 possono accedere ai campi di addestramento militare. Dopo i 16 anni possono anche iniziare a combattere.

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A Raqqa ero costantemente seguito da una squadra del media center. Anche se tutto il mondo è rimasto impressionato dalla qualità dei video prodotti dall'IS, in realtà tra di loro le persone con le capacità necessarie sono molto poche. Qualcuno però aveva lavorato per la televisione, e poi c'erano quelli che venivano da fuori e che avevano portato le loro conoscenze. Per quello che ho visto, il loro equipaggiamento è molto scarso e internet funziona a intermittenza; ma hanno dei ritmi di lavoro serrati, dormono tra le tre e le cinque ore a notte, e sono operativi sette giorni su sette.

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Ho scoperto che il supporto estero, soprattutto dalla Libia, è stato fondamentale per la pubblicazione di materiale online. Uno degli uomini del media center mi ha anche spiegato che per qualche mese erano stati aiutati da una donna in Gran Bretagna.

La propaganda viene fatta anche attraverso mezzi più tradizionali, come la pubblicazione di testi online, la distribuzione di CD, e la riproduazione tramite altoparlante dei discorsi di al-Baghdadi e Abu Mohammed al-Adnani, un portavoce dell'IS.

Inizialmente l'IS era ostile all'attenzione dei media internazionali, ma man mano che l'interesse internazionale cresceva hanno deciso di creare dipartimenti appositi, incluso il famoso Al-Furqan. Hanno anche creato uffici per la comunicazione in ogni provincia del loro "stato".

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Intorno alle due del mattino del 4 luglio sono stato svegliato dal rumore di spari ed esplosioni. Gli operatori media che erano con me si sono bardati di tutto punto, hanno preso i fucili e sono usciti senza dire una parola. Era tutto buio, come se ci fosse stato un blackout.

Qualche ora dopo sono venuto a sapere che le forze speciali statunitensi avevano assaltato un campo dell'IS poco lontano da Raqqa. Sembrava avessero cercato di liberare degli ostaggi occidentali successivamente uccisi dall'IS. Gli ostaggi non erano lì, le truppe erano rimaste a mani vuote dopo aver ucciso otto militanti––inclusi degli addestratori provenienti da Tunisia e Arabia Saudita.

Secondo l'IS all'assalto avevano partecipato anche delle truppe giordane. A conferma delle loro teorie mi avevano mostrato una divisa insanguinata con le mostrine giordane.

La dottrina militare dell'IS

L'IS si è rivelato abile nel combattere una guerra non convenzionale, combinando le tattiche dei Talebani passate per al-Zarqawi con l'esperienza degli ex ufficiali dell'esercito iracheno.

Hanno cercato di espandere il fronte per rendere inefficace il supporto aereo, usando dei razzi a corto raggio per i quali gli ex ufficiali iracheni hanno progettato dei lanciamissili artigianali portatili ed economici.

In un attacco, le prime truppe a essere mobilitate sono gli ex di al-Qaeda e i gruppi kamikaze. I leader dell'ex Guardia Repubblicana irachena dirigono le operazioni di consolidamento e si assicurano che i bombardamenti con missili e razzi vengano portati a termine.

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A ciò si aggiunge la dottrina militare in tre punti dei Talebani. Primo, colpire il nemico per confonderlo e indebolirlo. Secondo, ottenere rifornimenti come armi, denaro e cibo. Terzo, dichiarare grandi vittorie tramite i media per ottenere consensi.

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Il successo di questo approccio è diventato immediatamente evidente l'estate scorsa. In un attimo l'IS si è creato uno stato grande quanto la Giordania. Sono riusciti a recuperare molte armi, anche armi pesanti, ed equipaggiamenti sofisticati senza contare su grossi quantitativi di denaro. Così facendo, l'IS ha dichiarato di aver abolito Sykes-Picot, il trattato dell'epoca coloniale che definiva i confini tra Siria e Iraq. L'IS li aveva riaperti. Era un messaggio chiaro: l'IS stava conducendo un jihad globale.

Ovviamente le difficoltà non mancano. Ottenere pezzi di ricambio e munizioni per le armi pesanti, costruire le autobombe spesso utilizzate come preludio per ulteriori attacchi come accaduto per la presa di Ramadi a maggio––sono problemi concreti per la strategia militare dell'IS. Sono costretti a combattere su più fronti: contro l'esercito iracheno, contro i curdi, contro i ribelli siriani. E a volte anche contro il regime siriano.

Due combattenti di IS: uno tedesco, l'altro finlandese. Foto di Medyan Dairieh.

Ma l'IS è consapevole di trovarsi al centro di una battaglia cruciale. Proprio per questo motivo ha deciso di prolungare i combattimenti, e di aprire fronti in regioni che sono molto lontane tra loro. Lo fa per disperdere le forze del nemico, per attaccarlo lontano dalle sue linee di rifornimento, e per poter attaccare quelle linee stesse.

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L'IS crede che il suo destino sia affrontare il suo più grande nemico, gli USA, direttamente sul campo di battaglia. Un ex ufficiale iracheno ora comandante dell'IS mi ha detto che l'IS si prepara all'attacco, non alla difesa.

"Difenderemo il nostro progetto," mi ha detto, "e questo si realizzerà soltanto quando l'America vorrà affrontarci sul campo––questo è quello che vogliamo e questo è quello di cui l'America ha paura."

La partenza

Era giunta l'ora di lasciare i territori dell'IS.

Mi hanno portato vicino al confine. Ci siamo andati per più giorni, di notte, a perlustrare un'enorme distesa oscura. Dovevamo aspettare il momento giusto per evitare le pattuglie dell'esercito.

Ce ne stavamo seduti in attesa del segnale. Anche se avevano dei sistemi di controllo, attraversare il confine rimaneva una cosa pericolosa e difficile. Una notte, alle 2 e 30, mentre dormivo, mi hanno svegliato: dovevo attraversare. Ho lasciato lì il mio zaino perché era troppo scomodo e ingombrante.

Mi hanno accompagnato, e quando ho chiesto loro il perché, mi hanno risposto che ero un ospite, e si dovevano occupare della mia sicurezza––anche se poteva essere pericoloso––finché non avessi raggiunto un luogo sicuro dall'altra parte del confine.


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