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Tutto quello che non abbiamo capito in Italia sui gilet gialli

Sono tutti “fascisti” o simpatizzanti di Marine Le Pen? O sono tutti “casseur di estrema sinistra”? Cosa vogliono?
Leonardo Bianchi
Rome, IT
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Il quarto atto dei gilet gialli a Parigi, in place de la République. Foto via Wikimedia Commons (CC BY 2.0).

Era inevitabile: a circa un mese dalle prime proteste dei “gilet gialli,” anche in Italia la politica si è accorta che in Francia sta succedendo qualcosa di enorme. E così, negli ultimi giorni siamo stati sommersi da prese di posizione sia a favore che contro.

Alessandro Di Battista, ad esempio, ha scritto su Facebook che il M5S deve dare “il massimo supporto a questo movimento di cittadini francesi che chiede diritti, salari giusti […], e la fine del controllo della finanza da parte degli Stati.” Beppe Grillo ha rinforzato il parallelismo tra Cinque Stelle e “gilet gialli”—un paragone già evocato dalla stampa francese—dicendo che entrambi vogliono le “stesse cose.”

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Sul versante del Partito Democratico, o di ciò che resta di esso, c’è stato molto meno entusiasmo. L’ex presidente del consiglio Paolo Gentiloni ha twittato che “le ragioni ci sono” ma “chi aggredisce e saccheggia, pure con #giletgiallo, non merita simpatia. Meglio i poliziotti.” Matteo Renzi, sempre su Twitter, ha ribadito di credere “nella democrazia, nelle forze dell’ordine, nella legalità” e di stare “dalla parte del ministro dell’Interno francese Christophe Castaner.”

Matteo Salvini ha usato le manifestazioni in Francia per attaccare “il PD e gli amici di Macron,” a suo dire responsabile di tanti “danni” al “nostro splendido paese.” Poi ci sono le formazioni minori: due fascisti di CasaPound erano presenti in piazza a Parigi per elemosinare interviste alle televisioni; e anche Potere al Popolo, partito di sinistra radicale, ha fatto sapere tramite i propri canali social di aver partecipato alla protesta di questo sabato.

Su Facebook, inoltre, è apparso il “Coordinamento Nazionale Gilet Gialli Italia.” Il fondatore della pagina è Giancarlo Nardozzi, un venditore ambulante di Torino già attivo nel Coordinamento #9dicembe, che a Repubblica ha spiegato di essere “contro questa Europa, non contro il governo.”

Da questa breve carrellata emerge come chiunque ci stia vedendo quello che gli fa più comodo—persino una fantomatica “Internazionale del sovranismo populista.” E non potrebbe essere altrimenti: il movimento dei “gilet gialli” è un qualcosa di estremamente composito, eterogeneo e per molti versi inedito.

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Se all’inizio alcuni elementi di fondo potevano rimandare all’esperienza dei Forconi italiani, ora la mobilitazione è entrata in un’altra fase—avvicinandosi alla sfera insurrezionale. Alla luce di ciò, e per rendere conto di questi grossi cambiamenti, ho pensato di mettere in fila un po’ di punti e domande che sono emersi in queste settimane.

L’ESPLOSIONE DELLA PROTESTA DEI “GILET GIALLI”

Com’è noto, è partito tutto dal caro-benzina deciso da Macron, da una petizione su Change.org e da una serie di video virali su Facebook realizzati da cittadini comuni, ma presto il tema del caro-benzina è stato inglobato da altre rivendicazioni.

La data fissata per la prima mobilitazione era il 17 novembre: più di 250mila persone sono scese in strada in tutta la Francia. Nei disordini, una manifestante è morta e oltre 200 sono stati i feriti. Il cosiddetto “atto secondo” è stato lanciato per il 24 novembre a Parigi (e nel resto del paese). Si è trattato di un passaggio decisivo, perché solo lì si poteva capire se la protesta avrebbe attecchito o meno. Il risultato è che sì, ha attecchito: seppur meno numerosi (più di 100mila persone in 1600 luoghi), i “gilet gialli” sono apparsi estremamente determinati. Secondo le stime del ministero dell’interno, nella capitale hanno sfilato più di 10mila manifestanti e gli Champs-Élysées si sono trasformati in un campo di battaglia con tanto di barricate e mezzi incendiati.

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L’“atto terzo” si è svolto il 1 dicembre. Le cifre sono più o meno le stesse—136mila persone in tutta la Francia. Ma questa volta, gli scontri a Parigi sono molto più intensi: la polizia ha sparato più di 10mila lacrimogeni, 112 auto vengono date alle fiamme, molti negozi e banche sono danneggiate, i feriti sono 134 e gli arresti 412.

Qualche giorno dopo, il governo—che sembrava intenzionato a tirare dritto—ha ceduto sulla richiesta principale, pur nell’impossibilità di confrontarsi con i “portavoce” del movimento (che nessuno riconosce veramente come “portavoce,” del resto). Il premier Edouard Philippe ha annunciato che le accise sul carburante saranno congelate perché “nessuna tassa merita di mettere in pericolo l’unità della nazione,” e aggiunge che “le tariffe di elettricità e gas non aumenteranno questo inverno.”

Naturalmente, non è bastato. Anche perché, nel frattempo, le rivendicazioni del movimento si sono fatte estremamente più ampie. Il 29 novembre sono uscite circa 40 “direttive del popolo,” frutto di un sondaggio effettuato nei vari gruppi Facebook e votate da circa 30mila persone. Successivamente è stata diffusa un’altra “carta ufficiale” di 25 richieste, che spaziano dall’economia fino alla geopolitica. Il collante della protesta, però, è indubbiamente l’ostilità nei confronti di Emmanuel Macron—il coro onnipresente, infatti, è “ Macron démission.”

Si arriva dunque all’“atto quarto,” tenutosi l’8 dicembre in circostanze di sicurezza “eccezionali”: 89mila agenti schierati nel paese; e 8mila in una Parigi incredibilmente barricata, dove per la prima volta in assoluto si sono visti gli autoblindati. Complessivamente, i manifestanti sono stati circa 125mila.

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La repressione è stata ben più dura delle volte precedenti. Circa duemila persone sono state fermate in tutta la Francia, e ben 1082 solo a Parigi; di queste, 1700 sono state arrestate. Alcuni avvocati hanno parlato di “fermi preventivi” che hanno colpito “persone che semplicemente volevano manifestare.” Non sono nemmeno mancate le violenze della polizia: tra le tante, il video qui sotto mostra un manifestante colpito da un proiettile di gomma senza aver fatto nulla.

Nonostante l’imponente dispositivo di sicurezza, si sono comunque verificati scontri e danneggiamenti. E non solo a Parigi, ma pure a Bordeaux (dov’è stato saccheggiato un Apple Store), Tolosa, Marsiglia e Nantes.

Il ministro delle finanze Bruno Le Maire ha parlato di una “catastrofe per il commercio e per la nostra economia,” quantificando una perdita dello 0.1 percento del Pil francese. Una situazione ormai insostenibile per l’esecutivo e il paese, giunto alla quarta settimana di una protesta che non accenna a placarsi.

È COLPA DI FACEBOOK?

Delle cause profonde dietro questa mobilitazione si è parlato parecchio. C’è chi, come il geografo Christophe Guilluy, identifica la principale nella frattura tra la Francia “centrale” e quella “periferica”; e chi, come lo storico Gérard Noiriel, nell’indifferenza—prossima al disprezzo—mostrata da Macron nei confronti delle classi popolari.

Con la crescente attenzione della stampa anglosassone, tuttavia, un’altra spiegazione si è fatta strada: la rivolta dei “gilet gialli” francesi sarebbe stata creata dagli algoritmi di Facebook. Una simile tesi è stata avanzata da Frederic Filloux su Medium ( How Facebook is fueling French populist rage) e da Ryan Broderick in un lungo articolo su BuzzFeed che ha avuto ampia diffusione.

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Il motivo scatenante risiederebbe la decisione del social network di cambiare il News Feed, promuovendo i post dei profili personali e dei gruppi privati. E siccome i “gilet gialli” si sono formati proprio nei gruppi, argomentano Filloux e Broderick, Facebook è indubbiamente la causa primaria che ha scatenato le proteste. A cui, fatalmente, si sarebbero poi unite le interferenze russe e/o dell’alt-right (su cui, però, non c’è lo straccio di una prova).

A ben vedere, non si tratta di un argomento così nuovo: la Brexit e la vittoria di Trump, per citare i casi più eclatanti, sono stati “spiegati” in questa maniera.

Ora, non c’è dubbio che Facebook abbia svolto un ruolo importante nell’organizzazione della protesta dei “gilet gialli”—specialmente nei primi momenti. Ma come sostengono esperti di media come Rasmus Kleis Nielsen, un social network da solo non basta: conta molto di più l’intersezione con altri media (radio e tv), e soprattutto contano i fattori politici.

A tal proposito, la giornalista del Guardian Angelique Chrisafis ha sfatato un’altra convinzione: quella che descrive i “gilet gialli” come creduloni, pronti a scendere in strada perché traviati da notizie false e teorie del complotto.

Anche qui, nessuno nega che nei gruppi Facebook circolino notizie false o complottoni; ma per l’appunto, non sono elementi completamente decisivi. Sempre Chrisafis—in un thread su Twitter—ha raccontato di aver incontrato manifestanti consapevoli, che esprimono posizioni variegate, e sono tutti incazzati neri con Macron che “all’estero si presenta come un ‘salvatore’ progressista dell’Europa, schierato contro nazionalisti e populisti, mentre in Francia il suo atteggiamento sta alienando un sacco di persone.” In più, molti manifestanti ritengono che le tasse non siano spese in maniera adeguata, che il bilancio statale sia gravato dagli sprechi, e che ci sia bisogno di migliori servizi pubblici.

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Il quadro, insomma, è nettamente più complicato della semplice asserzione “è stato Facebook!” E ci porta, piuttosto, a chiederci per l’ennesima volta da che parte pendano i “gilet gialli.”

SONO TUTTI “FASCISTI” O SIMPATIZZANTI DI MARINE LE PEN? O SONO TUTTI “ CASSEUR DI ESTREMA SINISTRA”? O SONO TUTTI E DUE INSIEME?

Fin da subito, la mobilitazione è stata caratterizzata da due tendenze. La prima è la pretesa “apoliticità” di chi indossa il gilet giallo, anche se alcuni profili dei primi “organizzatori” sembrano indicare una certa simpatia per Marine Le Pen. La seconda è l’esplicito tentativo dei partiti d’opposizione di cavalcare la protesta—su tutti la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e il Rassemblement National di Le Pen.

Dal canto suo, il governo ha immediatamente legato i “gilet gialli” all’estrema destra. Dopo l’“atto secondo” a Parigi, il ministro dei conti pubblici Gérald Darmanin ha detto che “sugli Champs-Élysées ha manifestato la peste bruna, non i gilet gialli.” Il ministro dell’interno Christophe Castaner gli ha fatto eco, parlando di “provocatori dell’ultradestra.”

In effetti, in piazza si sono viste croci celtiche e si è verificato qualche episodio di razzismo e omofobia; mentre su Internet, la cosiddetta “fasciosfera” ha abbracciato con entusiasmo la protesta. Tuttavia, come già ricostruito da Libération, l’estrema destra non è certamente all’origine del movimento. E durante il "quarto atto," i militanti dell’Action Française sono stati cacciati in malo modo dal corteo.

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Scene come questa—unite a certe scritte, certe pratiche di piazza e certi slogan come “ Paris antifa” o “ a-anti-anticapitalista”—evidenziano come nei “gilet gialli” siano confluiti anche movimenti di sinistra e attivisti antifascisti.

Come riporta il magazine Streetpress, buona parte della sinistra radicale francese è stata inizialmente scettica—ad eccezione di gruppi come Nantes Révoltée, che ha appoggiato sin dal principio i “gilet gialli.” Col passare del tempo, però, la composizione è cambiata: a Parigi (e non solo) sono scesi in piazza liceali, ferrovieri e il Comitato Verità e Giustizia per Adama Traoré (un 24enne morto a Beaumont-sur-Oise dopo un fermo di polizia).

Un attivista sentito da Streetpress, Stéphane, spiega cosa l’abbia portato a cambiare l’atteggiamento nei confronti dei “gilet gialli”: “Chiaramente, è un movimento che non parte da noi. Ma sono emersi nuovi temi. Si è cominciato a parlare di abusi di polizia, di giustizia… Gridare ‘Macron dimettiti’ in una manifestazione non equivale a chiedere la fine del capitalismo, ma di sicuro si avvicina di più alle nostre parole d’ordine.”

Ginger—un altro attivista—dice che “non sa come andrà a finire,” ma è convinto che “verrà fuori qualcosa di positivo. È la prima volta che si vede una mobilitazione del genere.” E penso che sia proprio questo il punto: anche per gli standard francesi, ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito che difficilmente è "egemonizzabile."

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Per l’antropologo Alain Bertho, che da anni studia la “globalizzazione delle rivolte,” nei “gilet gialli” si assiste alla “convergenza di diversi fenomeni” su più piani. Ovviamente, in strada ci sono giovani “in grado di rovesciare della auto, montare delle barricate, appiccare un incendio e attaccare negozi”; ma ci sono anche persone—basta vedere il profilo degli arrestati—“normali” che “hanno varcato la soglia della violenza e sono passati all’atto sapendo bene cosa stavano facendo e quello che rischiavano.”

In mezzo a gruppi politicizzati, dunque, c’è una vasta zona grigia che si espande per tutto lo spettro politico, e che ha trovato nei “gilet gialli” una momentanea piattaforma d’espressione. Nel nucleo pulsante del movimento, infatti, ci sono il totale disinteresse per una sua “traduzione parlamentare” e il rifiuto di ogni mediazione partitica—inclusa quella dei partiti populisti.

IL FUTURO DI EMMANUEL MACRON

Fino a poche ore fa Macron si era limitato a dichiarazioni di circostanza sui “gilet gialli,” quasi come se si trattasse di un fastidioso inconveniente. Nel discorso alla nazione, invece, è apparso torvo e remissivo.

Come prima cosa ha detto che "la collera è giusta, in un certo senso," per poi fare il mea culpa: "Mi rendo conto di aver fatto male ad alcuni francesi con le mie dichiarazioni." Inoltre, ha promesso un aumento di 100 euro per il salario minimo, agevolazioni per i pensionati, la detassazione degli straordinari e altre misure fiscali. "Ne usciremo bene tutti insieme," ha concluso, "attraverso questa crisi, riconcilieremo i francesi."

È difficile capire se queste promesse placheranno la protesta. Di sicuro, il presidente francese si trova in enorme difficoltà. E per un motivo piuttosto intuitivo: le ragioni che hanno portato il 72 percento dei francesi a sostenere i “gilet gialli” sono, in fondo, le stesse che hanno portato Macron al potere.

Il suo partito, En Marche!, è emerso dal cratere lasciato dall’implosione delle vecchie formazioni politiche francesi; e lui si è sempre presentato come l’outsider, colui che più di ogni altro capiva la disaffezione del popolo verso la politica tradizionale.

Proseguendo su questo solco, Macron ha approfittato della frantumazione dei corpi intermedi per porsi come interlocutore diretto dei cittadini. Ma se questa posizione l’ha avvantaggiato nel corso della campagna elettorale, da presidente l’ha reso il bersaglio di una parte consistente della popolazione. Solo che, come dice Bertho, ora “non c’è più nessuno che può mediare tra il presidente e i contestatori.”

Lo stesso Macron dev’essere ben consapevole del paradosso insito in questa situazione. Intervistato dallo scrittore Emmanuel Carrére, il presidente diceva con una certa spavalderia di non essere “fatto per governare in tempi di calma. Io sono fatto per la tempesta.” E, continuava, per “portare un paese da qualche parte bisogna avanzare a tutti i costi, non bisogna cedere, non bisogna cadere nelle abitudini e, allo stesso tempo, bisogna avere la volontà di ascoltare.”

Ma che fare quando, nel bel mezzo della tempesta, hai già ceduto un bel po' e ti chiedono insistentemente di levare il disturbo? Visto che con i “gilet gialli” è impossibile fare qualsiasi previsione, possiamo solo aspettare il "quinto atto."

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