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Il videogioco piratato "Commando" distribuito negli anni Novanta da Armati software. Immagine per gentile concessione di una fonte dell'autore
Tecnologia

Come la pirateria degli anni '80 e '90 ha cambiato per sempre i videogiochi in Italia

Le versioni piratate di giochi cult come 'Pac-land' e 'Bubble Bobble' per cabinati e home computer erano prodotte da aziende 'legali.'

È il 1989: entrando in un’edicola mano nella mano con uno dei tuoi genitori, adocchi una fila di fumetti e riviste. Alzi gli occhi e vedi pendere sopra di te decine di confezioni colorate dai titoli altisonanti: Special Games, Super Commodore 64, Hit Parade. Sono giochi, completi! Un mondo di infinite possibilità a prezzi accessibili—di sicuro chi ti accompagna non rifiuterà di aprire il borsello per misere diecimila lire (equivalenti, considerando l’inflazione, a circa 10 euro di oggi). Senza saperlo, hai compiuto i primi passi nell’Italia della pirateria.

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L’era italiana della pirateria “industriale”

Nel periodo tra la metà degli anni Ottanta e l’intera decade degli anni Novanta, l’Italia è stata la meta perfetta di chiunque volesse evitare di pagare troppo per giocare. Un mercato pirata diffusissimo, in particolare per gli home computer, come Commodore 64, Amiga e ZX Spectrum.

“In Italia, in quegli anni, la pirateria era un fenomeno industriale, così preferisco definirla, per distinguerla da quella che troviamo naturalmente in tutti i paesi,” spiega a VICE in una telefonata Carlo Santagostino, docente, informatico e imprenditore, noto soprattutto per il ruolo del professore d’informatica nella docu-fiction Rai Il Collegio. “In Italia, la pirateria era portata avanti da società regolarmente registrate, con dipendenti e bilanci in attivo.” 

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Una cassetta prodotta da Armati software, azienda di Bologna che distribuiva prodotti piratati. Immagine per gentile concessione di una fonte dell'autore

Trovare giochi piratati era agevole non solo negli stessi negozi di videogiochi, ma in seguito anche nelle edicole, dove—grazie alla loro presenza capillare—la distribuzione è diventata presto massiccia su tutto il territorio nazionale. Praticamente ogni regione aveva il suo gruppo di “cracker,” giovani programmatori che modificavano i giochi togliendo ogni eventuale protezione da copia. A volte si trattava di liberi professionisti che lavoravano in proprio, stringendo accordi con le edicole, come nel caso di F.S.N. a Napoli. Per la gran parte, erano impiegati presso le stesse aziende che distribuivano i prodotti piratati, tra cui ricordiamo la Armati software di Bologna, Sipe di Milano ed Edigamma di Roma.

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L’evoluzione del mercato videoludico tra gli Ottanta e Novanta sembrava agevolare non poco i pirati, ricorda Santagostino. “All’inizio, con console come Atari e Intellivision, la copia era impossibile: con i giochi su cartuccia i costi per la riproduzione erano troppo elevati,” spiega “Poi, con l’arrivo degli home computer e l’avvento di supporti come floppy disk e cassette, i titoli potevano essere doppiati senza grossa spesa.” Il mercato del piratato ha finito per coinvolgere anche le schede dei cabinati delle sale giochi: queste venivano studiate da specialisti, i c.d. cantinari, che smontavano gli originali pezzo per pezzo per poterli ricreare, saldatrice in pugno, producendo centinaia di esemplari da distribuire per l’Italia intera.

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Istruzioni di caricamento della cassetta pirata prodotta da Armati software. Immagine per gentile concessione di una fonte dell'autore

E non solo. “Dopo le prime sentenze di condanna, come Atari/Bertolino contro Sidam, il mercato dei cabinati ha subito la batosta finale quando una scheda modificata di Mortal Kombat arrivò addirittura negli Stati Uniti. La Midway, creatrice del gioco, fece denuncia all’FBI e, dunque, i pirati italiani furono costretti a lasciar perdere quel lucrativo fronte,” racconta Santagostino sorridendo.

Perché la legge non interveniva contro la pirateria dei videogiochi negli anni Novanta

La tranquillità con cui i distributori di copie piratate potevano agire dipendeva dalla mancata tutela del diritto d’autore sui videogiochi che, a differenza di film e musica, non potevano contare sullo stesso riconoscimento. Alcune aziende hanno tentato di combattere il fenomeno in tribunale, ma, tra la mancanza di una legge ad-hoc e i biblici tempi della giustizia, non hanno avuto successo. “Il pretore ordinava il sequestro dei titoli copiati tre mesi dopo la loro uscita, ma a quel punto era tardi. Nel frattempo ne erano già usciti innumerevoli altri,” commenta Santagostino. 

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Nonostante il vuoto legislativo, distribuire regolarmente decine di giochi dalla dubbia legalità su un mercato diffuso come le edicole richiedeva determinate tutele. I pirati dovevano avere l’accortezza di evitare i marchi— effettivamente protetti—come Super Mario per Nintendo, per cui le aziende potevano difendersi civilmente. Di fronte al problema, i pirati hanno trovato in fretta la soluzione: modificare—per la distribuzione in edicola—immagini, marchi e soprattutto, i titoli. I giochi, infatti, venivano tradotti, per quanto in maniera pedestre: essendo pagati a cottimo, i programmatori favorivano i titoli più semplici, piuttosto che quelli lunghi e complessi da tradurre. L’edicola proponeva sicuramente una grande scelta, ma l’occhio era per la quantità, non per la qualità.

Non deve stupire quindi che Pac-Land, platform a scorrimento della serie Pac-man, è arrivato in edicola con titoli come Pallino, Bibo o Clan, mentre un classico del Commodore 64 come Impossible Mission era rinominato come Infiltrator, Agente Speciale o Computer Spy. Un intramontabile arcade come Bubble Bobble è stato snaturato col titolo Bollicine, o Bad Guys; e, infine, l’indimenticato sparatutto 2D Turrican, vituperato con termini senza senso come Jehl, Go o Job. I giochi erano a volte accompagnati da schermate di caricamento dal gusto artistico “particolare”, realizzate dagli stessi pirati.

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Schermate di caricamento di giochi piratati. I titoli originali copiati sono, rispettivamente: Unit — Robocop; Futuro — Ritorno al futuro; Clan — Pac-Land; Jehl — Rambo III; Igor — Quasimodo; Sword Men — Highlander. Immagini dell'autore, composizione: Motherboard

Questa sorta di minima precauzione per le aziende si accompagnava ai rapporti lavorativi con i programmatori incaricati di effettuare le modifiche. Spesso, erano questi ultimi a rimanere soli responsabili del lavoro fatto, dichiarandosi pubblicamente come “creatori del gioco,” così che le aziende—anche in caso di sconfitta in tribunale—avrebbero potuto salvaguardarsi, dichiarando di essere all’oscuro dell’eventuale illegalità del lavoro realizzato da un esterno.

Anche per i videogiochi piratati, l’offerta si adattava alla domanda

Nella prima metà degli anni Ottanta, era già facile reperire giochi copiati, al punto che trovare giochi originali era diventato pressoché impossibile. “Un giorno mi trovavo da Supergames in via Vitruvio a Milano, dopo aver letto un’entusiastica recensione del classico Atic Atac su ZX Spectrum,” ricorda Santagostino. “Ho chiesto: ‘avete il gioco?’ E [il commesso del negozio mi ha risposto], ‘sì vuoi l'originale o la copia?’ Ovviamente non avevo idea di cosa volesse dire, ma la differenza di prezzo era enorme. E ti faceva anche lo scontrino!” Dopo qualche mese, la domanda non veniva nemmeno più posta: gli originali erano spariti nel nulla.

Alla fine del decennio, il mercato pirata diventa così diffuso e pervicace che pochi avevano il coraggio d’investire nella creazione di videogiochi originali, molte software house straniere avevano, infatti, dato il mercato italiano per spacciato.

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Illuminante è il caso della Simulmondo, tra le prime software house nazionali importanti, e del suo fondatore Francesco Carlà, che, nonostante fosse tra i maggiori oppositori della pirateria, è stato costretto ad avvalersi dell’esperienza di un’industria ormai sviluppata e solida. I primi titoli dell’azienda di Bologna, come Bocce e Tombola realizzati da Ivan Venturi, escono infatti sotto l’egida della Italvideo, azienda dietro cui si nascondeva proprio la Armati software. Carlà deciderà in seguito di uscire dall’accordo, ma quei primi passi segnano un solco ben preciso: in Italia solo i pirati sembravano disporre di fondi tali da supportare anche l’industria legittima.

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Un prodotto pirata in vendita in edicola. Immagine: edicola8bit

La situazione sembrava destinata a rimanere immutata, perlomeno prima dell’intervento dell’Unione Europea che, con la direttiva 250/91 convertita con DL 518/92, ha rinnovato la legge sul diritto d’autore (l. 633/41), tutelando finalmente anche i videogiochi. Eppure, anche questo intervento non ha segnato un cambio di rotta. “Dobbiamo aspettare il 2000 per vedere la pirateria uscire di scena, tornando a essere un fenomeno endemico,” continua Santagostino. “D’altronde, senza globalizzazione e con Internet ancora un fenomeno di nicchia, certi cambiamenti culturali avvenivano lentamente.”

L’impatto a lungo termine della pirateria sull’industria dei videogiochi in Italia

Un lato positivo dell’ingarbugliata situazione è che, sicuramente, tanti giocatori italiani hanno avuto la fortuna di provare un numero di titoli maggiore della media europea. Eppure, per quanto la nostalgia sia comprensibile, ci sono alcuni fattori da considerare. L’Italia vantava un’industria dei cabinati florida tra la fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta; la pirateria ha di fatto soffocato ogni impeto di innovazione creativa, contaminando la cultura del videogioco. Avere a disposizione in edicola numerosi titoli per poche lire ha alimentato, per anni, la generale percezione che i videogiochi fossero “giochini,” prodotti non degni di attenzione, spesa o—peggio—tutela. Impressione rafforzata dal lavoro spesso mediocre o frettoloso dei pirati, che creavano nuovi bug ed errori di ortografia nei titoli modificati.

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Un esempio di confezione di cassette "napoletane" distribuite da FSN. Immagine: edicola8bit

“La pirateria ha anche causato forti ritardi per il mercato italiano: lì dove in Inghilterra un programmatore in erba poteva diventare ricco con un titolo come Manic Miner, da noi era difficile pure esser pagato. Avevamo tutte le caratteristiche culturali, imprenditoriali ed economiche per essere un grande player nel campo videoludico,” conclude Santagostino. La differenza con il periodo dei famigerati titoli masterizzati per PlayStation, venduti anche per strada, è evidente: in quel caso, i consumatori erano consapevoli di star prendendo parte a un reato. Per il periodo home computer tale consapevolezza era del tutto assente, sostituita dalla convinzione che recarsi in negozio o edicola comportasse—giustamente—l’acquisto di un prodotto legale.

Non è un caso, dunque, che, a differenza d’Inghilterra, Francia o Spagna, in Italia non esistano oggi aziende di sviluppo storiche in senso stretto. L’unica eccezione è la milanese Milestone, fondata da Antonio Farina, responsabile per titoli racing come la serie Screamer e, recentemente, MotoGP e Ride. Altri studi, pur storicamente importanti per la nostra industria, come la citata Simulmondo o le liguri Trecision e Dynabyte, si son dovuti arrendere a un mercato piccolo, dove gli investimenti spesso mancavano e anche gli stessi giocatori sembravano insensibili al supportare il made in Italy.

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Scena dal film "Ragazzi Fuori" (1990) di Marco Risi, dove si notano sullo sfondo i giochi piratati appesi in edicola. Screenshot dell'autore

Affermare oggi che, a causa di eventi successi quarant’anni fa, non esista un’industria videoludica solida in Italia, è forse troppo semplicistico. Eppure, hanno sicuramente avuto un impatto. Ed essere consapevoli di un passato recente non onorevole, che ha ucciso sul nascere i sogni di tanti giovani programmatori e artisti—nonché alimentato un’errata visione del panorama videoludico—aiuterà a non ripetere gli stessi errori. L’industria videoludica italiana ha iniziato col piede sbagliato, ma mai come oggi potrebbe essere sulla strada giusta per recuperare il tempo perduto. Alla faccia di Pallino.

Clicca qui per la presentazione “La nascita del mercato videoludico italiano” di Carlo Santagostino all’Università di Verona.