Indipendenti dalla nascita: la storia di SUB POP

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Indipendenti dalla nascita: la storia di SUB POP

Ci siamo fatti una chiacchierata con il vicepresidente e A&R della storica label di Seattle, da sempre punto di riferimento del circuito alternativo.

Tutto ebbe inizio con una fanzine nata alla fine degli anni Settanta. Bruce Pavitt creò una pubblicazione che sulle prime era fondata su recensioni di band della scena alternativa di Washington. Una cosa semplice, insomma. Una fanzine che a un certo punto cominciò ad includere cassette nelle sue pubblicazioni. Quelle cassette documentavano la nascita di una scena carica di rabbia, energia e forza creativa che aveva il suo epicentro a Seattle, città in cui Pavitt si alleò a Jonathan Poneman, col quale iniziò a perlustrare le strade e i locali in cui si stava formando quel movimento controculturale per registrarlo e mostrarlo al mondo intero. Così nacque Sub Pop. Così la label scovò band come Soundgarden, Sonic Youth, Mudhoney e Nirvana. Così la label divenne una pietra miliare del grunge.

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Sub Pop è un'etichetta discografica di culto che per molti anni si è guadagnata la sopravvivenza con le unghie e con i denti. Dopo il successo colossale che ebbe alla fine degli anni Ottanta e all'inizio dei Novanta, dovette affrontare parecchi momenti di crisi per riuscire a stare a galla. E così anche oggi: sempre fedeli al sound della propria città, impegnati a spingere la scena che contribuirono a creare, ma stando anche attenti all'evoluzione musicale. Oggi il catalogo Sub Pop include gruppi come Beach House, Band of Horses, Mogwai e Postal Service. Attualmente uno dei responsabili della ricerca di nuovi talenti per Sub Pop è Tony Kiewel, entrato a far parte della label nel 2000, ora vicepresidente del dipartimento A&R. L'abbiamo chiamato per farci raccontare quale sia lo stato attuale della musica alternativa, quale sia la sua opinione sul boom dei grandi festival e, soprattutto, cosa significa, oggi, essere una label alternativa di culto.

Noisey: Sub Pop è stato un elemento chiave per lo sviluppo della scena alternativa degli anni Ottanta e Novanta, che sembra quasi una vita fa. Quali sono le differenze tra la scena alternativa di allora e quella di oggi?
Tony Kiewel: Gli anni Ottanta furono un periodo molto interessante. MTV ai tempi ancora passava video, mentre adesso il contenuto musicale è passato decisamente in secondo piano, se ancora ce n'è. A quei tempi, però, le band non facevano molti video, per cui c'era stato spazio per una sorta di seconda "british invasion" capitanata da gruppi come i Cure. Oggi ci sono molte più informazioni alla portata di tutti, e una band può passare dall'essere considerata underground a sfondare nel mainstream in un batter d'occhio. Pensa a quello che è successo a Father John Misty o ai Tame Impala, che ora collaborano con Beyoncé, Lady Gaga o Kanye West. Ecco, questo è molto affascinante. Oppure Pitchfork, che un tempo era la bibbia dell'underground, ora fa parte del più grande impero mediatico del mondo e copre argomenti pop allo stesso modo in cui si occupava dell'underground. La distanza tra ciò che consideriamo alternativo e ciò che consideriamo mainstream si accorcia a vista d'occhio, anche se questa pratica per cui il mainstream prende a piene mani dall'underground, ne prende sempre di più, ha sia vantaggi che svantaggi.  Personalmente, ho nostalgia di alcune forme del vecchio underground. Alla fine degli anni Ottanta c'erano i cataloghi, e questo era l'unico modo in cui potevi conoscere nuove band. Ora puoi farlo con una playlist di Spotify, ma il lato negativo di questa pratica è che essere notati tra milioni è diventato più complicato. Questa è la vera sfida: ognuno può accedere a questo serbatoio culturale, ma in pochi si stagliano in mezzo a tutto quel rumore. Oggi possiamo dire che il formato fisico sta attraversando una crisi, data la forte crescita del mercato digitale e dello streaming. Come si è adattata Sub Pop a questo cambiamento di paradigma?
Mi interessa molto parlare di questo con persone che vengono da Paesi fuori dal nostro circuito, perché per tanti anni non ci siamo posti il problema di mandare i nostri dischi in Sud America o altrove, invece adesso, anche grazie a Internet, ci rendiamo conto che abbiamo un mercato anche in Paesi che non immaginavamo ci conoscessero. Devo essere onesto: prima dell'arrivo dello streaming non eravamo mai riusciti ad attecchire in mercati "periferici". Cioè, abbiamo sempre saputo che c'era gente interessata alle nostre band in tutti i Paesi del mondo, perché appunto queste band andavano a farci dei tour e in molti casi questi tour andavano meglio delle loro date negli Stati Uniti, ma non vendevamo dischi. Oggi invece vediamo che un sacco di persone ci ascoltano in streaming, persone provenienti da Paesi che prima non facevano parte del nostro mercato, mentre ora sì. Lo streaming è diventato fondamentale per noi, impossibile da ignorare. Dobbiamo imparare da questi dati per poter crescere e assicurarci che stiamo ancora facendo le cose per bene. Si tende a vedere questa evoluzione come un ribasso, invece è molto bello riscontrare che, grazie alla portata global dello streaming, possiamo portare i nostri artisti in posti che nemmeno ci immaginavamo. Per me questa è un'opportunità interessantissima, molto più interessante che fissarsi sulla crisi.

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Come fa un'etichetta con il roster di Sub Pop a mantenersi indipendente? 
Non è facile, ci sono stati momenti in cui il nostro futuro era incerto, ma parte di quello che ci dà stabilità è che abbiamo proprio un gran bel catalogo. Certo, abbiamo passato periodi anche lunghi senza avere band veramente grosse in roster, ma dato che in passato abbiamo tirato fuori album di Nirvana, Soundgarden e Mudhoney possiamo sopravvivere anche in tempi di crisi. Dalla nostra abbiamo sempre avuto anche un po' di fortuna: quella di trovare dei bei talenti, soprattutto provenienti dal Nordest degli Stati Uniti. Grazie alla nostra vicinanza e alla nostra lealtà alla scena di Seattle siamo sempre stati nella posizione per poter lavorare con gruppi come Band of Horses, Fleet Foxes o Postal Service. Questo è il risultato della nostra coerenza, questa è la chiave: tutto dipende dagli artisti con cui lavoriamo, noi esistiamo grazie a loro. Siamo molto grati ai nostri ragazzi perché è grazie a tutti loro che possiamo mantenerci indipendenti. Che caratteristiche cercate nei nuovi artisti da scritturare?
Il dipartimento che si occupa di talent scouting è diverso da quelli di altre label, perché allo stesso tempo facciamo un lavoro di marketing. Lavoriamo insieme per capire quali siano le nostre prospettive, anche se ognuno, all'interno del reparto A&R, ha idee molto distinte dagli altri. A me interessa prendere artisti che sono evidentemente i migliori nel proprio genere, artisti che stiano creando qualcosa di nuovo nel loro campo—ma la cosa principale è che siano persone simpatiche. Per noi è importantissimo, dato che siamo un'azienda molto unita e  siamo soliti intrattenere rapporti abbastanza intimi coi nostri artisti, per questo è fondamentale che ci troviamo bene con loro in tutti i sensi, quindi è meglio che non siano degli stronzi.  Una delle caratteristiche principali di Sub Pop è il suo status di label di culto, che è una delle differenze principali con altre etichette comoe Sony o Universal. Cosa significa questo per voi?
Devo dare tutto il merito a Bruce Pavitt  e Jonathan Poneman per questo. Nel momento in cui loro due crearono la label, credo che lo fecero con un intento e un'identità molto forti. Avevano un gran senso dell'umorismo, ma anche un gusto ben preciso per quanto riguarda la musica. Oltretutto avevano un piano geniale, tutto quello che facevano a livello artistico per promuovere i propri musicisti era geniale. Penso che ancora oggi manteniamo quell'idea di sposare una linea integralista per quanto riguarda la musica o i musicisti con l'attenzione e la cura che mettiamo in ciò che ci sta attorno. L'obiettivo finale ovviamente è sempre la conquista dell'intero Pianeta, ma per ora ci basta avere una sorta di egemonia su quello che succede intorno a Seattle. Questa città ha sempre giocato un ruolo molto importante nel contesto musicale e da qui sono uscite cose pazzesche. Abbiamo mantenuto una relazione costante con la realtà cittadina e credo di poter affermare che poche altre label abbiano avuto la stessa continuità, in questo senso. È difficile immaginare in che modo la Warner possa avere una relazione simile con Los Angeles, ad esempio. Qui lavoriamo in simbiosi con la città.

I Nirvana hanno ancora un ruolo fondamentale nell'attività della label, o sono una sorta di peso sulle vostre spalle?
Non li considererei un peso, niente affatto. Per noi sono stati importantissimi e siamo molto grati di aver giocato un ruolo, come Sub Pop, nella carriera della band. Non lo vedo nemmeno come qualcosa che dobbiamo superare, anzi, la nostra relazione con il loro album Bleach ci riempie ancora d'orgoglio. Ci sono persone che ancora oggi sono molto legate a quel disco, e questo ci aiuta a rimanere quello che siamo, in un certo senso, ed è per questo che siamo molto grati a quei ragazzi. Oggi sembra che i festival stiano vivendo un periodo d'oro. Però credo che ci sia una specie di bolla, artisticamente parlando, che fa in modo che sia sempre più complicato trovare headliner di qualità che riescano anche ad attirare il grosso pubblico. Tu che ne pensi di questo boom di festival?
Non mi fa impazzire, e mi trovo d'accordo con te. È come se i festival di tutto il mondo guardino quello che succede al Coachella per poi fare una specie di lavoro di taglia e cuci per creare le proprie line-up. Ci sono un po' di festival più piccolini che ancora cercano di fare ricerca e creare una comunità di persone che li segua per il loro valore artistico, ma ce ne sono parecchi altri che invece sono decisamente più poveri in questo senso, e questo mi intristisce perché mi rendo conto che l'unico modo in cui un pubblico più giovane può conoscere le band con cui lavoriamo è vedere un loro set pensato esclusivamente per un festival. In senso lato un festival è semplicemente un mega-evento, il che non è per forza un male, io mi sono sempre divertito ai festival, ma non sono sicuro che siano il miglior ambiente in cui avvicinarsi alla musica. Oltretutto credo che in un certo senso i grossi festival cannibalizzino gli artisti, perché molti degli emergenti suonano a orari assurdi o in palchi davanti ai quali c'è poca gente, oppure di fronte a un pubblico più interessato ad altro, tipo a divertirsi o a drogarsi. Non che io abbia qualcosa in contrario a questo tipo di fruizione, ma credo che se un ragazzo spende 300 sacchi per andare a un festival è difficile immaginare che gli restino soldi per andarsi a vedere altri concerti, e questo è il lato che mi preoccupa di più.

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