I rabbini amiconi

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A11N2: È andato da quella parte

I rabbini amiconi

Nella Milano del 2015 il loro modo di vivere può sembrare anacronistico, ma i Lubavitch non hanno alcun interesse ad essere "moderni": sono andato a conoscere la comunità lombarda di una delle più grandi organizzazioni ultra-ortodosse dell'ebraismo.

Alcuni ragazzi lubavitch della scuola talmudica (Yeshivà) in giro per il centro di Milano. Tutte le foto di Almasio Cavicchioni.

Mi sento a disagio. Sarà perché mi hanno fatto sedere in un banco solitario, vicino alla lavagna, oppure per la parete a vetri, che trasforma la stanza in una specie di acquario. L'aula poi è vicino all'uscita, e chiunque passi di qui non può non notarmi. Per giunta il banco è troppo piccolo per me. Sinceramente, non ero preparato a tutto questo. Avevo concordato l'intervista ma non mi aspettavo di trovarmi unico maschio in una classe con una ventina di ragazze diciottenni, tutte con capelli lunghi e vestite in maniera castigata, con felpe che coprono le braccia e gonne sotto il ginocchio.

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Sono al Beit Chana, un collegio di Milano per giovani ragazze ebree ultra-ortodosse. Le studentesse, a malapena maggiorenni, vengono qui per imparare a diventare buone mogli e madri. Sono ebree "Chabad Lubavitch", una delle più grandi organizzazioni ultra-ortodosse. Arrivano da tutto il mondo, molte di loro sono statunitensi ma ci sono anche francesi, qualche israeliana e un paio di ragazze sudamericane. Sono tutte venute a Milano apposta per seguire questo corso: una specie di vacanza-studio prima del matrimonio.

Nonostante abbiano fatto una scelta insolita per la maggior parte dei giovani della loro età, mi sembrano tutte estremamente felici, anche se qualsiasi diciottenne sarebbe felice in una giornata di sole lontano chilometri dai genitori e circondato da nuovi amici. Probabilmente per loro l'anno che trascorreranno qui dentro è un periodo sabbatico fra il mondo della scuola e l'età adulta, con i suoi impegni e responsabilità, che le aspetta una volta sposate.

Quando ho contattato la comunità con l'intenzione di scrivere un reportage sono stati molto felici di accogliermi, mi hanno fatto sedere al banco vicino alla lavagna e mi hanno affidato alle cure di Betsy, la signora che tiene il corso per le brave mogli.

Betsy ha 65 anni, è nata negli Stati Uniti ma risiede in Italia da più di cinquant'anni. È piccola ma estremamente energica. Sembra quel tipo di prof che gli studenti ricordano anni dopo la fine della scuola. Come le sue allieve, anche Betsy tiene braccia e gambe ben coperte. Solo che lei indossa anche una parrucca: in quanto donna sposata, non deve assolutamente mostrare i capelli a uomini che non siano suo marito. Questione di "modestia", come dicono da queste parti, di far capire che una donna non è "disponibile".

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Tra pochi anni, forse tra pochi mesi, anche le adolescenti sedute ai banchi vicino al mio saranno sposate e porteranno la parrucca. Betsy è molto chiara a riguardo: "Non capisco come possa un marito accettare che sua moglie vada in giro svestita." Per lei i capelli sono una parte molto intima di una donna: "Come può accettare che faccia vedere una cosa così privata? Le cose che riguardano la vita coniugale, come il proprio corpo, devono stare all'80 percento nella sfera privata."

Quanto alle gonne sotto il ginocchio e alle maniche lunghe, è perentoria: "Noi diamo alle ragazze regole molto chiare. Il corpo è prezioso e deve essere protetto, e lo si protegge coprendolo. Tu adesso ne vedi solo un piccolo gruppo, ma esistono centinaia e centinaia di ragazze che scelgono di vestirsi in questo modo in tutto il mondo. E lo fanno per se stesse, non per gli altri." Quando ci siamo presentati, Betsy e io non ci siamo stretti la mano. I Lubavitch evitano qualsiasi forma di contatto fisico tra uomini e donne, strette di mano incluse—sempre per "modestia".

I Lubavitch fanno parte della corrente ultra-ortodossa chassidica. Nata nel Settecento in Russia, questa comunità si distingue dalle altre per una maggiore apertura verso gli ebrei non osservanti. Ha più di 200.000 membri ed è presente in 75 nazioni, Italia compresa. Il loro numero è in aumento sia a Roma che a Milano, dove sono arrivati nel 1959.

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Festa dell'Upshernish, in cui ai bambini di tre anni vengono tagliati per la prima volta i capelli.

Essendo ortodossi, seguono regole di comportamento molto precise: osservano alla lettera il riposo del Sabato ebraico (niente macchina, niente tv, niente smartphone), si sposano presto (in genere tra i 18 e i 25 anni) e hanno molti figli. Nella Milano del 2015 il loro modo di vivere può sembrare anacronistico, ma i Lubavitch non hanno alcun interesse ad essere "moderni": "Noi crediamo sia Dio a dirci cos'è giusto e cosa è sbagliato, come fa nella Torah e nella Bibbia, io non posso certo paragonarmi a Dio. Posso solo scegliere se ascoltarlo o meno," mi spiega Betsy.

Il mondo esterno, quello laico e moderno, va tenuto a debita distanza: "Spesso non ce ne rendiamo conto, ma noi assorbiamo un sacco di stimoli dall'esterno, che non sono nostri," prosegue Betsy. "La nostra risposta a questo è Think Jewish—pensa ebraico."

Nella comunità ebraica milanese, che conta circa 9.000 persone ed è prevalentemente laica, i Lubavitch si sono fatti una discreta fama di gente amichevole e alla mano: sono quelli sempre disponibili ad aiutare gli altri ebrei, sempre pronti a invitarti a cena o a trascorrere le feste a casa loro. È gente che sa come tirarti in mezzo. Una mia amica li chiama "i rabbini amiconi".

Il risultato è che stanno diventando un punto di riferimento dell'ebraismo milanese: ai loro eventi c'è sempre un sacco di gente. Mentre le altre comunità ultra-ortodosse tendono a escludere, i Lubavitch puntano sul proselitismo e tentano in tutti i modi di recuperare il maggior numero possibile di pecorelle smarrite. Ovunque ci sia un ebreo da riportare sulla retta via, c'è un lubavitch pronto a farlo: non importa se sei assimilato, se non parli una parola di ebraico e se per pranzo mangi hot dog. "È la forza del Rebbe," mi spiega il rabbino Sendi Wilschanski, "è stato il primo a dire andate, crescete e conquistate." Il "Rebbe", al secolo Menachem Mendel Schneerson, è stato l'ultimo capo spirituale dei Lubavitch. Dal 1941 al 1994 ha guidato la comunità, portandola a diffondersi in tutto il mondo.

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La sua figura è stata talmente importante che a oggi non è ancora stato eletto un suo successore, e secondo alcuni il Rebbe non sarebbe morto, e forse è l'atteso Messia. Se entrate in un edificio in cui vivono o lavorano lubavitch ci troverete una sua foto.

Anche questa scuola non fa eccezione: ci sono ritratti del Rebbe, un uomo anziano con una gran barba candida, praticamente in ogni stanza, inclusa quella in cui incontro il rabbino Wilschanski. Mi aspettavo un uomo di mezza età, invece mi ritrovo davanti una persona che dimostra meno dei suoi 34 anni. Nato in Israele da una famiglia di origine russa, è in Italia da circa dieci anni. I rabbini lubavitch non scelgono dove andare, ma vengono mandati dalla "casa madre" a Crown Heights, Brooklyn. È sposato da dieci anni e ha quattro figli.

Il suo, mi racconta, è stato un matrimonio combinato. Non conosceva ancora la sua futura moglie quando i parenti dei due hanno cominciato a organizzare la cosa: "Non se ne incontrano facilmente di ebrei ultra-ortodossi. I suoi genitori hanno sentito da amici che io dovevo sposarmi, i miei genitori hanno sentito che anche lei doveva ancora sposarsi. I nostri nonni si conoscono da molti anni e siamo anche parenti alla lontana. Ci siamo incontrati tre o quattro volte e poi ci siamo sposati," racconta.

Questa è una prassi abbastanza normale fra i Lubavitch. Visto che stanno ancora insieme, deduco che il matrimonio sia andato bene. Il fatto che sia stato combinato non significa che gli sposi non siano innamorati, ma solo che per loro il matrimonio è il punto di partenza di una relazione, non un possibile punto di arrivo.

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Anche se fa un po' fatica con l'italiano, il Rabbino Sendi sembra molto contento di parlare con un giornalista. Quando scopre le mie origini ebraiche, poi, si illumina e mi invita a celebrare la Pasqua ebraica al Seder (la cena speciale, con canti e preghiere, con cui si celebra il primo giorno di festa) organizzato dalla comunità lubavitch. Mi chiedo se stia cercando di convertirmi, o qualcosa del genere: "Non esiste un ebreo che ha perso totalmente la sua ebraicità. E si può sempre riaccendere la sua anima e la sua vita spirituale."

Per raggiungere questo obiettivo, i Lubavitch non esitano a ricorrere a ogni mezzo di comunicazione. Se generalmente le altre correnti di ebrei ultra-ortodossi tendono a evitare la tecnologia—nel 2012 hanno partecipato in 40.000 a una gigantesca "manifestazione contro Internet" a New York—i Lubavitch non si fanno di questi problemi: "Il Rebbe diceva che se Dio ha permesso agli uomini di inventare i mezzi di comunicazione, allora possiamo servircene," spiega Sendi. Che aggiunge con orgoglio: "Noi siamo stati i primi a usare la televisione o internet per diffondere l'ebraismo. Se il mondo è creato da Dio e tutto avviene per volontà di Dio, allora possiamo e dobbiamo usare ogni mezzo per diffondere la sua parola."

Mentre parliamo suona la campanella. Il rabbino mi lascia per andare a prendere i figli a scuola, non prima di avermi promesso di mandarmi l'invito per il Seder via WhatsApp. La stanza serve per un seminario e mi devo spostare in corridoio. Poco lontano da me una ragazza prega vicino a una libreria Billy dondolandosi avanti e indietro. Temo di essere inopportuno e decido di salutare e lasciare la scuola.

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Una classe della scuola lubavitch. Alle ragazze viene insegnato come vivere con "modestia" in preparazione al matrimonio.

Ho un altro appuntamento con una signora ultra-ortodossa. Nonostante i miei buoni propositi, mi perdo e mi presento 20 minuti in ritardo. Arrivo a casa di Gheula Canarutto Nemni, una scrittrice. Gheula non sembra essersela presa per il ritardo e mi accoglie con molta cordialità, sempre senza stringermi la mano. Ci accomodiamo al grande tavolo del salotto. Sul muro, immancabile, un enorme ritratto del Rebbe che ci guarda. Gheula viene da una famiglia ebraica italianissima, che, mi dice, sta qui dal 1300.

Dopo aver lavorato all'Università Bocconi come assistente, ha deciso di ritirarsi dal mondo del lavoro. Oggi gestisce un blog e ha appena pubblicato un romanzo ambientato proprio nella comunità ebrea ortodossa, intitolato Non si può avere tutto.

A differenza delle persone che ho incontrato in precedenza, lei non viene da una famiglia lubavitch, si è avvicinata a questa corrente da adulta. "Sono nata in una famiglia che è osservante, ma non è lubavitch. Abbiamo sempre pregato tre volte al giorno, abbiamo sempre osservato lo Shabbat. Però i miei mi avevano mandato a studiare alla scuola lubavitch fino alla terza media." Mi spiega che i suoi genitori avevano scelto la scuola lubavitch perché insegna l'ebraismo in una maniera molto più approfondita rispetto alle scuole della comunità ebraica—una scelta che fanno in molti per i propri figli.

Da lì Gheula è rimasta legata alla comunità ultra-ortodossa, tanto che a 15 anni si è pagata un biglietto aereo per New York con i soldi ricevuti in regalo a ogni compleanno. L'obiettivo era andare a conoscere il "Rebbe". Gheula ha sette figli, e a soli 43 anni è già nonna di due nipoti. Vivere da ebrei ultra-ortodossi nella Milano del 2015 per lei è una sfida: "La sfida di rimanere te stesso in un mondo che ti vuole omologato agli altri, di costruire un'identità diversa, unica."

Mentre torno a casa rifletto sulla mia giornata in mezzo agli ebrei ultra-ortodossi e mi viene in mente che la ragione del successo dei Lubavitch non deriva solo dal saper comunicare molto bene, dal loro proselitismo o dall'adattamento strumentale alla modernità che fa convivere WhatsApp con le regole sulla "modestia". La loro grande forza è quella di offrire un'alternativa: in un mondo sempre più complesso e che può sembrare privo di direzione, loro sono una sorta di punto fermo, che trova la sua forza nell'idea che la religione sia qualcosa di immutabile e con un sistema di valori ben definito. I Lubavitch dicono una cosa molto semplice, che può suonare molto rassicurante: affidandosi completamente a Dio e alle sue decisioni si può essere felici. Basta crederci, e stare alle regole—e questo non è altrettanto semplice.